Pensiero del Presente / 28 maggio 2020. Appunti e letture

▸ dai giorni del coronavirus

Ci sono eventi che d’improvviso aprono un varco nell’opacità del nostro vivere collettivo e nell’ordinarietà delle nostre vite individuali. Così avvenne con la strage in piazza della Loggia e la risposta che la città diede, così è accaduto – su ben altra scala – con la rapida diffusione del virus e l’isolamento con il quale si è cercato di farvi fronte. Vicende radicalmente diverse, ma che fanno comunque riflettere sul bisogno ineludibile di una memoria collettiva sensibile e capace di elaborare gli avvenimenti. Un bisogno che attraversa epoche diverse – gli anni ’70 e quelli che viviamo –, due epoche tra loro lontane, più di quanto inevitabilmente implichino i decenni passati ma, appunto, accomunate – soprattutto agli occhi di chi è testimone dell’una e dell’altra – da una stessa esigenza di memoria.
A vent’anni dalla strage, nel ’94, mi ero provato a ripercorrere l’evoluzione della memoria della strage e delle sue manifestazioni: dal ricordare al commemorare fino al celebrare, in un progressivo processo segnato non tanto dal naturale affievolimento della memoria, quanto dal suo scolorirsi nelle forme della memoria pubblica prima e dalla sua cristallizzazione nei riti celebrativi poi: un processo storico e culturale non inevitabile; una perdita che, contrariamente a quanto negli anni seguenti è avvenuto, sembrava irreversibile. Quanti si sono adoperati per contrastare questo processo, e per garantire la trasmissione di una memoria viva ai giovani che nel ’74 non erano ancora nati, sanno bene il lavoro che è stato, ed è, necessario. Un lavoro che non può conoscere interruzioni e latitanze, che si deve alimentare di una ricerca permanente e tradursi in iniziative di informazione e di sensibilizzazione, innovando sempre formule di comunicazione e modalità di coinvolgimento.

Un concorso di iniziative individuali, collettive, istituzionali come quelle ininterrottamente messe in campo per conservare la memoria della strage, deve intervenire anche oggi, perché nei giorni della grande malattia sono affiorati modi essere, di pensare, di fare che non possiamo permetterci di perdere, e occorre quindi cercar di fissare fin d’ora, pur nella parzialità dei punti di vista e delle esperienze che ciascuno di noi ha conosciuto, nella differenza delle condizioni sociali e dei ruoli a partire dai quali si sono vissuti e si stanno vivendo questi mesi, avendo una prova ulteriore di come la memoria collettiva sia attraversata da memorie fra loro diverse, come non possono d’altro canto non essere quelle di chi ha potuto difendersi dal contagio accettando il confinamento e quanti hanno dovuto invece, proprio per rendere possibile quello stesso confinamento, affrontare giorno dopo giorno il rischio.

Un aspetto, questo, messo ben in luce da un antropologo, Berardino Palumbo: “L’ipereccitata socialità mediatizzata, le frequentazioni di social e le scritture alle quali possiamo dedicarci e alle quali ci dedichiamo, anche in questo momento, scrivendo e leggendo, sono un lusso con il quale l’appartenenza di classe romanticizza (come è stato scritto in un post che ha fatto il giro del mondo) il nostro isolamento e lo sfruttamento del tempo e delle vite altrui, sul quale quello può fondarsi”.

