Nel silenzio di Gighessa

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Ci sono luoghi che ti chiedono di fare scelte.

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La strada che da Addis Abeba porta verso sud, di fatto l’unica grande arteria di collegamento del paese, esce dalla città attraversando una periferia in espansione.
Ai lati palazzine in costruzione già rivelano la loro futura bruttezza.
Sulle impalcature, semplici lunghi pali inchiodati tra loro e senza alcuna protezione, lavorano gli operai, spesso bambini sugli otto, nove anni.
E’ in costruzione anche la strada di questo quartiere, ma per il momento è uno sterrato fangoso tutto una buca.
Sul tubo dell’acquedotto si aprono qua e là rubinetti a cui la gente, in lunghe file, attinge acqua con taniche da benzina.
Taniche di tutti i colori e misure.
Taniche grandi e taniche piccole.
Taniche da adulto e taniche da bambino.
Perché tutti ne hanno una, se vuoi bere, se vuoi portare a casa l’acqua.
Tutti, anche i bambini più piccoli che devono subito imparare le leggi della sopravvivenza.
E la prima legge è che, dovunque ci sia acqua, tu devi essere attrezzato per prenderne la tua parte.
Ci si lava anche a questi rubinetti, ma, quando la fila è troppo lunga, può andare bene anche una pozzanghera per una rapida toeletta.
Un mendicante espone le piaghe.
Capre.
Via vai di gente che trasporta sulle spalle sacchi, legna, fagotti.
Nibbi bruni volteggiano sopra di noi.
Benvenuti in Africa.
Un’Africa in bilico tra voglia di progresso e contraddizioni sociali, tra mondo rurale e urbanizzazione senza controllo.
Ora la strada è asfaltata e trafficatissima.
Camion stracarichi entrano o escono dalla città sparando nubi nere dai tubi di scarico, mentre si fanno strada fra la gente a piedi e i carretti.
Parallelo alla strada vi è una sorta d’avvallamento dove pascolano mucche e capre.
Due bambini a guardia del bestiame salutano festosi il passaggio del nostro pulmino, sporgendo le faccine sorridenti ad altezza dei tubi di scappamento.
Allontanandosi dalla città il paesaggio diventa rapidamente una piana sconfinata su cui la strada disegna un lungo nastro rettilineo che scende fino al profondo sud, fino al confine col Kenya e poi ancora oltre, fino a Mombasa.
La nostra meta è, però, molto prima: siamo diretti a Gighessa, distretto di Shashamane, dove ormai da diversi anni è attivo un progetto chirurgico ortopedico che si avvale del supporto logistico della missione locale.
Due volte l’anno un gruppo di volontari, che a rotazione garantisce la presenza di medici ortopedici, anestesisti e infermieri, scende a Gighessa portando con sé tutto il materiale necessario per allestire una sala operatoria e farmaci per la degenza successiva.
Per due settimane la sala operatoria sarà attiva per garantire tra i cinquanta e i sessanta interventi.
Dopo di che, il gruppo si dà il turno con altri volontari che si occuperanno della fase riabilitativa.
E’ un piccolo progetto, nato e gestito in modo snello e in totale autonomia, che si propone di portare chirurgia ortopedica in una realtà sguarnita di strutture sanitarie.
In Etiopia, infatti, la situazione sanitaria ed ospedaliera è drammatica: gli ospedali sono pochi e i più qualificati sono solo nella capitale; il costo è a totale carico dell’ammalato e questo rende impossibili le cure per la maggior parte delle persone che vivono in condizioni economiche d’assoluta povertà.
L’ammalato deve non solo pagare degenza e farmaci ma, spesso,  provvedere anche al vitto e addirittura alla biancheria del letto.
Le cure chirurgiche, inoltre, anche per la cronica mancanza di chirurghi, sono di fatto improponibili.
Sono bambini e adolescenti i destinatari di questo progetto, con patologie ormai inesistenti nel mondo occidentale: patologie legate alla povertà, alla mancanza di prevenzione adeguata, alla mancanza di una cultura della salute e a condizioni ambientali che richiederebbero radicali trasformazioni.
Bambini che a causa della loro patologia resterebbero per lo più un peso per la famiglia, senza la possibilità di autonomia di movimento.
Ormai si è sparsa la voce che due volte l’anno i bambini potranno essere operati e curati gratuitamente a Gighessa e qui arrivano anche da lontano, magari dopo giorni di viaggio, le mamme giovanissime o le nonne, più raramente i papà, con i loro figli a volte neonati, a volte già grandicelli.
Veniamo informati che a Gighessa già c’è una piccola folla in attesa, ma prima bisogna fermarsi in altre due missioni a visitare anche qui possibili pazienti.
L’arrivo dei medici dall’Italia crea un’attesa ed un’aspettativa che in molti casi saranno deluse.
Non è facile far capire che i “medici italiani” non sono onnipotenti e hanno competenza solo per alcune patologie, non altre, e che spesso ci sono limiti oggettivi ad impedire il “miracolo”.
Una prima valutazione dei casi è fatta dal personale delle missioni, ma capita che molti giungano alla visita con una speranza che non potrà avere seguito.

