
Massimo Tedeschi, Morte ignobile di Bruno D. Oratorio a dieci voci (più una) sui disastri della guerra, La Quadra Editrice 2024 (pp. 168, euro 12)
Un caso fra i tanti, una morte che solo la sproporzione fra la colpa e la pena fa se mai emergere sullo sfondo dei “disastri della guerra” evocati nel sottotitolo. Scoperta solo casualmente, oltre tutto, come capita quando si scartabella negli archivi: cerchi una cosa e ne trovi un’altra, che però, magari, rimane “come annidata in un angolo” per poi erompere, e imporsi,quando la contemporaneità aggiunge, purtroppo, motivazioni più urgenti alla semplice curiosità storica. Sono i “venti di guerra che sono tornati a percuotere il mondo” a fare di quello che poteva apparire un episodio isolato una vicenda esemplare della ferocia gratuita che la guerra, appunto, autorizza.
L’impiccagione di un ladruncolo, che non certo per vocazione portava la divisa dei militi della Guardia Nazionale Repubblicana, diventa il fulcro di una storia che mette a confronto voci a diverso titolo coinvolte.
Il metodo ricorda quello della storia orale, nella quale più dell’oggettività del fatto a occupare la scena è il suo prender consistenza grazie a testimonianze che ne restituiscono dimensioni e significati a prima vista indistinguibili, o trascurabili. Non compaiono, queste voci, nello scarno documento che leggiamo nell’appendice, una pagina del Chronicon cui per anni si è dedicato un parroco di paese: sono state cancellate dall’“avarizia delle fonti scritte” e dall’“ammutolimento che il tempo (ha) imposto a quelle orali”, come spesso avviene? Non è questo il caso: “tutto quello che non è espressamente indicato nel documento – ci avverte infatti l’autore – è frutto della [sua] fantasia”.
Si sa, del resto: la scrittura storiografica non è solo la relazione che fa seguito a un asettico esame di documenti, ma è anche immaginazione prima e talento narrativo poi. Esserne coscienti, e non nasconderlo, rende comunicabile, e coinvolgente soprattutto, il racconto dello storico. Come in questo caso, in cui balza agli occhi il vantaggio fornito dall’aver, appunto, immaginato i resoconti che leggiamo: quello di render possibile allo scrittore di ‘entrare nella testa’ dei testimoni, proprio come fanno i romanzieri con i loro personaggi. E dunque, ad esempio, di includere tra le motivazioni del capitano della Wehrmacht Jurgen K., che ordina l’esecuzione del malcapitato, la somiglianza di quest’ultimo con il potenziale seduttore della moglie lontana, àncora fondamentale per l’ufficiale per altro attivamente e convintamente da anni coinvolto nelle imprese del Reich.
Storia e storie si intrecciano dunque, processi ed eventi di portata generale non cancellano la dimensione individuale e i destini del singolo, vittima o carnefice che sia (è un segno di maestria narrativa il cenno alla soddisfazione del capitano di fronte alla notizia che la moglie ha finalmente accettato di trasferirsi con i figlio a Dresda, “un museo a cielo aperto”, bombardare il quale “sarebbe un crimine contro la storia mondiale dell’arte” e appare quindi un’evenienza del tutto inconcepibile).
Facendo capo a identità e collocazioni sociali e politiche diverse, le altre nove voci – alle quali, secondo la tradizione dell’oratorio barocco, si aggiunge in apertura, ma tacendo nel seguito, quella del narratore – tornano puntualmente sul fatto accaduto offrendo di esso, ma anche del contesto nel quale è accaduto, letture che ogni volta ne mettono in rilevo un aspetto inatteso.
Il comandante partigiano deve rilevare come qualcuno dei suoi non sia rimasto estraneo a un senso di ammirazione per il “modo in cui si sono condotti i repubblichini e soprattutto l’ufficiale tedesco, dimostrando che sanno tenere l’ordine nelle loro file, anche a costo di sacrificare qualche mela marcia”, a differenza dei partigiani che spesso rinunciano a giustiziare i compagni rivelatisi spie.
Il maestro che si è prestato a far da interprete ai tedeschi, in una lettera a quello che apprendiamo essere il suo “superiore” – un funzionario dell’Ovra, la polizia politica fascista – lamenta l’“ottusità” e la “brutalità” della decisione del capitano, il cui risultato non è stato che la demoralizzazione dei militi della Gnr e il disorientamento dei “sentimenti popolari”.
Il montanaro, padre di tre figli che non sono più tornati dalla guerra, non ha remore a definire una “vergogna” l’esecuzione ordinata da un ufficiale di cui ha saputo vedere il vuoto interiore, la disperazione di chi sa che la guerra è persa, la stessa guerra che ha ridotto tutti – incapaci di ribellarsi a quanto stava avvenendo – peggio delle bestie, che “non uccidono così i loro figli”.
Non sono solo le diverse visuali sul fatto accaduto a prender sostanza, ma più in generale i profili umani, le storie vissute dei diversi testimoni e le conseguenze che in esse il fattaccio ha prodotto.
Come nel caso di Gina, per la quale il furto di cui è stata vittima si inscrive in un’esistenza segnata dalla guerra, dalla vedovanza e dalla fatica. Ne racconta diffusamente, in confessione: il gnaro che le ha portato via la catenina del matrimonio e quel po’ di soldi guadagnati vendendo le sue formagelle è arrivato dopo tutti quei “rubagalline” di “ribelli, e repubblichini, e tedeschi”, ma a lei sarebbe bastato, recuperata la refurtiva, vederlo preso a “calci in culo”, mica appeso a un albero della piazza… Ma questa ammissione non basta a convincere il curato, che le nega l’assoluzione per poi precipitare in una crisi di coscienza che arriva a porgli interrogativi sulla sua stessa vocazione. Uno “stato d’angustia” è anche quello nel quale si trova il parroco, in quel drammatico frangente assente dalla sua parrocchia per supplire un collega malato, costretto com’è – fra critiche, timori e maldicenze dei paesani – a prender partito circa l’esposizione, per tre giorni, del cadavere dell’impiccato. In una situazione imbarazzante, anche se in un ruolo del tutto differente e per altri motivi, si trova anche l’”alto ufficiale della Gnr”.

Delusioni e frustrazione hanno costellato la sua breve carriera militare, ricorda il condannato – sì, non ce l’aspettavamo ma, con uno scarto inatteso del narratore, troviamo anche lui a dare la sua versione dei fatti – sino a giungere al momento in cui, come per ottenere un risarcimento, ha compiuto il gesto che gli costerà la condanna nell’assenza del minimo segno di solidarietà dei suoi stessi camerati.
Prima che il sipario cali su questo teatro nel quale personaggi diversi si sono succeduti sul palco, si alza il disperato appello della madre del giovane giustiziato, che rivuole il corpo del figlio perché almeno gli si faccia un funerale come si deve e lo si seppellisca vicino a casa, e infine, pacatamente, offre la sua testimonianza il farmacista fattosi storico locale, amico di un ex sergente degli alpini, autore di libri sulla guerra che fanno leggere ai ragazzi delle scuole: quale migliore conclusione di questo sommesso omaggio a Mario Rigoni Stern per concludere questa “storia ignobile, in cui le leggi di guerra e le leggi dell’umanità sono state calpestate” e che solo un impianto narrativo geniale ha saputo strappare all’oblio?