Alcuni tratti significativi del sentire collettivo e dei comportamenti diffusi possono comunque essere individuati e sommariamente descritti:

  1. Il confronto collettivo con la morte innanzitutto, con il pensiero della morte; un confronto capace di saldare il dolore per la morte degli altri con la minaccia della propria, di far dialogare la pietà e la paura, di sgombrare il campo dalla rimozione della irrimediabile solitudine della morte (crudelmente concretizzatasi nelle modalità in cui si è in molti casi verificata in questa occasione) e insieme della sua costante vicinanza alla vita.
  1. La percezione diffusa del fatto che ogni vita è fatta della vita degli altri; di qui il manifestarsi di una solidarietà sostanziale, saldamente ancorata alla consapevolezza che la volontà di vivere ci è connaturata quanto il destino di morire, e che questi sono i fatti della vita che la vita spesso sembra dimenticare: paradossalmente, l’isolamento si è rivelato per molti la condizione di un’inedita, sostanziale vicinanza agli altri, l’occasione del risveglio di un sentimento comunitario che finora era rimasto oggetto di un’indistinta nostalgia, ed “eventi” eclatanti, capaci di riunire in uno stesso luogo migliaia di persone, non avevano saputo evocare con la stessa limpidezza.
    È perciò sembrato di poter constatare la non irreversibilità di quella “morte del prossimo” che uno psicanalista attento alle mutazioni delle mentalità dominanti aveva indicato come il carattere di “una dimensione umana senza precedenti”, nella quale “la lontananza dagli altri causa una privazione che è un vero danno psichico”, per cui “l’uomo solo incontra la depressione; e, a circolo vizioso, l’uomo depresso è un uomo cui mancano la forza e la spinta per andare incontro al prossimo”.
    È un antropologo a registrare invece un movimento opposto: “Al momento credo si possa dire che, nonostante l’effetto desocializzante delle norme antivirali e la conseguente mediatizzazione delle relazioni, nella sfera pubblica, come anche nella consapevolezza di molte persone (molte di più di quante non riuscissi a immaginarne solo tre mesi fa), si assista a un “ritorno del sociale”:

quel sociale che nei discorsi mediatici, politici, ufficiali, nelle stesse partizioni accademiche e nel senso medio borghese era considerato (…) in ritirata. (…) “Il sociale” si riaffaccia prepotentemente alle nostre coscienze: tornano gli operai, tornano i carcerati, tornano – al di fuori della logica della carità – i marginali. Riemerge come topos pubblico la produzione, occultata da decenni di ideologica e autonoma esaltazione del consumo e del soggetto consumatore. Crolla l’economia dell’effimero (dalla finanza al turismo, all’economia della cultura e delle tipicità) e produrre o non produrre cibo, distribuirlo o non distribuirlo, fabbricare aerei, automobili o respiratori salva-vita tornano a essere questioni consapevolmente politiche. Insomma, a me pare che l’attacco che il virus sta portando al bios, più che l’attentato che le politiche dell’eccezione stanno e potrebbero portare alla nostra specifica “forma di vita”, stia rimettendo il mondo sociale a testa in su”.

  1. La considerazione ammirata e riconoscente con la quale la sensibilità collettiva ha preso atto del comportamento di chi ha dovuto affrontare corpo a corpo il male: la rivelazione di una generalizzata vocazione, la dimostrazione di un eroismo finora rimasto sotto traccia, sono stati chiamati in causa per spiegare l’abnegazione di medici e infermieri, quando – chi ha potuto ascoltare queste persone – le ha sentite parlare piuttosto di un’altra motivazione: la compassione, il non potersi sottrarre al patire insieme ai malati.
  1. La scoperta dell’essenzialità che può informare la vita quotidiana, il saper vedere quel che si ha la fortuna di avere, il saper vivere davvero le relazioni che sono parte insostituibile della nostra esistenza, l’arrivare a scorgere, non in eventi eccezionali e in iniziative inedite ma nella successione dei gesti quotidiani, la trama di quella ritualità collettiva di cui avvertiamo la carenza o denunciamo la scomparsa. E a questa ridestata consapevolezza si può in qualche modo ricondurre anche la percezione altrettanto nuova dell’ambiente nel quale la maggior parte di noi vive, del paesaggio urbano che percorriamo quotidianamente senza quasi più vedere: la sua scontatezza, la sua apparente banalità sono state drasticamente contraddette dalle impressioni suscitate dal vuoto delle strade e delle piazze, dal silenzio dei giardini e dei parchi, dalla presenza attonita dei palazzi e delle case. Una urbs privata della vita e del calore della civitas, ha accolto i nostri sguardi meravigliati, accorati di fronte a una realtà che sembrava esser rimasta ad attenderci, paziente.
  1. E fra i sentimenti e le risposte emerse anche l’indignazione, per le approssimazioni, le valutazioni infondate, le competitività fuori luogo e fuori tempo di alcuni amministratori e rappresentati politici. L’indignazione davanti agli errori commessi, in particolare, nella gestione della malattia nelle case di riposo – le “RSA” –, errori tragici che, al di là dell’insipienza e dell’irresponsabilità di chi ne è responsabile, non si è potuto non considerare come spia di un modo diffuso di considerare i vecchi e di rapportarsi alla vecchiaia.

