La première fois

La prima volta.
C’è sempre una prima volta.
La prima volta che sono nato.
La prima volta che ho pianto.
La prima volta che ho riso.
La prima volta che ho detto mamma.
La prima volta che ho detto papà.
La prima volta che mi sono rotto la testa.
La prima volta che sono stato felice.
La prima volta che sono stato triste.
La prima volta che ho dato un bacio.
La prima volta che ho preso un pugno.
La prima volta che ho scalato una montagna.
La prima volta che ho fatto all’amore.
La prima volta che ho incrociato una pandemia.
La prima volta, ogni volta che ricordi sia stata la prima…
La prima volta ha spesso anche qualcosa di fisico, di gusto, olfatto, tatto.
La prima volta ha talvolta qualche cosa di magico, di misterioso, quasi mistico.
La prima volta può essere ogni volta che ripeti una cosa per la prima volta.

Ogni inverno, quando scende la neve, adoro la prima volta che con le ciaspole cammino su un manto immacolato dove non è passato nessuno.
Mi giro a guardare le mie tracce, mi guardo intorno godendomi il paesaggio, respiro profondamente, inalo il freddo dell’inverno e la sua magica aria tersa, sorrido e riparto, ascoltando lo scricchiolare della neve sotto i miei piedi.

Ogni estate, il primo sorso di birra. Non dell’estate. Di ogni birra, naturalmente.
Se qualcuno mi chiede “posso berne un sorso?” prima ancora che io l’abbia assaporato lo fulmino: “Il primo sorso di birra è il mio, poi fai quello che vuoi”. Che piacere impugnare il boccale appannato, con le goccioline che scendono sui lati, la schiuma che mi imbianca i baffi e la birra fresca che scende per il gargarozzo…

Quante sono le prime volte che non ricordo ma che di quando in quando riaffiorano nella mia mente.
La prima volta è un mondo che si apre, che si svela, che si assapora, nel bene e nel male.

E sono certo che sarà così anche la prima volta che morirò, perché ho vissuto centinaia di prime volte.

Questo testo è nato ascoltando La première fois eseguito da Tryo et Les Ogres de Barback (disponibile in YouTube).

Joik

▸ dai giorni del coronavirus

Il Joik è un canto sciamanico dei Sami, i popoli indigeni dell’estremo nord della Scandinavia.

Come tutti i canti sciamanici dei popoli nativi è basato sulla voce e talvolta sulle percussioni. Sono nenie gutturali, che portano alla mente riti ancestrali e, per chi li ascolta oggi giorno, se non motivato da curiosità culturale o da qualche setta new age, risultano alquanto noiosi.

Venivano cantati dagli sciamani, ma non solo da loro, per rievocare luoghi, persone, fatti e animali che avevano avuto o avevano una valenza particolare per la storia e per la sopravvivenza del popolo Sami oppure erano esempi di virtù per la comunità.

Con la evangelizzazione, e la successiva lotta all’eresia, vennero vietati e chi li cantava e diffondeva perseguitato.

Ve ne sono decine di versioni, con modulazioni e ritmi differenti, a seconda dell’occasione e delle zone.

Una versione laica del Joik mi ha sempre colpito per la sua valenza.

Il canto è particolarmente lento, con lunghe pause tra un fraseggio e l’altro, e questo lo rende ancora più noioso, perché l’attesa del nuovo fraseggio fa sembrare ancora più lunga la pausa silenziosa.

Ma approfondendo e contestualizzando il canto, si scopre che veniva cantato in particolar modo dalle donne, nelle lunghe sere estive, sulla soglia della loro casa, posizionata su un piccolo cucuzzolo della tundra. Case di pastori e contadini a due, tre chilometri di distanza tra loro, quando andava bene.

E quindi il canto, che raccontava di fidanzamenti, matrimoni, malattie, morti, di come era andata la giornata, di fatti di particolare importanza, doveva fluire lento e con lunghe pause, perché chi lo ascoltava doveva avere il tempo che le parole gli giungessero con calma e in maniera distinta.

In questo modo poteva rispondere, da qui il fraseggio a più voci di questo canto, o rimandarlo ad altri vicini.

Raccontare e raccontarsi, sentirsi vicini nella lontananza, socializzare con chi a fatica puoi vedere ed incontrare….

Oggi, siamo un po’ tutti parte del popolo Sami, fermi sui nostri cucuzzoli mentre svolgiamo le nostre attività quotidiane.

