Il segreto dell’arte

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La vicenda delle diverse generazioni di una famiglia di cartai di Toscolano Maderno, sul lago di Garda, incontra la grande storia in un arco di tempo che va dall’età napoleonica agli anni ’50 dell’Ottocento.
Costruita sulla base di una documentazione in gran parte originale, la narrazione corre su più piani e si ambienta in luoghi e situazioni tra loro diverse: il fervore di attività delle fabbriche di carta e il paesaggio della gardesana Valle delle Cartiere, gli intrighi dei palazzi della Milano napoleonica e i silenzi raccolti dei monasteri benedettini, riunendo in un intreccio avvincente avventure imprenditoriali, vicissitudini umane e inquietudini esistenziali.
Con questo romanzo si conclude il ciclo narrativo iniziato con
L’orizzonte del lago e proseguito con I tempi del mondo.

Quelle che seguono sono alcune pagine del Segreto dell’arte in cui compaiono alcuni personaggi – il monaco Bartolomeo, Clemente, che svolgono un ruolo essenziale nel romanzo – e il luogo in cui gran parte della storia si svolge: la Valle delle cartiere  a Toscolano, sul lago di Garda. Qui è ambientata la vicenda del cartaio Faustino Andreoli e della sua famiglia, fabbricatori della carta pregiata che il governo napoleonico richiedeva.

