La vita che si ha

Zeruja Shalev, Dolore, Feltrinelli 2016, pp. 288, euro 18

“Ad assordarle le orecchie non era stata la potenza dello scoppio, bensì un altro suono, più profondo e terribile: quello provocato dal repentino addio alla vita di decine di passeggeri sull’autobus, il lamento di madri che lasciavano degli orfani, l’urlo di ragazzine che non sarebbero mai diventate adulte (…) il gemito di membra amputate, gambe che non avrebbero mai più camminato, mani che non avrebbero mai più abbracciato…”.

Un attentato, a Gerusalemme, ha segnato la vita della protagonista, madre moglie lavoratrice che scopre, quando a distanza di anni rincontra l’uomo amato in gioventù, di essere sempre stata “asservita a un tiranno crudele, il passato che gettava la sua lunga ombra sulla sua vita”.

Dialoghi fitti, eventi inaspettati, paesaggi urbani disegnati con pochi tratti: il tutto filtrato dallo sguardo di lei, dai suoi pensieri, dall’andirivieni della sua memoria. E solo alla fine – non è uno di tanti romanzi, questo, la cui trama si sfilaccia nella seconda metà e chiedono al lettore di imporsi il dovere di arrivare in fondo – si rende conto di “essersi sempre rifiutata di dedicarsi” al presente. Lei, tanto attiva, sinceramente dedita agli altri, “ha cercato di dominarlo, con tutti i suoi progetti, mentre adesso il presente le dice: non sono l’eco dei ricordi passati, non sono il ponte per i progetti futuri, sono tutto quello che hai, la sostanza della tua esistenza, dammi fiducia perché non hai altra scelta”. E questa fiducia, Iris Eilam – incerta, combattuta – la dà: “il passato si è aperto, sente tutt’a un tratto, sarà l’occasione di aprire la caverna soffocante e maledetta del passato, e mescolarne il contenuto con il sole e il vento e le voci del presente?” Un’ occasione che alla protagonista – ma forse a tutti, e mai troppo tardi per esser raccolta – si rivela nella possibilità di “amare la propria vita per quello che ha e non per quello che non ha”.

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