Chi ha vissuto la malattia in prima persona, perché raggiunto da essa o perché chiamato a farvi fronte, chi ne è ha visto colpite le persone più vicine, o ne ha visto compromesso il proprio lavoro e minacciato il tenore della vita propria e della famiglia, potrà certamente sottolineare aspetti e aggiungere notazioni diverse, ma questo non incrina e anzi rafforza il bisogno di far memoria, da subito, prima che il ghiaccio si richiuda, e quanto avvenuto si riduca in poche formule stereotipe per poi scivolare fuori dai discorsi. Un processo già visto all’indomani di gravi sciagure e traumi collettivi ma tanto più plausibile in relazione a fatti accaduti e a ricordi registrati in un tempo fuori dal tempo come quella del confinamento, in una dimensione – almeno per chi non è stato toccato direttamente o quanto meno da vicino dalla malattia – accostabile a quella dell’incubo il cui ricordo, complice una comprensibile tendenza a liberarsene, si fa rapidamente labile, evanescente, irreale.

La memoria ha perciò bisogno di ancorarsi, non solo alle parole: anche alle cose. L’ha rilevato già alla fine dello scorso aprile l’autore del “minidiario” già segnalato da secondorizzonte:

“Non sappiamo ancora come si racconterà tutta questa vicenda, non sappiamo nemmeno se prima o poi qualcuno potrà tornare in un museo, se è per quello, ma sappiamo che è una cosa che andrà in ogni caso documentata. E così le teste pensanti di molti musei del mondo si sono organizzate e hanno cominciato a raccogliere materiali relativi alla pandemia covid-19 (…). Mascherine, disinfettanti, guanti, tute, respiratori, manifesti, fotografie, avvisi, tutto quanto potrebbe essere utile. (…) Vanno raccolti gli elementi che possano documentare, nel futuro, le risposte mediche, scientifiche e culturali alla pandemia. La lettera di Johnson alle famiglie inglesi, per esempio, i magneti inseriti nel naso di un medico inglese a marzo nel tentativo di creare una barriera al contagio per via respiratoria, magari i respiratori creati dalle maschere di Decathlon e così via. Il British Science Museum di Londra ha una specifica galleria dedicata alla storia della medicina e, come museo anglosassone, ha una consuetudine e un’esperienza costruita negli anni sull’organizzazione di esposizioni partendo dagli oggetti quotidiani. Il museo, e non è il solo, ha dichiarato tempo fa di essere attivo nella raccolta di oggetti: ‘Alcuni articoli che sono già stati donati vengono per il momento archiviati in modo sicuro presso lo Science Museum, mentre altri materiali vengono custoditi dal donatore fino a quando non sarà possibile aggiungerli alla collezione’. (…) A questo servono i musei, a mettere in ordine i fatti e a ricordare. Anche se a molti non fa piacere”.

E come il museo londinese, così quello barcellonese della Storia della Catalogna che, per conservare i “ricordi di una pandemia”, ha sollecitato i cittadini a partecipare a una “campagna di raccolta di oggetti” che il Museo esporrà come parte del proprio patrimonio.