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Pensiero del Presente / Partecipazione politica e costruzione del Sé

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Questo scritto è una riflessione nata da una mia esperienza diretta, in qualità di candidata al consiglio comunale della mia città: non vuole essere una dissertazione teorica definitoria, ma semplicemente comunicare pensieri e domande che mi sono fatta durante quell’interessantissima esperienza.
Partendo da temi cari alla Psicosocioanalisi formulo questa domanda: l’agire politico esprime solo il tentativo di dare risposta a esigenze operative (economiche e organizzative) o si colloca in quell’area di complessità in cui le istanze originarie del si strutturano ed evolvono nell’incontro?
In altri termini la domanda che mi pongo è: “fare politica” risponde a bisogni sovrastrutturali o, al contrario, è una necessità psichica che, sia pure in differenti forme, ritroviamo come tratto distintivo dell’evoluzione dell’individuo?
Ormai una buona parte del pensiero psicoanalitico ha fatto proprio il modello della psiche che vede l’organizzazione del imprescindibile dalla relazione con l’ambiente. Lo stesso termine “” nasce come necessità di introdurre, nel concetto originario di “Io”, la componente relazionale, nella quale anche gli aspetti percettivi e somatici sono parte imprescindibile della costruzione dell’identità psichica.
La psicosocioanalisi appartiene alla costellazione teorica che s’interroga sugli aspetti relazionali, dove “relazione” è non solo quell’insieme di vicende collocabili nello spazio dell’esperienza affettiva primaria, ma diventa paradigma della dimensione culturale e gruppale nella quale è inserita la stessa relazione primaria. La “finestra psicosocioanalitica” proposta da Pagliarani resta un validissimo strumento per orientarsi nelle complesse vicissitudini della psiche. Nella sua semplicità grafico-spaziale mostra con immediatezza come gli spazi plurimi, che procedono dal singolare al gruppale, sono non percorsi che la psiche compie dopo che si è strutturata, ma luoghi di ridefinizione e ricostruzione della psiche stessa.
Sappiamo bene la conseguenza clinica di questa impostazione teorica: la mente è sì il frutto delle esperienze primarie, ma è anche portatrice di una plasticità adattiva e autogenerativa che la rende in buona misura “ricostruibile” nell’incontro. Non è un concetto da poco, poiché introduce una sorta di “speranza possibile” riguardo alla terapia di stati anche gravi, e mostra la dimensione gruppale come luogo del divenire demiurgico.
Gli interventi nelle aziende e nelle organizzazioni, fatti secondo il modello psicosocioanalitico, traggono la loro peculiarità proprio da questo presupposto teorico: prassi e apprendimento danno il massimo risultato in termini di raggiungimento dell’obiettivo, soddisfazione e possibile sviluppo, quando si muovono nello spazio della complessità e dell’integrazione tra componenti cognitive ed inconsce. Lo stesso criterio è applicabile a qualsiasi altro campo del fare, e non a caso s’incomincia a leggere l’attuale gravissima crisi economica come il risultato di una “scissione” troppo a lungo spacciata per pragmatismo ed efficienza.
Il dramma della crisi economica non è solo legato alla perdita del lavoro e all’impoverimento, ma all’improvviso accorgersi dell’alienazione diffusa che ha travolto gli aspetti identitari dei singoli e dei gruppi. Sicuramente anche la politica ha interpretato questa “scissione” che sembra il tratto connotante questo momento storico.

