
Yolaine Destremau, Seguire la vena, Barta 2025 (pp. 164, euro 15)
Ho visitato le Apuane, più di una volta. Un paesaggio diverso da quello del bacino della pietra di Botticino; diverso il minerale estratto, diversa la morfologia della cava, diversi le logiche di estrazione. Ma non posso leggere questo romanzo senza rappresentarmi i luoghi in cui si svolge assimilandoli a quelli a me vicini e a lungo frequentati per mettervi in luce i tratti peculiari di un paesaggio del lavoro.
Del resto, i bulldozer, i camion, “il frastuono di motori, delle tagliatrici a filo diamantato, delle fresatrici, oltre le grida degli operai o il fracasso dei blocchi” che cadono “sui detriti di marmo” sono quelli…
Una donna al lavoro in cava, capace per di più di dirigere sul campo le operazioni e di tagliare lei stessa i blocchi, a Botticino o a Nuvolera non l’ho mai vista. Ma ora so immaginare che aspetto potrebbe avere: un cinquantenne minuta, tutta nervi, la chioma precocemente imbiancata, vestita più o meno come gli altri cavatori, il viso segnato dall’età e dai giorni passati all’aria aperta ma gli occhi di sempre, capaci di sguardi scostanti e decisi come di improvvisi avvicinamenti, di un attenzioni improvvise, vibranti.
Ma Gemma non è fatta solo della vita in cava. Il suo lavoro, nonostante lei sia “nata con la polvere di marmo nei capelli” e “seguire la vena” del marmo sia una capacità in lei precocemente appresa, è lo scenario nel quale, parallelamente, si svolge una vita segnata da “una convinzione profonda e misteriosa”: quella di non avere figli.
La storia raccontata da Destremau è la storia di ciò che questa donna riuscirà a fare di quello che gli altri avevano fatto, o cercato di fare, di lei. A partire, come sempre avviene, dai genitori, dai quali ha ricevuto “così tanto amore da non sentire più il bisogno di cercarne altrove”, anche se la relazione con Samuele, scultore per vocazione e anarchico per convinzione, dura, con interruzioni e riprese, da una vita. Ma proprio nella relazione con il padre e la madre, ormai vecchi e bisognosi delle sue cure, matura la svolta. La lettura del testamento, che segue alla loro tragica morte, svela il segreto da tutti conosciuto tranne che dall’interessata: il suo essere una figlia adottiva. Da questo momento, alle fatiche del lavoro si aggiunge, per Gemma, il desiderio tormentoso di sapere chi l’aveva abbandonata, il bisogno di conoscere l’identità dei suoi genitori biologici.
Sarà un percorso accidentato, doloroso, per nulla lineare, ma che porterà Gemma non solo a identificare la propria madre nella zia, personalità contorta e ambigua, che le ha da sempre dimostrato un interesse venato di critica ostile, ma soprattutto a comprendere l’origine della scelta che, ancora ragazza, l’aveva portata a precludersi la maternità, con un intervento chirurgico. Ma è alla sua primissima infanzia che deve risalire, alla bambina di sei mesi che era stata e che aveva rischiato di morire, perché “a sei mesi lo sapeva già. Rifiutando di nutrirsi, cercava di far capire a tutti che la sua mamma le mancava”. La sua mamma, la quindicenne che si era lasciata convincere a rinunciare alla sua creatura, che da quel momento avrebbe portato nella propria carne il segno di quell’“abbandono forzato [che] era all’origine di tutto”, compresa la “sua avversione per le donne incinte e per i bambini. (…) Veniva da lì il senso di mancanza, era stata la prima sofferenza”, che “si era annidata bene al caldo, e avrebbe potuto restarvi per sempre, se non fosse stato per l’incontro dal notaio, cinquant’anni dopo. Siamo tutti prigionieri della nostra infanzia”: il neonato “che sembra solo mangiare, dormire e piangere, indifferente al mondo che lo circonda, attento solo ai suoi bisogni, dispone in realtà di una cassa di risonanza che tutto assorbe, tutto comprende, tutto sa. (…) Gemma aveva vissuto la disperazione di sua madre incinta (…) e poi lo strappo. Sotto la pelle fine, tutto si era impresso in lei, per la vita”. E si ritrovava, adesso, “nullipara. E di nessuno, di nessun luogo”, preda dell’“impressione di camminare a lato di sé stessa”.

Ma, lo si diceva, al passato, alla fase della costituzione – per dirla con Sartre – segue quella della personalizzazione, che può cristallizzarsi e accompagnarci fino alla fine oppure mantenersi aperta, attraverso le età della vita, e conoscere evoluzioni impensate. Come quella che porterà Gemma, capace di cogliere la verità che anima chi cerca di opporsi al degrado ambientale indotto da uno sfruttamento delle cave ormai senza regole e limiti; capace, quindi, di resistere alla vantaggiosa possibilità di vendere la sua cava e decidere, invece, di concluderne l’attività. Capace, finalmente, “di seguire la vena. La sua”.
Un personaggio dai tratti unici anche se non definiti una volta per tutte, un paesaggio connotato dalla sua costituzione fisica e segnato dal lavoro degli uomini. Entrambi soggetti al cambiamento, immersi nel tempo; entrambi capaci di resistervi, di opporvi le ragioni della vita.
È un romanzo fatto delle componenti essenziali della narrazione, Seguire la vena. Una narrazione condotta con una sapienza dell’intreccio che cattura il lettore e una densità, tesa e sorvegliata, della scrittura che gli farà serbare memoria di questo libro.