Il passato non è un fossile

Maylis de Kerangal, Giorno di risacca, Feltrinelli 2025 (pp. 192, euro 17)

“Giallo senza colpevole, detective senza incarico” si è letto a proposito di questo libro in una recensione recente (Gennaro Serio sul “manifesto – Alias” del 28 maggio) e infatti è anche questo, l’ultimo romanzo della scrittrice francese, anche se sembra piuttosto ascrivibile ai racconti che legano memoria e luoghi e trovano nell’evocazione la loro ragione di fondo. “Non potrei scrivere se non avessi prima un posto che la narrazione può abitare”, “per me la scrittura viene sempre in un secondo tempo, in differita”, spiegava l’autrice in un’intervista rilasciata un paio danni fa, quando era uscito il suo Fuga a est (in queste note il 28 maggio 2023).

Principi senza dubbio rispettati in questa nuova prova: la protagonista – doppiatrice sempre sorpresa di vedere la propria voce dar vita a una persona che non (è) lei” ma minacciata nella sua professionalità da problemi di voce e soprattutto dalla “sintesi vocale” ormai fornita dall’intelligenza artificiale – torna dopo una ventina d’anni nella sua città, Le Havre, e subito si trova a vivere la sensazione che la guiderà per il resto del suo soggiorno: la sensazione che di aver lasciato lì, nella città della sua infanzia e della sua prima giovinezza, la sua “vita vera”, e che quella che poi ha vissuto – il lavoro, il marito, una figlia – dovesse ricondurla dove tutto era iniziato. Anche se l’occasione non è venuta da lei, ma da una comunicazione del commissariato di Le Havre, che la vorrebbe ascoltare a proposito di un assassinio: al corpo dell’uomo ritrovato sulla spiaggia è stato trovato addosso un biglietto sul quale compariva il numero del suo cellulare.

Ma ancor più di questa circostanza inspiegabile è l’arrivo a Le Havre a scatenare in lei non tanto un sentimento di perdita, “la sofferenza per quello che si cancella, si altera, diventa irriconoscibile”, quanto “un’altra emozione, altrettanto struggente, quella che si prova al contrario per quello che, nel tempo, persevera e si rassomiglia, per quello che è sopravvissuto e (si può) riconoscere”.

La storia personale si intreccia con quella della città, ferocemente bombardata nella seconda guerra mondiale non diversamente dall’Ucraina e da Gaza oggi, così come il ricordo di Craven, il giovane amato da ragazza e poi scomparso, anima il desiderio di identificare lo sconosciuto, di portare alla luce la sua storia: il pensiero ossessivo di quel corpo “aveva finito per prendere la forma di una città, di un primo amore”.

Non c’è soluzione in questa vicenda: “il lenzuolo bianco, scoprendo la parte alta del torso, modificava qualcosa, e io ero turbata dalla nudità delle spalle, e dal collo fragile, segnato. Per quanto cercassi di essere distaccata, non avrei saputo essere categorica: quell’uomo forse era Craven, sì, somigliava a quello che avevo conosciuto, ma poteva anche essere qualcun altro, uno qualunque. Un comune mortale. (…) ricordavo i tre piccoli segni disposti a triangolo all’interno del gomito, quei nei che avevo toccato con la punta delle dita la nostra prima notte… Avrei potuto chiedere di scoprire il suo braccio, di distenderlo sotto le lampade, per sapere finalmente, (…) ma sono rimasta muta, immobile”.

“Il passato non era una materia fossile – deve infine constatare la protagonista –, si evolveva nel tempo, morbido, plasmabile, si evolveva all’infinito, si ricaricava nel corso della vita, il passato rimaneva vivo”.

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