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Pensiero del Presente / Il ruolo dell’analisi istituzionale nell’affrontare l’ambiguità e la violenza nelle relazioni di cura

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Vorrei fornire alcuni spunti per una riflessione sul tema della violenza nelle relazioni di cura all’interno di contesti istituzionali. E’ un argomento delicato che si presta forse anche a equivoci.
Mi riferisco al fatto che, credo, sia facile, mettendo in campo queste due parole -“violenza” e “istituzione”- andare con la mente agli episodi di abuso conclamato che ogni tanto compaiono anche nelle cronache giornalistiche: penso a fatti che coinvolgono ospedali o case di riposo dove accadono episodi di quella che viene chiamata “malasanità”, ma penso anche ad episodi in altri contesti (penso alle carceri o ai presìdi di polizia dove vengono fatti i primi interrogatori in caso di fermo).
In tutti questi casi si parla di abusi da parte di singole persone o gruppi di persone che vengono in qualche modo enucleati, per così dire, dall’istituzione nel suo insieme e alle quali viene poi contestato il fatto come espressione di un comportamento individualmente sbagliato, irrituale, violento. In tutti questi casi il sentimento diffuso è che quegli episodi esprimano una deviazione grave o tragica da quella che è confermata come buona procedura di base.
Si potrebbe a lungo discutere di questi aspetti, che indubbiamente esprimono un livello conclamato di violenza, ma non è di questo che voglio parlare.
Non vorrei, infatti, parlare di episodi di malapractice o di abusi di ruolo ascrivibili a responsabilità individuali. Non certo per sottovalutazione di questi episodi, ma perché vorrei piuttosto riallacciarmi al concetto di “violenza originaria” come elemento imprescindibile delle relazioni.
Trasferendo questo concetto nel campo delle istituzioni, vorrei capire se è la natura stessa dell’istituzione a introdurre con sé aree dove si può annidare un’intrinseca violenza.
Ne nasce una domanda alla quale non è detto che si riesca a dare una risposta né immediata, né facile, né soddisfacente. La domanda è: la violenza si esprime solo nei fatti gravi che assumono una rilevanza penale, o è piuttosto una componente delle relazioni istituite?
Per provare a dare risposta è necessario partire dalla constatazione che l’organizzazione istituzionale in sé ha a che vedere con l’incontro e l’organizzazione di diversità, di disparità, di gerarchie, di differenti livelli di potere. Questo fa parte del mandato di ogni istituzione: trovare un livello organizzativo nel quale l’istituzione riesca a dare risposta ai bisogni che è chiamata a prendere in considerazione, attraverso un sistema articolato di ruoli, mansioni, ritualità. Un sistema complesso.
Da qualche tempo la parola “complessità” è entrata a far parte del nostro dizionario: in effetti, è un termine che aiuta, con l’immediatezza di quelle parole che portano con sé significati logici ma anche evocativi, a visualizzare i termini della questione.
Nell’ambito che qui voglio prendere in considerazione, la questione è che le istituzioni non sono solamente l’apparato normativo e procedurale che esprimono, ma sono una grande operazione culturale per organizzare i significati psichici, anche inconsci, che il loro specifico compito smuove e mette in fibrillazione.
Vi è un grande filone del pensiero filosofico che si occupa d’istituzioni, anzi, possiamo dire che il pensiero occidentale si regge, in buona misura, proprio sulle riflessioni sul significato e senso intrinseco delle istituzioni, da Machiavelli a Keynes, da Platone a Schopenhauer, tanto per citare solo alcuni di coloro che se ne sono occupati. La psicanalisi ha ulteriormente contribuito alla costruzione di un pensiero sulle istituzioni, introducendo concetti e ipotesi che, per l’obiettivo che oggi qui ci proponiamo, ci sono di grande aiuto.
La peculiarità dell’approccio psicoanalitico alle istituzioni è aver individuato il collegamento tra le funzioni dell’Io e le funzioni delle istituzioni.
Secondo quest’approccio le istituzioni non sono solo luoghi di organizzazione del lavoro, ma luoghi di organizzazione dei grandi temi psichici che ciascuno di noi ha incontrato nel suo processo di strutturazione del sé, e che continuiamo a incontrare negli infiniti modi con cui la realtà li fa risuonare e riattualizzare.
Il testo che ha dato avvio a questo filone di ricerca e pensiero è “Il disagio della civiltà” scritto da Freud nel 1929. E’ stato un testo fondamentale che si collega a quel filone di ricerca teorica che, con “Totem e tabù” del 1912-13 e “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” del 1921, ha gettato le basi per le ricerche successive condotte dagli psicoanalisti che più specificamente si sono occupati di istituzioni e che sono, per citare quelli più noti e che maggiormente hanno scritto in proposito, Bion, Blèger, Fornari, Pagliarani, Kaës, Neri, Correale.
Il pensiero psicoanalitico in merito alle istituzioni ha, per così dire, riscritto la loro stessa definizione, mettendo in luce come i gruppi istituiti si comportino come un grande e complesso apparato psichico nel quale possiamo ritrovare linee di sviluppo, intoppi evolutivi, ansie, angosce, fantasie inconsce, né più né meno che nella psiche individuale.