La nostra Bella Ciao, cantata da un balcone all’altro, come un Joik taumaturgico, ha parlato di persone, di morti, di speranza.

Ha raccontato anche un po’ di noi stessi. Il Joik ci ha tenuti e ci tiene uniti, con la sua ritualità che in altre condizioni non avremmo sopportato. Ci ha fatto sentire meno soli, un popolo accomunato da ideali e volontà di rinascita.

Speróm che va sücédes niènt!

▸ dai giorni del coronavirus

“Speróm che va sücédes niènt!”. Era questo il mantra con cui Rina, mia suocera, ci salutava ogni volta che andavamo via.

Che fosse per fare i 15 chilometri da casa sua alla nostra o i 5.000 per andare e tornare dal Portogallo o dalla Danimarca o da qualsiasi altro posto a noi venisse voglia di visitare, il mantra, come tutti i mantra, era sempre quello.

“Speróm che va sücédes niènt!”

Un po’ lo trovavamo fastidioso. Perché era sempre accompagnato da uno sguardo di disapprovazione per il nostro camper: “I disarà che sif dei sénghegn!”.

Eh sì, l’opinione della gente… e quell’essere così diversi da lei, dal suo modo di pensare e di vivere… Difficile da accettare per una come lei.

Ora ha quasi 98 anni, una demenza senile che la tiene lontana non fisicamente ma con la mente, in un mondo tutto suo.

Non ce lo dice più, quel mantra, proprio in questi mesi in cui ci servirebbe di più.

E allora, forse, è il momento che diventi un po’ anche il nostro. “Gnari, speróm che va sücédes niènt!”

The beautiful gene

Rosso malpelo
schizza veleno
mangia pagnotte
crepa stanotte

Sin dalla mia nascita è stato evidente: ho una variante del cromosoma n. 16, regione MC1R. Sono affetto, in maniera congenita, da eritrismo, detto anche rutilismo.
Molto più semplicemente, ho i capelli, e i peli, rossi e una marea di lentiggini.
Niente di che, molti hanno o hanno avuto problemi ben più gravi, ma resta il fatto che la pigmentazione del mio pelo è la più rara al mondo.
Solo l’1% della popolazione mondiale. In Italia lo 0,58%. Solo in Scozia e in Irlanda siamo in tanti: il 13%.
Nel Medioevo i capelli rossi erano elementi di prova processuale di stregoneria per le donne, di vampirismo o di licantropia per gli uomini.
Per Lombroso erano associati a chi commetteva crimini a sfondo sessuale, data la nostra proverbiale attitudine al sesso indemoniato.
Per i nazisti il dubbio era se consentirci o meno di procreare, dato che eravamo ritenuti un rischio per la purezza ariana e per la sua dirittura morale.
E ora, senza tanto clamore, molte banche del seme stanno dismettendo i donatori di pelo rosso, perché la domanda è scarsa.
E anche questo accelera la nostra corsa verso l’estinzione. Avete davanti ai vostri occhi una specie rara e non ve ne siete mai accorti…

Che avere i capelli rossi possa rappresentare un problema per chi li ha non è cosa nota a chi non li ha. La maggior parte non ci pensa nemmeno, anzi, ad un rosso qualche battuta l’ha anche fatta, così, tanto per fare…
Eppure se andate su siti come www.noirossi.it o progetti artistici come The beautiful gene di Marina Rosso (www.marinarosso.com/projects/the-beautiful-gene/), troverete le testimonianze di come sia un problema diffuso tra noi rossi sin dalla più tenera età. Nel nostro piccolo proviamo su di noi il pregiudizio.
E se la gente è così stupida da fare differenze “per un pelo”, non mi stupisce che i razzisti siano così numerosi, mi spiace solo che tra loro ci siano anche dei “rossi”…

Da piccolo questa “diversità”, evidenziata da fitti capelli rosso-tiziano e da una marea di lentiggini su tutto il corpo, mi comportavano la solita sfilza di frasi fatte: “el pië bu dei ross ga copàt sò pàder en del fòs”, “rosso di sera bel tempo si spera”, Pel di Carota, Rosso Malpelo, Gianburrasca… Quest’ultimo per colpa di Rita Pavone che negli anni ’60 associò i suoi capelli rossi al monello letterario, a cui da allora in poi venni equiparato per la mia naturale indifferenza alla disciplina. Ho odiato profondamente Gianburrasca e Rita Pavone…
Era così assillante che il mondo adulto, e non solo, si relazionasse con me in questo modo, che a 8-9 anni andai in Farmacia a chiedere se c’era una medicina per guarire dalle lentiggini e dai capelli rossi. La Farmacista evitò di propormi le porcate che avevo visto nella pubblicità e cercò di convincermi a desistere. Non riuscendoci, dispiaciuta, chiamò mia madre, che provò a capire, ma senza riuscirci. A lei i miei capelli e le mie lentiggini piacevano, e non vedeva dov’era il problema.

“Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone”, scriveva Giovanni Verga.
Da adolescente divenni Rosso Malpelo. La lettura di Verga in classe aiutava il fiorire di battute dimostrando che nessuno lo aveva letto fino alla fine o lo aveva capito. E per i bulli della scuola ero più semplicemente il “Rosso di merda”. Era anche il modo con cui altri chiudevano qualsiasi discussione. Se sei un “Rosso di merda” la tua opinione, alla fin fine, non conta.
Non mi sentivo unico, ma semplicemente diverso e talvolta solo. Non è che tutti mi trattassero come una mostruosità della natura, c’era anche chi non ci trovava nulla di “strano”, ma mi sentivo veramente diverso dai miei compagni di scuola, diverso dai miei parenti, diverso da tutti.
Arrivai al punto di identificarmi con “Il ragazzo dai capelli verdi” del film di Joseph Losey (1948). La scena che preferisco è quella in cui la maestra Barbara Hale (come avrei voluto fosse anche solo per un giorno la mia maestra…) chiede, all’ingresso del protagonista in aula il primo giorno di scuola, tra gli sguardi imbarazzati dei compagni che fino a poco prima lo avevano irriso al grido “Ha i capelli verdi! ha i capelli verdi!”: “Quanti di voi hanno i capelli castani?” Undici, se ne contano. “Quanti di voi hanno i capelli bruni? Quattro. “Quanti i capelli biondi? Nove. “Quanti verdi?” UNO. “Quanti rossi?” UNO.
Siamo solo noi due, dunque: il “verde” e il “rosso”, e nella breve scena naturalmente mi figuro subito come il più simpatico dei monelli. E guardo con complicità e solidarietà il ragazzo dai capelli verdi. Abituato ad essere il diverso, sono contento di aver qualcuno con cui condividere la derisione dei compagni.
Per me è stata la svolta, quel film.
Dovevo essere orgoglioso dei miei capelli, rivendicare la mia unicità.
Per prima cosa andai alla ricerca delle origini dei miei capelli. Le informazioni ottenute dai miei genitori su lontani cugini o avi con i capelli rossi, mai visti e di cui non c’erano immagini, non mi convincevano più.
E neanche lo studio morboso delle leggi di Mendel mi aiutò molto. Sul libro di Scienze delle medie di esempi con i piselli ce n’erano un sacco, ma con i peli neanche uno.
Perciò, nel corso di diverse settimane, perquisii meticolosamente casa, cassetto per cassetto, documento per documento, alla ricerca del certificato di adozione, che non trovai.
Poi iniziai a reagire ai “Rosso di merda”, dandole e prendendole (solitamente solo a parole), a volte prendendole anche fisicamente (ero mingherlino), ma sempre pronto a “infiammarmi”.
In questo cammino ci sono state battaglie vinte (le battute sui miei capelli e le mie lentiggini pian piano sparirono), ma anche perse. Quelle più cocenti sul lato sentimentale.
La prima ragazza a cui mi dichiarai, verso i quindici anni, mi disse che non le piacevano i rossi….
La seconda, in maniera molto più esplicita e con un moto così istintivo di ribrezzo da non lasciare dubbi sulla sua sincerità, mi disse invece: “Con un rosso! Che schifo! MAI!”.
E direi che questo giustifica ampiamente perché per alcuni anni mi interessai più alle montagne che alle ragazze…
Ma comunque, nonostante tutto, i miei capelli rossi divennero il mio orgoglioso vessillo.
Non qualcosa di cui vergognarmi o nascondere, ma da sbandierare e portare con orgoglio.
La mia (allora) folta chioma rossa fu accompagnata da una altrettanto folta e incolta barba rossa. Per anni sono stato conosciuto come “Il Rosso” o “Il Barbarossa”, perché come tale mi presentavo.
E da quando mi sono messo con una Rossi, il gioco de “il Rosso e la Rossi” viene facile.
Quella scelta mi ha trasformato. Non dovermi più vergognare della mia diversità, trasformarla in unicità, rivendicare il diritto ad esserlo: che liberazione!

