Fino all’ultimo respiro

Distolse lo sguardo, chiuse la porta e, la testa incassata nelle spalle, si avviò lungo il corridoio. Percorse lentamente a occhi bassi, i metri che lo separavano dalle scale, desiderando di non incrociare volti, di non rispondere a saluti. Per strada, l’asfalto era estraneo ai suoi passi, tagliente. Gli pareva di camminare in equilibrio sul margine di un dirupo. Il freddo gli feriva la faccia. Si calcò il berretto sulla fronte e sollevò il bavero del giubbotto. Si soffiò sulla punta delle dita, ma il suo fiato era di ghiaccio, come scaturisse da un gelo che gli infuriava dentro. Si ficcò le mani in tasca fino in fondo, svuotato, vittima di una calma innaturale, quasi un torpore.
I pensieri stentavano a prendere forma, sembrava dovessero farsi strada a fatica attraverso un magma troppo denso. Eppure, sentiva di dover pensare per poi poter parlare. Parlare a nessuno di preciso, parlare a sé, nominare gli eventi per renderli reali, perché sono le parole che fanno la realtà. Forse, sarebbe stato più facile cominciare dalle parole per ottenere pensieri, frasi che rimorchiassero un senso da dare a quella notte di disperazione, di pioggia e di furore, all’irreversibilità del fatto.
Il buio cominciava a sbiadire al ritmo del suo cammino, brandelli di discorsi gli affollavano la mente: giustificazioni, buone ragioni che si sarebbero potute mutare in un’assoluzione. Frasi brevi si spintonavano nella sua bocca, pronte a rotolarne fuori liberandolo. Lentamente e coraggiosamente le labbra gli vennero in soccorso e si scostarono l’una dall’altra pronte ad emettere suoni. Ma la lingua restava inchiodata al palato, immobile.  Quella lingua di serpente che sapeva fare in quattro un capello, precisare puntigliosamente, accusare, correggere, analizzare, ora giaceva inerte, impantanata, pavida, come se qualcosa l’avesse sopraffatta.
Cercò di schiarirsi la mente, provò a contrarre i muscoli del viso nella speranza che il fiato facesse vibrare le corde vocali.  Cercò di gridare, ma le labbra si muovevano senza che ne uscisse alcun suono. Come quando si cerca di urlare in sogno e il silenzio sommerge la voce.
Il primo sole era tagliato in due dalla linea dell’orizzonte, mentre il suo viso, indurito dallo sforzo si faceva esangue, gli occhi parevano oscillare liquidi nelle orbite, alla ricerca di un appiglio cui ancorarsi.
Le parole battevano in testa e gli ingolfavano il cervello, sospinte da un vento impetuoso.
Ora, le frasi si erano agglutinate in ricordi, incursioni nel passato, pallide assunzioni di responsabilità, ma si fermavano sulla superficie della lingua, anzi dentro quel muscolo che le custodiva, forse per trattenere in sé l’evento, per riportare indietro il tempo di qualche ora, a prima del fatto.
Il cielo sembrava abbassarsi per schiacciarlo, per cementarlo al suo gesto e il fiato gli si faceva corto. Allungò il passo. Ora le parole gli scavavano buchi nel cranio per poter emergere in qualche modo, perché non ci stavano più dentro la lingua turgida. Provò ad ascoltarne l’eco profonda e le sentì sgocciolargli dentro fino a penetrargli nel sangue, come fossero pronte a raggiungere una meta. Protese le mani a coprire le orecchie per non udire, perché se le avesse ascoltate, le parole si sarebbero gonfiate dentro la sua bocca e ne sarebbero ruzzolate fuori, estranee, spaventose, esigendo il suo ascolto e il suo giudizio. Aveva bisogno di quelle parole, anche se lo facevano tremare in preda a un senso di raccapriccio.
Il marciapiede oscillò sotto i suoi passi e gli parve d’inciampare.
C’era come una presenza in quella strada, qualcuno che sapeva, un occhio immenso che aveva visto tutto e che, come un pugno di fuoco, gli frugava dentro per fargli sputare il rospo, per condannargli l’anima. E quell’occhio imperioso esigeva parole.
Ma la lingua restava muta. In alcuni momenti sembrava difenderlo dal macigno che gli gravava addosso trattenendolo dentro di sé, in altri sembrava percuoterlo come una scudisciata, squadernando ciò che aveva fatto, quel gesto orribile e pietoso che si allargava in una massa acquosa impronunciabile.
Le sopracciglia si contraevano ritmicamente in movimenti impercettibili d’angoscia. Ora, la sua bocca pareva trattenere a fatica un urlo, la lingua lentamente si staccava dal palato. Voleva parlare, parlare del fatto fino a scorticarsi la gola.