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Pensiero del Presente / Differenza e invidia di genere nello spazio della politica

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Tutto posso perdonarti,
non però il fatto che sei ciò che sei,
anzi che io non sono te.
Cartesio

 

Questo testo è stato scritto all’inizio del 2012, nel momento di passaggio dal ventennio berlusconiano al governo Monti. E’ stato un momento di grande significato politico che ha inaugurato la controversa stagione dei governi tecnici, ed ha segnato, sul piano simbolico, la fine dell’era che potremmo chiamare del “soddisfacimento orale”. Di colpo la politica ha riscoperto il “limite”, il “vincolo”, declinati in modo rigidamente superegoico, in netto contrasto con quanto accaduto negli anni precedenti. Questo scritto – una sorta di diario sentimentale di quei giorni, suggerito dalle emozioni provocate da quell’inusuale passaggio – articola la riflessione su come sia possibile organizzare in termini di cultura e politica il tema della differenza, là dove esso pesca negli aspetti inconsci del mondo pulsionale e attraversa la questione dell’invidia tra i generi. La domanda cui si cerca di dare risposta è come sia simbolizzata la differenza sessuale nello spazio politico attuale, ritenendo che questo tema sia paradigmatico della qualità delle scelte politiche.

 

I – Percezioni dello spazio politico contemporaneo.  