Sono passati molti anni da allora. I capelli, quelli superstiti, si sono o scuriti o imbiancati.
Ma continuo ad andarne fiero, continuo a sentirmi e a dichiararmi “il Rosso”, anche se a volte chi mi vede per la prima volta mi guarda un po’ stupito, dato che di rosso ce n’è ormai poco.
E quando mi guardo allo specchio, so che, nonostante la stupidità della gente, non avrei voluto averli di nessun altro colore.

Gip gip bel cavallin
gip gip signore
quanto ci vuol per la città
un paio d’ore.
Gip gip bel cavallin
gip gip signore
e quando noi potrem tornar
al tramontar del sole.

(Ninna nanna dalla colonna sonora di The Boy with Green Hair)

Ordine e disciplina!

“Sono le tre! Forza! In piedi che dobbiamo andare!”
“Accidenti che freddo, non si direbbe che è giugno.”
Alla luce della lampada frontale controlliamo meticolosamente l’attrezzatura: piccozza, moschettoni, cordini, martello, chiodi, corda, ramponi, ghette, giacca a vento, guanti, berretta, maglione…
“Ok, tutto a posto. Dimenticato niente.”
Verifichiamo ancora una volta mentalmente l’itinerario e i tempi di avvicinamento.
Dobbiamo arrivare alla crepaccia terminale ben prima dell’alba, altrimenti riuscire a passare diventa più complicato.
E in cima dobbiamo arrivare al massimo in un due o tre ore, altrimenti il canalino, con l’escursione termica, potrebbe scaricare. Per il ritorno, nessun problema. Scendiamo dalla “normale”, che è più semplice, e ripassiamo sulla crepaccia terminale dove, se servirà, avremo lasciato un passaggio attrezzato per aiutarci a superarla in discesa. Tutto è pronto. Andiamo.
Crick… crock… crick… crock… Mi piace il rumore dei ramponi che appena appena scalfiscono la superficie ghiacciata della neve.
E poi la luna, quasi piena, ormai avviata al tramonto. Illumina il cammino, riempiendolo delle migliaia di minuscoli scintillii dei cristalli di neve ghiacciata. Non serve nemmeno tenere accesa la torcia frontale.
E il silenzio…. Nessuno ha voglia di parlare a quell’ora del mattino. Sembrerebbe un sacrilegio.
E, passo dopo passo, si va verso la meta.

Non avevo ancora 17 anni, terza liceo scientifico.
Sin da bambino mi avevano definito un “birichino”, accompagnata magari da un bonario “el piö bu dei róss él ga copàt sò pàder en del fòs”.
Da adolescente poi, parafrasando Rousseau, mi definirono un “buon selvaggio”. Sostanzialmente incapace di far male consapevolmente a qualcuno, ma del tutto allergico alla disciplina.
Non ero uno che disobbediva, ma ad ogni ordine un “perché?”. L’obbedienza cieca non mi apparteneva.
Naturalmente per gli insegnanti era mancanza di disciplina, nel comportamento (ma non ero un teppista), nello studio (“se si applicasse con metodo potrebbe fare di più”), nella gestione dei miei spazi (sempre disordinato), scavezzacollo (le ginocchia e i gomiti sempre pieni di croste e graffi).
Ed era proprio vero, non sopportavo la disciplina. Perché non la capivo.
E non capivo l’insegnante di educazione fisica che voleva fare di noi un disciplinato plotone di alunni che marciavano coordinati e atletici.
Noi “di sinistra” lo consideravamo un “fascio”. Chissà se lo era. Sicuramente aveva le idee chiare su cosa riteneva fosse ordine e disciplina e su come fare per piegare i riottosi.
Una cosa ci era evidente: non sopportava quelli di sinistra (ma nella mia classe eravamo veramente in pochi), soprattutto di quella extra-parlamentare (ero l’unico, ma neanche inserito in un gruppo preciso, perché non sopportavo la disciplina di partito), i giocatori di calcio e chi portava la barba.
La prima pecca ce l’avevo, con l’aggravante. La seconda no, ma mi aveva casualmente visto al campo dell’oratorio giocare una delle cinque, disastrose partite della mia vita. Me l’aveva rinfacciato, con tono quasi minaccioso.
E quell’anno mi feci crescere la barba (prima non ci sarei riuscito neanche volendo!).
Avevo anche il difetto che odiavo il “Passooo! (boom) Passooo! (boom)”, che organizzava in alcune lezioni. Ero sempre fuori tempo, rovinando immancabilmente la coreografia.
Iniziò così una guerra silenziosa tra noi.
“Tagliati la barba!”. “No!”. “Bastone di ferro da un chilo!”. E via, un’ora di educazione fisica con il bastone sulle spalle.
“Tagliati la barba!”. “No!”. “Due bastoni di ferro da un chilo!”.
Andò avanti così per diversi mesi. Naturalmente a casa non dicevo nulla, altrimenti mi avrebbero detto “Tagliati la barba!”, visto che anche ai miei non piaceva.
All’inizio della lezione la consueta ingiunzione, esito scontato di una constatazione: la barba non l’avevo tagliata, anzi, cresceva sempre più lunga, folta e incolta.