Entrò nella consueta panetteria, unico negozio aperto a quell’ora. Incontrò lo sguardo assonnato della fornaia che si allargava in un accenno di saluto. Aprì la bocca, ma le parole indietreggiarono, inchiodate a qualche metro di profondità, lì dove abitava la colpa. La mascella sembrava lavorare furiosamente per assemblare le sillabe necessarie, ma il silenzio si propagava dentro di lui come un incendio, carbonizzandogli il midollo, incenerendo la sua unica possibilità di redenzione.
A un tratto, una voce metallica uscì dal suo volto inespressivo, modellando parole amare. Parole affrettate, precipitose, improvvisate, non meditate. Avrebbe voluto sceglierle attentamente, con la stessa cura con cui si cercano prese salde su una parete di roccia. Dovevano essere chiare, logiche, circostanziate. Avrebbero dovuto dire del suo tormento, della sua fatica, dei dubbi, di quel perenne oscillare da vertigine, di quel buco doloroso senza fondo.  Invece la bocca, ridotta a una fessura, vomitava fiato e suoni, dominata da qualcosa di oscuro. Le frasi gli si impennavano in bocca e poi uscivano appuntite, nervose, sfilacciate e un peso sembrava trattenerlo lì ad ascoltarsi: L’ho uccisa. Non è stato difficile come credevo. Un cuscino sul viso, altrimenti non avrei potuto, guardandola negli occhi. Anche se erano loro, quegli occhi che me lo chiedevano da tempo. Ha resistito poco perché era sfinita, quella malattia erode corpo e spirito e non lascia speranza. Ma si doveva aiutarla, averne compassione. E chi se non io che la amavo più di ogni altro? Chi se non io che senza di lei….
Il viso della panettiera pareva scolpito nella pietra, turbato dal sospetto e dall’incredulità. Si sforzò di raddrizzare gli angoli della bocca in un moto di pietà e, con gesto preciso, cominciò a riempire di pane il sacchetto di carta.
Lui accennò un saluto e il dubbio di non aver parlato, ma solo pensato, cominciò ad accompagnarlo, mentre avanzava a passo incerto, accanto all’ombra intima del suo gesto, verso il suo malfermo destino.
Sentì come un sollievo. Quelle parole che forse gli erano uscite di bocca come raffiche di proiettili, con uno strappo doloroso, parevano averlo un poco liberato dal fondo di quella notte.
La sua faccia gli venne incontro da una vetrina: gli penzolava sul collo come la corolla di un fiore spezzato. Il fiato gli tornava un grammo alla volta. Ricordò quegli occhi, unica porzione mobile nel corpo di sua moglie. Quegli occhi che imploravano ciò che la lingua paralizzata dalla malattia, non poteva domandare. E lui aveva eluso quella supplica per mesi, incredulo o solo spaventato.
Come sopravvivere dopo aver dato la morte? – si era chiesto quella notte. E aveva compreso all’istante di non voler sopravvivere, di non volerle sopravvivere. Che tutto il senso del suo esistere stava lì davanti a lui, e gli chiedeva di essere all’altezza di quell’unico gesto crudele e amorevole per cui forse era venuto al mondo. Questa consapevolezza era stata il lievito del suo coraggio, aveva diretto le sue mani verso il cuscino ai piedi del letto, glielo aveva fatto posare sul viso amato e poi premere, prima poco e poi di più. Membra contratte fino alla resa, fiato che diserta la vita e poi un ultimo respiro. Non aveva rimosso il cuscino, un po’ per non vedere, un po’ per lasciare una traccia di sé.
Ora poteva guardare il fatto senza aggettivi, nudo, poteva prendere confidenza con l’uomo che quel gesto aveva fatto di lui. Sentì nelle viscere compassione e orrore, angeli e diavoli pasteggiare con le sue carni, mentre avvolto nella spessa coltre della sua indifferenza, faceva schioccare la lingua in bocca.

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