Mi affaccio a questi primi giorni del 2012 con una sensazione di stordimento, come se io fossi – fossimo tutti – reduci da una grande sbornia che ora si fa sentire come cerchio alla testa, intorpidimento della mente, colpa.
Anche sollievo, per essersi salvati in extremis (ma sarà proprio così?) da una definitiva catastrofe del pensiero.
Il chiasso degli ultimi mesi lascia ora il posto a un ristoratore silenzio che starà a noi riempire con nuove parole e nuovi patti.
Ma, parole per dire cosa? Patti attorno a cosa? Siamo sicuri di sapere di cosa vogliamo e possiamo parlare?
Quale mondo futuro riusciamo a contenere nel nostro spazio mentale, per potergli, innanzi tutto, dare nome, e accompagnarlo verso la sua nascita, là dove l’epifania diventa possibilità di nuove relazioni, nuove intese, nuove edizioni dell’incontro?
La fatica che abbiamo sostenuto, per non soccombere agli ultimi anni della nostra storia nazionale, ora si fa sentire nella forma dell’insidioso dubbio di aver perso per strada il corretto collegamento tra parola e significato.
Non è forse stato lo stravolgimento del senso che ha caratterizzato quest’ultimo periodo? Parole lanciate come bombe e poi rimaneggiate come se fossero scherzi di carnevale. Parole svuotate della loro pregnanza storica, svuotate della loro provenienza, annullate nella loro possibilità di raccontare un divenire. Parole ridotte alla stregua di nomi commerciali di prodotti sulla cui probabile falsificazione non è dato indagare.
Credo che, se dovessimo dare un nome agli ultimi anni della nostra storia, lo potremmo chiamare “il tempo della falsificazione”. Menzogna sarebbe già troppo nobilitante, poiché attiene alla dimensione, comunque alta, della scelta.
Falsificare è, invece, un gioco scioccherello; è scrollarsi di dosso ogni possibile inciampo nel valore etico della responsabilità; è costruire una falsa verità alla quale si finisce per credere. E ci si crede sinceramente, attraverso quei meccanismi di scissione e negazione che la nostra mente, individuale e collettiva, mette in atto per eludere la realtà e proclamare il principio del piacere come unico codice di lettura.
Se consideriamo quanto accaduto dal punto di vista psichico, è stata una regressione collettiva verso il territorio dell’ambiguità, là dove si perdono le differenze e tutto si mescola in un indifferenziato mondo percettivo pre-verbale, ma ha anche indicato quali potrebbero essere i contorni della futura frontiera post-moderna. E’ stata una collettiva regressione intrapsichica e, al tempo stesso, un lungimirante ologramma di ciò che potrebbe essere il nostro mondo a venire se non riprendiamo con forza la capacità di dare nome alle cose e costruire identità, individuali e collettive, a partire da una ritrovata nominazione di quanto accade nell’incontro tra mondo pulsionale e realtà.