È senz’altro da accogliere la proposta di dedicare fin dal prossimo anno il 18 marzo (il giorno in cui abbiamo visto, a Bergamo, la fila dei camion militari carichi di bare) alla memoria dei morti di coronavirus, ma questa memoria resterà attiva solo se alimentata da un lavoro non occasionale ed effimero di raccolta di testimonianze, di racconti, di immagini, di oggetti materiali che fissino il ricordo di quel che è stato, e speriamo non torni ad essere. In questo senso si sono alzate le voci di sindaci, a partire da quello del capoluogo:

«Non penso che la strada sia quella di un monumento tradizionale: serve un segno urbano che sia frutto della creatività di molti (…) serve un percorso di ricostruzione che non è fisica, come è successo nel dopoguerra, ma comunitaria: ci sono vuoti da colmare e ferite da rimarginare, c’è, soprattutto, una memoria da coltivare»

Contemporaneamente, il vescovo di Brescia ha sollecitato “una raccolta di racconti e ricordi” con l’iniziativa Il filo delle memorie Brescia Covid 19, e il presidente della Casa della Memoria, Manlio Milani, ha sottolineato il parallelo che si può istituire fra i fatti del ’74 e gli attuali:

“Come abbiamo curato la ferita di Piazza della Loggia, con il raggiungimento di una verità, anche se parziale, possiamo tentare di curare queste nuove ferite. E per farlo dovremmo trovare un momento per ricordare le vittime, intitolare a loro un memoriale”.

“Forse – ha scritto Marco Toresini, direttore dell’inserto bresciano del Corriere della Sera – avremmo bisogno anche noi della nostra collina di Spoon River”:

In provincia di Brescia non sono tanti i cimiteri sul collina ma basta passeggiare tra le tombe dei camposanti di qualche paese della Bassa per capire che quegli oltre duemila morti accertati per Covid e le altre centinaia di persone decedute con sintomi molto simili hanno tracciato un solco profondo nelle comunità, hanno cancellato generazioni, grandi e piccole storie di vita vissuta”, e dunque, “se dovessimo perdere memoria anche solo di quel patrimonio di condivisione messo in campo in queste settimane di mobilitazione generale, finiremmo per perdere il senso degli sforzi fatti per vincere insieme una battaglia maledetta. E per non onorare a dovere gli ospiti della nostra personale collina di Spoon River”.

Nello stesso senso si era espresso sullo stesso giornale, già verso la fine di aprile, Massimo Tedeschi:

“(…) un monumento, un memoriale. Il Grande Flagello ha fatto, sul territorio bresciano, più morti di quanti ne fece la Seconda Guerra Mondiale. Impossibile non pensare a come ricordarlo con un segno pubblico, solido ed eloquente. Gli artisti interpellati sapranno trovare una risposta. È gradita la sobrietà. Agli Stati Uniti, che non difettano di retorica pubblica, sono bastate le 140 lastre di granito nero che formano “The Wall” a Washington per ricordare i nomi dei 53.318 caduti nella guerra del Vietnam.

Ma c’è un ulteriore impegno che dovrebbe accomunare tutti per rendere omaggio ai caduti di questa tragedia che segna e segnerà il XXI un secolo: un memoriale. Le mille testimonianze, foto, voci, riflessioni oggi disseminate su media e social domandano un luogo dove addensarsi, le migliaia di vittime invocano un luogo per essere ricordate. Brescia è ricca di case, fondazioni, cattedre universitarie che hanno fatto della memoria la loro materia d’elezione. Servirebbe un memoriale sul modello di quello di Ellis Island, che ricorda il dramma delle emigrazioni, o del Museo ebraico di Berlino: spazi dove si stratificano i documenti, le immagini, le sensazioni, le testimonianze capaci di generare al tempo stesso ricerca, memoria, emozioni. Lì andrebbe ricreato uno spazio che restituisca le luci al neon, il rumore ritmico dei ventilatori meccanici, il fruscio dei passi e delle tute asettiche del personale, il brusio dei lamenti e delle consolazioni. Lì, solo lì, capiremmo l’ambiente artificiale che ha accolto gli ultimi respiri, gli ultimi attimi di vita di tanti amici e parenti, lontano da noi. E, più che un memoriale, diventerebbe un sacrario”.