In un monastero dell’Appennino,
la mattina del 25 di Maggio del 1806

La luna si è levata poco dopo la metà della notte e illumina i monti e i boschi che ne ricoprono le coste.
Nessun suono traversa questa luce. Nemmeno quel di vento che frusci tra le foglie ancora tenere delle querce e dei castagni.
Apparirebbe inabitato questo mondo se bianche non si levassero sul manto scuro le mura del monastero, che brevemente interrompono ad un punto quell’immobile mare di fronde.
Solo la luna e le stelle muovono in questo silenzio compiendo il loro muto altissimo cammino.
Non turba la calma della notte la voce lieve d’una campana che presto s’acquieta, né i lumi che a tratti baluginano dietro le strette finestre della casa dei monaci.
Non si è dileguato il sogno che il novizio continua nel suo sonno di ragazzo. Ma i tre colpi sommessi che sfiorano la porta della sua cella lo tolgono dalla visione, che s’infrange allora e sprofonda fuori della sua memoria.
Ancora non è uso il giovane Bartolomeo a questi risvegli, che tali non sono per gli altri fratelli, già in attesa, ancor prima che giunga, del segno che la campana invia loro come crisma della loro vigilia: il dì ha inizio nel cuore della notte, le tenebre non sanno sopraffare la speranza della vita nuova che ciascun giorno dona a chi sa ogni mattina rialzarsi e riprendere il suo viaggio.
Ripensa a queste parole udite dal suo maestro, il novizio, e si guarda attorno alla luce fioca della lampada ad olio che arde sempre nella cella, senza togliersi di dosso la coperta e il coltrone, la testa ancora poggiata sul cuscino di crine.
I suoi occhi incontrano quelli piccoli e puntuti d’un topo che lo guarda cauto da un angolo, e poi con un prillo fulmineo scompare in una breccia tra muro e pavimento. Come avesse presentito il movimento dell’altro, che da quel guizzo appunto sembra trarre la risoluzione a levarsi.
Rabbrividisce il giovane nel suo saio, del quale, secondo Regola, non s’è spogliato: per esser pronti al segnale, vi si legge. Né s’è levato le calze di lana grossa. Stringe la cintura alla vita, calza i sandali, china il capo ad infilare la cocolla e, con gesto fattosi a lui quotidiano, scosta le ante della finestrella per veder le montagne. La neve, tornata ancora una settimana fa anche se si è giunti ormai alla fine di Maggio, resta sulle cime di quelle lontane, che chiudono la valle a settentrione.
Non sembra però che venga di là il freddo che fa alzare al novizio il suo cappuccio, bensì da quella luna chiara e lucente come uno stagno ghiacciato.
Il gelo ora entrato è però diverso da quello che prima era nella cella, ed entrambi lo sono da quel che incontrerà nella chiesa. Si diviene abili a discernere i diversi caratteri del freddo a viver nel monastero, dove solo la cucina, l’infermeria e la farmacia, e la residenza dell’Abate, sono confortate dal tepore d’un focolare.
Bartolomeo s’incanta a guardare la notte. Un belato gli giunge dall’ovile che sta entro le mura del monastero, e si ripete lamentoso, come a chiamare, ma ammutolisce all’abbaìo del cane che sta alla guardia degli animali.
Si affretta ora il novizio, ma nel corridoio s’avvede di non esser ultimo. Altri passi si attardano dietro a lui, e poco innanzi claudica lento Padre Anselmo, cui l’Abate l’ha affidato quando è entrato nella comunità. Ha ritegno a superarlo, né s’azzarda ad offrirgli sostegno: ne è stato redarguito quando l’ha fatto. Cammina dopo di lui, dunque, anche quando il vecchio monaco, nello scendere la scala notturna che li conduce alla chiesa, accosta le mani alla parete come a cercarvi appiglio.
Il suo stallo è l’ultimo, essendo lui novizio, ammesso solo per eccezione voluta dall’Abate tra i coristi. Lontano dall’altare dunque, e vicino al banco degli infermi, dove da qualche settimana prende posto Padre Anselmo.
Oltre quello alza gli occhi Bartolomeo, come ad ogni Mattutino, a salutare con un breve cenno fratello Michele, che siede tra i conversi, nell’altra parte della navata, più vicina al portale. È quegli l’ortolano a fianco del quale ha lavorato lunghe giornate a vangare, seminare, pulir delle erbacce, raccogliere, nei primi tempi della sua vita qui. La sua via era già segnata dai suoi nobili natali: sarebbe stato corista, monaco dedito solo a pregare, cantar in coro le lodi di Dio e studiare i Libri sacri. Ma quella strada neanche per lui doveva esser piana, e dunque la sua vocazione è stata messa lungamente alla prova. È stato allora che Bartolomeo – devoto ed insaziato cultore del sapere fin da quando aveva appreso dal suo precettore l’arte del leggere e dello scrivere, e perciò con tanto maggiore determinazione dal padre avviato, lui secondo genito, alla vita monacale  – ha conosciuto le gioie fin allora a lui ignote del lavoro delle mani nella terra greve e della fatica nell’aria mutevole delle stagioni. Ma è finito quel tempo, e il suo destino si sta compiendo: nelle lunghe ore di meditazione delle Sacre Scritture nella solitudine della cella, nelle ripetute salmodie innalzate in quella stessa navata ogni giorno coi confratelli, nell’infinito esercizio sulle pagine dei Testi tra i banchi dello scriptorium.
Signore, quanti sono i miei oppressori!
Molti contro di me insorgono
.
Le parole del Salmo di Davide si levano sotto le volte scure e la voce adolescente di Bartolomeo si distingue tra quelle gravi che l’accompagnano.
Molti di me vanno dicendo:
«Neppure Dio lo salva!»
Ma tu, Signore, sei mia difesa,
tu sei mia gloria e sollevi il mio capo.
Al Signore innalzo la mia voce
e mi risponde dal suo monte santo
.
L’immagine delle montagne innevate è rimasta negli occhi di Bartolomeo e si confonde ora con quel monte santo, gravando le palpebre d’un dolce abbandono, che il Salmo sembra assecondi:
Io mi corico e mi addormento
Un colpo alla spalla destra lo desta in un sussulto. Il monaco anziano, assolto il suo compito di non lasciar che il sonno interrotto riprenda i confratelli, è già oltre.
Il novizio raccoglie il libro che gli era caduto di mano e dalle parole che ode comprende quale sia il Salmo al quale ora vanno gli occhi degl’altri.
L’Eterno conosce i pensieri dell’uomo e sa che sono vani.
Beato l’uomo che tu correggi, o Eterno, e che istruisci con la tua legge…
Se l’Eterno non fosse venuto in mio aiuto, sarei presto finito nel luogo del silenzio