A lui non l’avevo detto che non mi piaceva giocare a calcio. Andavo in montagna, io. Quell’anno avevo anche iniziato a frequentare il corso della Scuola di Alpinismo del CAI. Ma non erano in molti a saperlo. Era una cosa mia, e dei due o tre amici con cui ci andavo.
Avrei ridotto la mia pena se gliel’avessi detto, scontandone la quota derivante dal fatto che mi credeva giocatore di calcio. Invece non ne ho mai fatto parola. Questione di orgoglio

Avevo imparato da bambino ad amare la montagna.
Mia madre – sempre apprensiva quand’eravamo in città, timorosa che frequentassimo cattive compagnie, tanto da mandarci malvolentieri anche all’oratorio – in montagna, dove trascorrevamo tre o quattro mesi all’anno, si trasformava e lasciava me e mio fratello liberi di scorrazzare, convinta, illusa, che non potessimo correre pericoli.
E’ così che, passo dopo passo, ho conosciuto la montagna, il senso di libertà che mi dava l’andare dove volevo, senza limiti e costrizioni se non quella di tornare a casa in tempo per i pasti, a volte solo per cena, e dai 15 anni poter star via anche due o tre giorni, ma solo se andavo in montagna.
E andarci voleva dire incontrare cacciatori, guardie forestali, bracconieri, bere il latte appena munto dai malghesi o aiutarli a fare il burro con la zangola, scambiare due parole con i contrabbandieri o con qualche escursionista o, ancora più raro a quei tempi, alpinista. Dormire nei bivacchi e nei rifugi insieme a estranei, accomunati dalla stessa passione.
Molti di questi incontri, spesso senza volerlo, mi hanno insegnato qualcosa: sulla natura e la sua bellezza, sulla potenza della montagna, su dove e come andare, sulle disgrazie avvenute tra quei monti, affascinanti ma di cui diffidare, sulla gioia della conquista e il coraggio della rinuncia.
Non so come, ma credo grazie ad uno studente di quinta, ottimo alpinista, che incontravo spesso alla palestra di roccia o nei bivacchi, il professore venne a sapere che non giocavo a calcio ma andavo in montagna, anzi, ad “arrampicare”.
Ma ero comunque di sinistra, e avevo la barba. E non la tagliavo.
E non facevo “Passooo! (boom)”.
Un giorno, a primavera inoltrata, mi presentai in palestra, con la mia barba e una bella sgrobbiatura su un braccio e una gamba.
“Cosa ti sei fatto?”.
“Sono caduto”.
“Dove? per farti una graffiatura così”.
“In montagna, su una lastra di ghiaccio”.
“Ah…” Avevo già la mano sul bastone che stavo, come di consueto, per prendere, quando l’ho sentito dire quello che non mi aspettavo: Vai con gli altri…”.
Mi sono girato. Lui mi guardava, duro: “Cos’hai? Spicciati a raggiungere gli altri”.