Nel dire “realtà” specificherei “realtà storica”, poiché quello che è accaduto ha mostrato quanto la fatica del pensiero occidentale – che fin qui ci ha accompagnato conferendoci identità collettiva – possa essere facilmente dissipata se non si presidia con la dovuta energia questa eredità che può, forse, non piacere del tutto, ma rappresenta la nostra appartenenza e il nostro legame con ciò da cui proveniamo.
Come tutte le eredità, ci obbliga a pensare al nostro essere figli, alla nostra condizione di generati e a come ci collochiamo nello spazio temporale che attraversa le generazioni legandole tra loro. Spazio dove la coscienza del tempo storico che trascorre diventa incontro con le fantasie sulla sessualità: come potremmo esistere se all’origine non ci fosse l’incontro tra maschio e femmina, tra padre e madre? Come potremmo dare senso al susseguirsi degli eventi se non ci fossimo, prima, incontrati col tempo della coppia, della relazione, il tempo necessario a fare accadere le cose?
Non è un caso se la deriva collettiva degli ultimi anni è stata caratterizzata da una parte dal misconoscimento dei processi storici – che legano tra loro i fatti all’interno di un imprescindibile racconto dove esiste un prima e un dopo, una causa ed un effetto – dall’altra dall’uso disinvolto di un modello sessuale del potere che ha recuperato i simboli e il linguaggio di una cultura fallocentrica che qualcuno si era illuso appartenesse ormai al passato.
Certo, si può dire che l’accoppiata di sesso e potere è spesso comparsa nel corso della storia, a connotare i momenti in cui si voleva con forza porre l’accento sulla dimensione fallica del potere politico. Come pure si può dire – ed è stato detto, quasi a giustificazione di quel che accadeva – che da sempre le belle donne si accompagnano agli uomini di potere, nella reciproca ricerca di conferma del proprio valore sociale.
Quel che è accaduto è, però, profondamente diverso ed ha segnato una vera rivoluzione dell’immaginario collettivo, ponendo altresì la domanda: è stato l’establishment politico a orientare il sentire collettivo o, viceversa, si è limitato ad intercettare un bisogno che circolava?
Come psicoterapeuta che, quotidianamente, incontra gli aspetti meno organizzati della psiche, credo che la questione abbia grande rilevanza, poiché quello che è accaduto ha messo in luce le angosce, individuali e collettive, riguardo ai temi sessuali, mostrando una volta di più che la politica non è solo l’organizzazione nella spartizione delle risorse produttive, ma è la forma con la quale i fantasmi attorno a maschile e femminile s’impongono al gruppo umano.
Sono fantasmi che attengono al riconoscimento e all’attraversamento della differenza sessuale, con tutto ciò che ne deriva: fantasie di mancanza, di castrazione, di invidia, che esprimono la fatica a superare l’onnipotenza originaria per entrare in una dimensione relazionale che riconosca innanzi tutto la differenza tra generazioni.