Quasi fosse stata la mano stessa di Dio a ricondurlo alla veglia, Bartolomeo riprende con rinnovato fervore la preghiera, e poi il canto del Gloria, e degl’altri Salmi, ascolta una lettera di San Paolo e intona infine il Kyrie, col quale il Mattutino ha termine.
Un breve lasso di tempo è concesso acché le necessità della natura possano aver corso. Per raggiungere le latrine i monaci escono nel chiostro. Al centro, il pozzo è ancora un’ombra nera, e solo non fissandovi lo sguardo, che altrimenti si perde nell’oscurità, si possono distinguere le macchie colorate dei fiori che l’attorniano.
Perché il cielo non è più scuro come prima. O lo è meno delle cornacchie che traversano il brano che il chiostro ne lascia scorgere. Il loro gracchiare sembra irridere al silenzio che i monaci rispettano in questo intervallo della preghiera, mentre pare l’accompagnino discretamente gli altri suoni che ora giungono. Sono gli uccelli, che ad annunciare l’alba fanno udire la loro voce.
A quella si unisce il canto delle Laudi che i monaci, adunatisi per la seconda volta nella chiesa, elevano al Signore.
Nel chiostro, la luce va mutando frattanto, e la valle tutta si bagna del chiarore rosato dell’aurora.
È già alto il sole quando i monaci escono dalla chiesa. Alle Laudi ha fatto seguito la Messa, col ricordo dei Santi di questo 25 di maggio. Beda, il venerabile e sapientissimo confratello, luminoso esempio per i monaci coristi, e Urbano, che sembra invece rivolgere il suo benigno insegnamento a quelli che tra i conversi lavorano la terra e ricordano che per Sant’Urbano il frumento è grano.
Morte e vita sono in potere della lingua, ammonisce il Padre che nella sala del Capitolo legge alcuni passi della Regola sulla virtù e il dovere del silenzio.
Facciamo come dice il profeta: Ho detto: custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone.
Ama il silenzio Bartolomeo, anche ora che, alla colazione, mangia il suo pane con un poco di brodo nel refettorio. Ama che solo il canto rompa il silenzio, quasi da quello soltanto si potesse levare, come luce dall’oscurità. E ama la voce dell’organo che nelle feste solenni riempie la chiesa. Imparar l’arte di far risuonare ordinatamente quelle canne è quel che più di tutto vorrebbe apprendere, e alza verso di esse gl’occhi mentre il canto di Terza si spegne e lascia il campo al lavoro del mattino. Il Priore lo assegna a tutti, che come ogni giorno indossano lo scapolare a proteggere le vesti, dal fango come dall’inchiostro.
Il sedicenne novizio osserva fra Venanzio che s’avvia alla farmacia, ma è soprattutto ai due conversi che gli son concessi in aiuto che va il suo sguardo, così come segue quei che ricevono gli strumenti per il lavoro della terra e della stalla, e fra Demetrio che troverà gli attrezzi sul banco di falegname dove li ha lasciati il giorno prima.
Al giovane, il Priore rivolge un semplice cenno. Lo scriptorium è il luogo cui deve recarsi, e lui vi si dirige, mentre la sua mente va a ciò che, ora è un anno, con fra Michele ed altri conversi faceva nell’orto di questi tempi, quando la luna di maggio dà vigore alle piante, ed anche alle malerbe, per scacciar le quali ogni settimana occorreva sarchiare la terra tra le file di zucchine, carote, bietole, fagioli e fagiolini da poco seminati. Ed era poi il tempo di letamare, e far scolare dal terreno l’acqua delle piogge primaverili, sempre copiose tra questi monti. Nel mentre che si raccoglievano primizie odorose, piselli e bietole, ravanelli e radicchi, la cipolla bianca ed il prezzemolo, seminato in aprile e già a fine maggio verdeggiante; così come, nel giardino dei semplici, la borragine e la melissa, della quale aveva appreso a staccare i rametti meno vigorosi per la preparazione delle tisane, lasciando gli altri per la fioritura estiva.
Un rumore che nulla ha a fare col silenzio degli orti molesta quel fantasticare, e l’interrompe in fine: è il tossicchiare insistente di Padre Fortunato, che con quel suo malanno è giunto al settantaseiesimo anno e prosegue sereno il suo studio. Domestico in altre mattine, riesce oggi importuno quel suono al novizio, che uditolo si sente ora attorniato dal grattar delle penne sui fogli, dal cigolio d’una sedia, dal fruscio delle pagine come da un frastuono da cui vorrebbe fuggire.
Recita allora col pensiero una preghiera: per Padre Fortunato, per i fratelli che son lì attorno a leggere e scrivere. Prega per loro e prega per sé, atterrito dal risentimento che irragionevolmente invade la sua anima come un grido: non qui non ora non con costoro.

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Recensioni

Dal Corriere della Sera-Brescia del 21 agosto 2012.
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