Da allora la guerra tra noi è finita. Ho continuato a non fare “Passooo! (boom)” e a non tagliarmi la barba. E lui niente.
Ho sempre pensato che fosse un bastardo, e forse lo era davvero, ma alla fine mi aveva dato il suo rispetto. Gli avevo tenuto testa, e forse lui lo aveva riconosciuto come un merito.
Nei restanti anni scolastici non ci furono più problemi né per me, né per la mia barba.
Ma poi, un po’ alla volta, credo di aver capito che forse la ragione per cui aveva smesso di tormentarmi con la disciplina era un’altra.
Alla fine, forse, aveva vinto un po’ anche lui.
Anche se la disciplina è la montagna che me l’ha insegnata, lui lo sapeva che l’avrebbe fatto.
Non la disciplina fine a sé stessa, ma quella che serve nei momenti importanti della vita.
Io, il disordinato numero uno, quando preparo lo zaino ho una precisione maniacale.
Perché è vero che, passo dopo passo, vado dove voglio, ma è la montagna che dice fino a dove posso permettermi di arrivare, entro quando devo arrivare, qual è il limite che non posso superare.
E il mio corpo e la mia mente, passo dopo passo, si mettono d’accordo con lei e mi pongono limiti, ordine e disciplina. Ogni sgarro sarebbe ben peggio del bastone di ferro che quel professore mi faceva portare. E’ così che il “buon selvaggio” è stato messo in riga.

Vicks Vaporub

Era solo un mucchietto di stracci, ossa, vermi e carne putrescente.  Avviluppato, in una pozza di acqua stagnante, tra rami e foglie trasportate dal torrente. Macerato dall’acqua di quell’autunno poco piovoso, consumato dagli insetti, addentato da qualche selvatico che ne aveva approfittato.

Se non fosse stato perché sapevamo cosa avremmo potuto trovare, forse non avremmo capito.
Se non fosse stato per quell’odore, intenso e nauseabondo, l’odore della putrefazione, forse saremmo passati oltre.

Eravamo in cinque: Gigi, Mario, Paso, Beppe e io.
Ci eravamo dati appuntamento quella domenica di ottobre.
“Allora, ci   vediamo alle 14 al Rifugio, risaliamo il torrente e vediamo cosa troviamo”.
Un pallido sole intiepidiva l’aria e illuminava il fogliame giallastro-arancione, in gran parte non ancora caduto dagli alberi.

Ce lo aveva chiesto la Terry. Lei e Berto erano sicuri che lo avremmo trovato. Vecchi sì, ma non rincoglioniti, come avevano invece pensato polizia e carabinieri.
E poi, i cacciatori lo dicevano anche loro che c’era qualcosa che non andava. Quell’odore di putrefazione faceva impazzire i cani, che non erano più buoni di seguire le tracce dei cinghiali. Anche se Terry glielo aveva chiesto, figurati se erano disposti a perdere mezz’ora per andare a vedere cosa c’era. Metti che si rovina il fiuto ai cani…

Terry e Berto lo avevano visto una decina di giorni prima. Era passato fuori dal Rifugio, vestito leggero, con dei sandali ai piedi. Un’aria un po’ stranita.
Lo avevano salutato. Quasi non aveva risposto.
“Dove va? È tardi e fa freddo. Venga che le prepariamo un caffè”.
Un gesto di diniego, qualche mezza parola borbottata, e aveva proseguito oltre, seguendo la traccia di un sentiero che quasi non esiste più e che per un tratto segue il torrente della Val Fredda.

Avevano aspettato che tornasse indietro, fino a quando non aveva iniziato a fare scuro. Lo avevano chiamato. Nessuna risposta.
“Chissà, sarà andato via da dietro la casa”.
“Sarà sceso per l’altro sentiero, senza passare davanti al Rifugio”. “Magari non voleva parlare con noi…”.

Qualche giorno dopo la Terry vede un trafiletto sul giornale.
I parenti cercano un uomo, se ne è andato dallo Psichiatrico, come già altre volte, ma questa volta è differente. Di solito dopo due o tre giorni lo ritrovano. Questa volta no. Per questo chiedono notizie. Invitano a fornirle alle Forze dell’ordine o allo Psichiatrico.
Una foto in bianco e nero…

“Ma sì, è lui. Lo riconosco. Sono quasi sicura”.
continua a leggere

La rivoluzione dello zio Evaristo

Rivoluzione (dal dizionario Devoto – Oli) – Ri-vo-lu-zio-ne
sostantivo femminile (potrebbe non essere un caso)
dal latino: revolutionem, da revolutus, participio di revolvere composto da re- ancora e volvere volgere. Voltare di nuovo.
1. Movimento organizzato e violento col quale si instaura un nuovo ordine sociale o politico (rivoluzione francese, rivoluzione di ottobre, …).
2. Ogni processo storico, anche graduale, che finisca per determinare il mutamento di un assetto sociale o politico (rivoluzione agricola del neolitico, rivoluzione scientifica, rivoluzione industriale, rivoluzione digitale…).
3. Sconvolgimento di costumi (rivoluzione sessuale), di abitudini (i miei figli hanno portato la rivoluzione in casa) o funzioni fisiologiche (ho l’intestino in rivoluzione…).
4. Il giro completo descritto da un corpo in movimento intorno a un altro corpo; anche, il relativo moto (rivoluzione terrestre).

