La forma e il volto della città / L’Albero della vita e altre storie

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È bene dirlo all’inizio. Se fossi vissuto negli anni ’80 dell’Ottocento, e per di più a Parigi, temo che sarei stato fra coloro che guardarono con diffidenza o aperta ostilità la costruzione della Tour Eiffel, emblema ingegneresco dell’Esposizione Universale del 1889. Non mi sarei trovato in cattiva compagnia, c’è da dire. Guy de Maupassant e Alexandre Dumas figlio si schierarono senza remore contro “l’inutile e mostruosa Tour Eiffel”. Quanto ai pittori, se Seurat manifestò la sua approvazione ritraendola quando ancora le mancava l’ultimo piano, Pissarro ci tenne a non raffigurarla mai nei suoi quadri.
Difficile comunque, oggi, confondersi fra quei parigini – una sparuta minoranza di certo – che si ostinano a chiamare la Tour che domina la loro città “l’asparago di ferro”. Come non essere d’accordo con un maître à penser, certo non di bocca buona, come Roland Barthes, al quale la creazione di Gustave Eiffel appariva un “edificio inutile e insostituibile, testimone di un secolo e monumento sempre nuovo, oggetto inimitabile e incessantemente riprodotto”?

Ma perché questo discorso? Perché da qualche tempo si legge che un’altra Esposizione Universale, quella che vedremo nel 2015, avrà appunto la sua Tour Eiffel: sotto forma di Albero della Vita. L’accostamento – ricorrente nelle dichiarazioni dei promotori – è esplicito. Non è questione di altezza (gli oltre 300 metri della torre parigina contro i poco più di 30 dell’Albero) ma di significato simbolico. E in proporzione, si potrebbe aggiungere, la velocità di esecuzione del manufatto garantita dal pool di industriali bresciani che si è accollato l’impresa non ha nulla da invidiare al precedente che risale a più di un secolo fa: pochi mesi rispetto ai due anni e più che costò la fabbricazione della Tour.
Quanto al valore artistico, si sa: de gustibus… Figurarsi se non c’è qualche intellettuale provocatore anche oggi. Il solito Sgarbi per esempio (ogni epoca ha i critici che si merita…), per il quale l’Albero è “una stupidaggine da luna park” o “un’americanata buona per Las Vegas” (deve aver frainteso, o estrapolato, come i dice, il giornalista che gli ha attribuito il richiamo di un’altra immagine suggestiva: “una m… luminosa”).
No, non avventuriamoci sul terreno scivoloso delle valutazioni estetiche. Semmai, a preoccupare è il dopo. La si era potuta prendere per una boutade, ma in questi giorni è capitato di risentirla, e sembra proprio una proposta. Seria. A suo modo. L’Albero della vita, a Expo conclusa, non ci si sogna proprio di smontarlo (come si era previsto per il simbolo dell’Esposizione parigina – graziato anche perché lo stesso Eiffel si diede subito da fare per trovargli una funzione come supporto di antenne radio – ma anche per quello creato per l’analoga manifestazione del 1958: lo ricordate l’Atomium di Bruxelles? Anche quello destinato alla demolizione e poi risparmiato e ormai assurto a meta del turismo internazionale). Né sembra opportuna una collocazione pur rappresentativa (metti una rotonda, di quelle di grande diametro, si intende. O un sito ben visibile per chi arriva a Brescia o ci passa: a qualcuno potrebbe venire in mente il monumento di Fedrigolli al casello di Brescia Ovest, su per giù alto come l’Albero). Parco Tarello invece. È lì che si propone finisca (non sappiamo se basamento da piattaforma petrolifera compreso: tale l’attacco a terra che la piantona richiede). Al Parco Tarello: a due passi dalla sede dell’AIB.
Vicino a un altro emblema imponente del passato produttivo bresciano del resto, qual è il vecchio gasometro, quello sì monumento “inutile” (enorme barattolo che non sfigura fra i giocattoloni cresciuti a Brescia Due) che una città dall’identità industriale come la nostra può ben permettersi di conservare, come si fa con le cose care alla memoria familiare che teniamo in casa e non ci sogniamo di buttar via perché, perduta la funzione originaria, ne hanno assunta una simbolica, affettiva.
Ma l’accostamento al gasometro (che supererebbe in altezza di quasi venti metri il nuovo venuto) non pare esser stato considerato un elemento di valutazione, così come non disturba la prospettiva di collocare un oggetto come l’Albero della vita, in quella spianata verdissima da Central Park che proprio nell’esser vuota trova la propria ragion d’essere. Se la pensilina di piazza Rovetta se ne può stare, spaesata, al Parco Pescheto, e magari il Bigio può rinverdire, con la sua bellicosa fierezza, il passato marziale di Campo Marte (c’è chi l’ha proposto), perché l’emblema del genio laborioso dei bresciani non dovrebbe continuare a vivere in quest’altro parco? Un monumento fuori luogo in più o in meno…
L’importante è viverli i parchi cittadini, presidiarli, riqualificarli. O no? E dunque perché non sfruttarne utilmente lo spazio, come se fosse uno spazio incompiuto, privo di una propria funzione, e perciò in attesa di ospitare cose che non si sa altrimenti dove mettere?

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