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Pensiero del Presente / Alcune considerazioni sull’invidia di genere

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Abstract: Sempre più spesso nelle sedute di psicoterapia viene portata, soprattutto dai giovani, la difficoltà a trovare una personale identità di genere che rappresenti con forza e stabilità il personale progetto e la personale fecondità psichica. Sarebbe un errore considerare questo come espressione di un disagio individuale: è piuttosto espressione di una incapacità collettiva a trovare un nuovo lessico e una nuova semantica per dare nome agli assetti libidici, declinati nella liquidità della società attuale. Il perturbante tema della differenza, fondamento della costruzione dell’identità del soggetto, richiede di superare le modalità orali di relazione, oscillanti tra avidità e invidia, che si agitano non solo sulla scena della psiche individuale, ma su quella culturale e politica.

In questo nostro tempo, dove la liquidità dei nuovi assetti economici diventa fondamento di una nuova complessità sociale, mi chiedo se alcuni temi, sempre più spesso portati nelle psicoterapie, possano essere stimolo per una rilettura di alcuni passaggi della teoria psicoanalitica. Mi riferisco in particolare al tema dell’invidia di genere le cui vicissitudini, sia sul piano teorico sia su quello clinico, sembrano esprimere con efficacia la storia della difficile relazione tra i sessi.
Se consideriamo l’invidia del pene come unica via d’accesso all’identità femminile, attraverso l’accettazione della castrazione, potremmo essere d’accordo con chi ha letto tale teoria come espressione della cultura androcentrica dell’epoca. Se, però, consideriamo i contributi successivi dati dalle psicoanaliste che hanno proseguito questo filone di ricerca, possiamo dire che l’invidia del pene è solo l’espressione, sul versante femminile, di un’invidia più generale per il sesso dell’altro, il cui corrispettivo maschile è l’invidia per il genitale femminile.
Potremmo considerare l’invidia di genere come passaggio obbligato verso l’organizzazione dello sgomento di fronte all’alterità, tappa per la costruzione della propria identità sessuale, ma non solo. La differenza di genere, paradigma di tutte le differenze, angoscia poiché obbliga a riconoscere lo “straniero” e a riformulare la propria mitologia interpretativa della realtà interna ed esterna, individuale e storica.
Credo che solo partendo da questa ipotesi si possa comprendere il disorientamento di tanti pazienti di fronte ad una identità sessuale che faticano ad organizzare in una relazione progettuale e feconda. Sembra che il passaggio alla genitalità sia ostacolato dal sempre più difficile riconoscimento che l’incontro è possibile solo dopo aver rinunciato all’illusione onnipotente di poter avere ed essere tutto, come una cultura bulimica e confusiva suggerisce attraverso modelli culturali che anche la politica ha fatto propri.
Per entrare nello specifico dell’argomento vorrei portare un caso clinico. Si tratta di un maschio trentenne che si era rivolto a me per il ripetersi di attacchi di panico: da anni compromettevano la sua vita sociale e lavorativa e le precedenti terapie, anche farmacologiche, non avevano sortito alcun risultato. Quando la terapia con me era già avviata, il giovane aveva iniziato una relazione d’amore con una coetanea. Relazione molto complicata, che veniva frequentemente portata in seduta per i suoi complessi contenuti. Sembrava che la coppia avesse messo come posta in gioco non la ricerca del reciproco piacere e di un progetto condiviso, ma quella di capire come funzionasse la spartizione del potere. Non era certo una coppia tradizionalista e, anche dal punto di vista sessuale, non erano per nulla legati a stereotipi sociali. Avevano una buona consapevolezza che la parità nella coppia era un valore, come spesso accade alle coppie giovani e di buona cultura, tuttavia, nonostante questi presupposti più che apprezzabili, entravano in continuo conflitto su temi che riguardavano il reciproco riconoscimento sia come persone separate, sia come persone ciascuna portatrice di un genere sessuale, come se il superamento culturale delle tematiche relative ai ruoli tradizionali femminili e maschili avesse portato alla luce una originaria difficoltà a districarsi nelle differenze. Lei proveniva da precedenti relazioni esclusivamente omosessuali ed era la prima volta che aveva una relazione eterosessuale. Lui aveva avuto altre donne, ma con questa aveva provato per la prima volta una grande attrazione anche sul piano intellettuale. Si erano incontrati “alla pari”, ma proprio questo apriva a più profonde domande su cosa significhi essere femmina ed essere maschio e, ancor più, cosa significhi incontrarsi.
Sembrava che i ruoli, stereotipicamente distribuiti in attivi e passivi, maschili e femminili, si mescolassero in modo confusivo, creando frequenti occasioni d’attrito, poiché nessuno dei due si sentiva pienamente riconosciuto dall’altro nella propria parte desiderante, espressa da un’appartenenza di genere cui faticavano a dare forma. Questo ricadeva spesso nello spazio dell’intimità sessuale, dove compariva un disorientamento riguardo all’immagine di sé che, nella coppia, spesso riverberava in forme incomplete, deformate, spezzettate.

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Per una rilettura di “Senilità”: psicoanalisi, narrazione e cura nel pensiero di Svevo