 

“Morire per delle idee, l’idea è affascinante
per poco io morivo senza averla mai avuta,
perché chi ce l’aveva, una folla di gente,
gridando “viva la morte” proprio addosso mi è caduta¹…

Non credo di averlo mai veramente voluto, ma l’idea di morire per delle idee, per quanto, per l’appunto, sia affascinante e mi abbia, in qualche modo, affascinato (almeno a parole), mi ha sempre, nel mio piccolo, colpito. La retorica combattentistica e militaresca è pervasiva nel dna dell’umanità, in particolare maschile. Un richiamo all’eroismo inculcatoci fin da bambini, soprattutto dal sistema scolastico allora predominante.
La mia adolescenza e gioventù, come quella di molti altri della mia generazione, è stata pervasa da eroi, più o meno mitici, più o meno coerenti, che indicavano la via del sacrificio nel nome dell’IDEA.
La vita di noi tutti è stata toccata da morti, vicine e lontane, che hanno segnato dolorosamente la nostra storia collettiva e personale.

Su, lottiamo! L’ideale nostro al fine sarà…

Ma quanti dei numerosi morti per un’idea, magari per la nostra idea, o, peggio, per l’idea di qualcun altro, avrebbero preferito non morire, e non è giusto che siano morti.
Ma quanti, numerosi, hanno scelto, e quanti, ancor più numerosi, sono stati condannati a morire per un’idea, magari per l’idea di altri.
Ma quanti, se potessero, si chiederebbero ora: “Ne è valsa veramente la pena?
Che grande ingiustizia quando, per sostenere le proprie idee, si è condannati a essere uccisi o a uccidere.
Non sarebbe meglio se tutti potessero morire per delle idee, ma di morte lenta?

La lettura di Manuel Scorza, uno dei miei autori preferiti, mi riempiva di orgoglio per Garabombo, Raymundo Herrera, Agapito Robles ….
Ma fu La danza immobile, il suo ultimo libro prima della morte improvvisa, che mi mise di fronte, all’inizio con fastidio, solo poi con più consapevolezza, ad un dualismo irrisolto, che ognuno di noi, forse, si porta nel sacco senza mai veramente risolverlo:
Il romanzo è un contrappunto fra un guerrigliero e un ex guerrigliero. Sotto un altro punto di vista, un conflitto fra due uomini che devono scegliere fra l’Amore e la Rivoluzione. L’uno sceglie la Rivoluzione. L’altro l’Amore. Al termine della loro vita entrambi credono che l’altro abbia scelto il meglio.²

…perché forzando il passo succede che si muore
per delle idee che non han più corso il giorno dopo.
Ora se c’è una cosa amara, desolante,
è quella di capire all’ultimo momento,
che l’idea giusta era un’altra, un altro movimento…

Ho ancora in mente mio zio Evaristo (nome orribile che porto con orgoglio come secondo nome), alpinista, socialista, partigiano, imprigionato, torturato e condannato a morte. Salvatosi quasi per caso, perché il giudice del Tribunale Speciale Fascista non fece eseguire la condanna illudendosi, inutilmente, che questo gli avrebbe salvato la vita.
Lo vedo ancora con l’amarezza della disillusione negli occhi, di fronte al craxismo che avanzava e distruggeva tutto quello per cui avevano lottato e messo in gioco la propria vita.
Messo in un angolo, gettato via come anacronistico, non sapeva più distinguere se erano gli ideali ad essere stati traditi o se erano gli ideali in cui aveva creduto che lo stavano tradendo. E si domandava: “Ne è valsa la pena?”. E’ morto ottantenne senza sapersi dare una risposta.