Un memoriale, un sacrario, un archivio, un museo: i luoghi e le definizioni possibili sono molte. L’essenziale è non rimandare questo lavoro di raccolta.
In questo senso si è mosso, a partire dalla metà di marzo, secondorizzonte che, sotto un titolo comune – Dai giorni del coronavirus –, ha accolto e continua a riunire racconti e poesie a loro modo in grado di render conto dell’evoluzione del nostro sentire nei diversi momenti che abbiano vissuto, fino ai cambiamenti indotti dalla “fase due”. Un cambiamento sul quale si stanno applicando analisi puntuali:

“La condizione del lockdown è stata una condizione strana – constata ad esempio un filosofo, Rocco Ronchi. “Non lo è di meno quella che è appena iniziata, nella quale siamo costretti a “parodiare” la vita “di prima”: sono infatti gli stessi gesti “di prima” quelli che dobbiamo fare uscendo di casa, come prendere la metro per andare a lavorare oppure bere un caffè, ma lo dobbiamo fare in modo circospetto, rivolgendo ad essi un’attenzione supplementare, quasi li dovessimo recitare piuttosto che effettuare. (…) La stranezza della condizione è data, insomma, dalla necessità di tematizzare riflessivamente quanto prima giaceva sullo sfondo come qualcosa di immediatamente agito, ma non “saputo”. Il nostro essere “sociale” passa ora attraverso l’immediatezza dei nostri corpi viventi, i quali, “prima”, funzionavano da presupposto tacito. (…) Nella fase del lockdown “duro e puro” a essere straniata era stata la vita domestica. In quella situazione claustrofobica, a venire in primo piano erano stati i consolidati ruoli familiari, i gesti sempre uguali della autoriproduzione della cellula familiare, i rituali del cibo, della convivenza, dell’allevamento della prole (oppure, nel caso del single, la sua anomica solitudine). Nella fase 2 a essere investita dallo straniamento è invece la vita sociale: il lavoro, l’operosità, il “negozio”, le relazioni, l’amore…”.

Quel che è certo – in conclusione – è che, al di là dei modi in cui si concretizzerà, una memoria viva di ciò che è avvenuto si colloca fin d’ora fra le condizioni essenziali perché quella che verrà dopo sia una vita all’altezza dei tempi che ci aspettano.

Riferimenti

Ricordare, commemorare, celebrare. Cronache del 28 maggio era il titolo del saggio contenuto in Memoria della strage. Piazza Loggia 1974-1994, a cura di Carlo Simoni (Grafo 1994).
Il saggio dell’antropologo Berardino Palumbo, da cui sono tratte le due citazioni riportate, compare nell’instant ebook Pandemia 2020, curato da Alessandra Guigoni e Renato Ferrari e scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore (M&J Publishing House).
Lo psicanalista citato è Luigi Zoja; il libro da cui sono tratte le sue parole, La morte del prossimo (Einaudi 2009).
La pagina – “giorno 54”, 30 aprile – del “minidiario” segnalato da secondorizzonte lo scorso 2 maggio è tratta dal sito trivigante e le cose.
Le parole del sindaco di Brescia Emilio Del Bono, di Manlio Milani e di Marco Toresini sono tratte dall’inserto bresciano del Corriere della Sera del 22 maggio; quelle di Massimo Tedeschi dall’articolo comparso sullo stesso giornale il 26 aprile.
Il brano di Rocco Ronchi è tratto da un articolo pubblicato dalla rivista on line “Doppiozero” lo scorso 15 maggio (https://www.doppiozero.com/materiali/il-teatro-del-virus).

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