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I rapporti tra psicanalisi e letteratura sono talmente complessi che sembra sia impossibile poter esaustivamente cogliere i nessi profondi che legano queste due discipline fra le quali, da sempre, vi è un vivo interesse reciproco.
Vorrei qui limitare il discorso all’uso della psicanalisi, o meglio del suo linguaggio e delle sue strutture interpretative, in relazione alla critica letteraria.
Molto spesso la critica letteraria -ma anche quella che si applica al cinema o alle arti figurative – si avvale di strutture interpretative desunte dalla psicoanalisi che, utilizzata al di fuori del suo naturale habitat clinico, sembra essere in grado di offrire l’opportunità di svelare aspetti che, altrimenti, resterebbero nascosti.
È vero che la psicoanalisi nasce come strumento terapeutico, ma essa è anche un tramite di conoscenza secondo una teoria che può anche non essere condivisa, ma che comunque rappresenta uno dei possibili modi di leggere la realtà e, a maggior ragione, la realtà artistica, la produzione artistica, dal momento che in essa è quanto mai agevole riconoscere linee interne di percorso inconsce, passibili quindi di analisi del profondo.
L’impressione che se ne ricava è che queste due discipline si incontrino in uno spazio condiviso, abitato dalla comune ricerca del “capire” e del “dare significato”.
Il lavoro dello psicanalista consiste infatti nel “dare significato” a quel mondo interno che rischierebbe di restare inaccessibile o, peggio, utilizzabile solo con modalità patologiche, proprio come il lavoro del critico consiste nell’indicare i possibili modi di “leggere” un’opera, individuandone e portandone alla luce gli aspetti “segreti”.
Vi sono opere letterarie che con prepotenza si offrono a un’interpretazione analitica, o perché propongono personaggi dagli evidenti tratti patologici, o perché il loro intreccio induce a riflettere sulle dinamiche psicologiche, o, ancora, perché traspare in esse una ricerca dell’autore, più o meno consapevole, diretta verso le parti più profonde di sé.
Tra gli autori di opere siffatte rientra senza dubbio Italo Svevo: credo sia davvero impossibile leggere Svevo senza fare un collegamento con la psicoanalisi, se non altro per ragioni storiche, dal momento che la produzione sveviana si sovrappone cronologicamente a quella di Freud, il cui pensiero, come è noto, penetrò precocemente in Italia proprio nella Trieste sveviana.
Tuttavia, nell’individuare le ragioni dell’interesse reciproco fra psicoanalisi e letteratura, non va dimenticata quella che è certamente la meno riconoscibile, ma anche la più profonda, e cioè il fatto che la stessa psicanalisi può essere considerata un genere letterario basato sulla narrazione.
La psicanalisi, o le psicoterapie analitiche, si dipanano infatti secondo un filo narrativo, anzi si può dire che la psicoanalisi sia una narrazione, una narrazione del tutto particolare alla quale non interessa tanto il descrittivismo naturalistico, quanto la possibilità di individuare connessioni simboliche che introducano nella narrazione un elemento di conoscenza critica sulla quale fondare la possibilità di giungere alla meta finale che è la trasformazione di una struttura psichica.
Durante una psicoanalisi il paziente rivive e riscrive, e non già descrive, il “romanzo” della propria vita e, nel corso della narrazione, il paziente e il terapeuta sono chiamati al tempo stesso ad essere protagonisti ed osservatori.
Ecco che allora la psicanalisi solleva degli interrogativi relativi al senso del narrare: a cosa serve narrare ?
Quale è lo scopo del narrare?
È semplicemente portare fuori da sé quegli aspetti esistenziali che vengono percepiti come dolorosi o fastidiosi – per liberarsene – o è introdurre una possibilità di conoscenza trasformativa?
È proprio intorno a tali quesiti che si articola la differenza tra interpretazione analitica di un’opera letteraria ed opera letteraria di contenuto analitico.
La differenza sta, come si capisce, non tanto in ciò che si narra, ma nella qualità della narrazione; non consiste tanto nel descrivere una patologia, o semplicemente un carattere, quanto nel cogliere il nesso tra malattia e narrazione da una parte e narrazione e terapia dall’altro.
Da questo punto di vista Svevo è un autore che si può definire analitico, poiché la sua narrazione risponde a un buon numero di quelle caratteristiche che contraddistinguono la psicoanalisi.
Innanzi tutto egli, nel corso della narrazione, è osservatore, sa mantenersi lucido e critico, ma è anche protagonista, poiché il colore della narrazione è quello di una vicenda vissuta in prima persona (anche se formalmente “Senilità” è scritto in terza persona, a differenza della Coscienza di Zeno, che è un romanzo-diario).
Non solo, ma il tema centrale di “Senilità” è quello della narrazione, anzi di una narrazione mancata e, per traslato, di una terapia mancata e di una guarigione mancata.

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