…Gli apostoli di turno che apprezzano il martirio,
lo predicano spesso per novant’anni almeno.
Morire per delle idee sarà il caso di dirlo
è il loro scopo di vivere, non sanno farne a meno…

E li vediamo ancora oggi in giro, i nuovi profeti dell’Italia agli italiani, del non passa lo straniero, dell’Italia 2.0 o i profeti della lotta continua, convinti che un po’ di guerriglia urbana e qualche bomba carta siano la migliore soluzione ai problemi.
Tutti pronti, con linguaggio rabbioso e guerresco, a perorare il linciaggio del momento, ad eliminare il nemico che gli si oppone o, più semplicemente, chi non si adegua al loro pensiero “unico”.
Alcuni di loro pronti tra qualche tempo, consapevolmente o meno, al cambio di bandiera. Che predicano con veemenza di come quello che pensano ora è giusto, e se cambieranno opinione sarà di nuovo giusto, mentre tu che vuoi ragionare, pensare, capire, cambiare idea alla fine di un percorso, sei solo uno che rimane ancorato all’antico, un nostalgico, uno da eliminare… perché cerchi un po’ di coerenza tra quello che fai e quello che pensi e non ti lasci usare.
E ti senti inerme.

…E sotto ogni bandiera li vediamo superare
il buon matusalemme nella longevità
per conto mio si dicono in tutta intimità
moriamo per delle idee, va bè, ma di morte lenta,
ma di morte lenta.

Man mano che passa il tempo, trovo sempre più fastidio, insofferenza, per chi grida e urla, togliendo spazio al ragionamento. Anche quando la pensa come me. Anche quando condivido l’obiettivo.
Più i toni si fanno retorici e feroci, i richiami evocano battaglie e lotte, più mi raffreddo.
Film già visti. A volte percorsi obbligati, più spesso corse verso il baratro.
Sono diventato, ho quasi paura a dirlo, un moderato?
A scanso di equivoci, chiarisco subito che il mio non è un invito al disimpegno, a non portare avanti le proprie idee, a non indignarsi, a non manifestare il proprio dissenso, a non agire. Ma, caso mai, ad agire in modo diverso, rinnegando il culto del martirio, la retorica dei richiami militaristi e combattentistici. Possibile che non ci sia un modo diverso?

Le grandi idee rivoluzionarie le ho abbandonate da tempo. Credo di averle sostituite con le piccole rivoluzioni del quotidiano, se così possiamo definirle. Richiedono impegno e non fanno sconti alle incoerenze: chi ti è vicino sa chi sei veramente, non puoi nasconderlo.
Non mutano in maniera eclatante la realtà, ma modificano ciò che ci circonda e, forse, mi illudo che siano un granellino di sabbia nell’ingranaggio del potere e di resistenza alla maggioranza non più silenziosa, al becero, o peggio, al fascismo che avanza.
Un piccolo vivaio in cui curare e coltivare i semi di un futuro, forse migliore, magari non per noi, ma per i nostri figli. E non è forse proprio questo il cuore di ogni Rivoluzione?

E’ per questo che, alla fine, penso di aver capito che l’unica vera rivoluzione in cui credo ancora, è quella che, nel suo continuo movimento, sembra non cambiare nulla, che ogni volta ti riporta al punto di partenza, ma diverso da prima, magari impercettibilmente, ma diverso.

Puoi cambiare camicia se ne hai voglia
E se hai fiducia puoi cambiare scarpe
Se hai scarpe nuove puoi cambiare strada
E cambiando strada puoi cambiare idee
E con le idee puoi cambiare il mondo
Ma il mondo non cambia spesso
Allora la tua vera Rivoluzione sarà cambiare tè stesso³

Vivere la vita, come una danza.
Corpi che ruotano su sé stessi e tra loro.
Un continuo attrarsi e allontanarsi.
Un continuo cambiare posto, per tornare nello stesso o in un altro punto, ma con un nuovo sorriso sulle labbra, con il sudore che cola, con una intimità che è vita.

Che sia un movimento irrevocabile o un ciclico ripristino di condizioni precedenti, le rivoluzioni, volute coraggiosamente o ineluttabilmente subite – così come quelle dei moti dei corpi celesti – segnano un nuovo punto di partenza, che ora è un nuovo anno, che ora è un nuovo spirito del tempo, avendo ripreparato il terreno per una nuova evoluzione – al modo dell’aratro che rivolge le zolle e permette la nuova semina4.

La Rivoluzione è come vivi il tempo che trascorre.
Che cambia e trasforma te.
Che cambia e trasforma chi hai intorno.
Che cambia e trasforma il mondo.

Evviva la rivoluzione
Evviva le rivoluzioni terrestri!

[1] Morire per delle idee, di George Brassens, tradotto da Fabrizio de Andrè.
[2] Manuel Scorza, La danza immobile, Feltrinelli 1983
[3] Vivere la vita di Alessandro Mannarino
[4] https://unaparolaalgiorno.it