Il senso nella vita

Mark Rowlands, Filosofia del cane. Lezioni di felicità e saggezza dai nostri più fedeli compagni di vita, Einaudi 2025 (pp. 230, euro 18)

Il sottotitolo non giova: fa pensare a un manuale di self help da un lato e a discorsi triti e scontati dall’altro. E le prime pagine sembrano confermare la prima impressione: la solita prosa accattivante di molti autori anglosassoni, che nella leggerezza dell’eloquio rivelano la paura assillante di annoiare il lettore.
Occorre andare avanti per rendersi conto che l’acquisto del libro non è stato incauto. Restituisce infatti quel che ha promesso, sin dal titolo: sia la valenza soggettiva che quella oggettiva del genitivo, cioè. La filosofia di cui il cane è portatore ma anche i discorsi dei filosofi che hanno avuto per oggetto il cane, o l’animale in generale.

È dal primo aspetto che si parte, citando Socrate, ossia Platone che ne riferisce una sentenza giustamente famosa: “Il cane ha l’anima di un filosofo” – che l’autore parafrasa: “i cani sono filosofi per natura”. In questo differenziandosi dai pensatori che se ne sono occupati: “i filosofi umani riflettono sulle questioni. I cani, invece, le vivono”. C’è tutto il libro, in questa considerazione: i filosofi non sono, in questo caso, che i rappresentanti del genere umano, vale a dire di quegli animali che, fra tutti, sono capaci di autoesame, ossia di pensare sé stessi intanto che pensano, parlano, agiscono, il che li separa, li rende incapaci di aderire pienamente, univocamente alla vita.

Anche questo libro dunque parla di animali non umani, di uno in particolare, per parlare di quelli umani ma, a differenza di quanti si sono cimentati in questo confronto dagli albori della filosofia, non giunge a dedurne la superiorità degli uomini, ma se mai la loro differenza, una differenza di grado oltretutto, ma, soprattutto, responsabile dell’infelicità umana. Se i cani sono in grado, da bravi filosofi, di insegnarci qualcosa è grazie al loro amore per la propria vita, un’unica vita, non una vita duplice come quella degli uomini, attori ma anche spettatori, e speso recensori severi, della loro esistenza; inevitabilmente portati a dividere il loro amore per la vita fra quella vissuta e quella esaminata, e dunque a non amare pienamente, senza riserve, né l’una né l’altra. Portati anche, per questa via, a cercare un senso della vita, anziché – saggiamente, caninamentenella vita: quel senso che “si manifesta quando ciò che si è coincide con ciò che si fa”, indipendentemente dal fatto che questo abbia “un’utilità o uno scopo esterni” e che si affidi alla ripetizione più che all’idea di un progressivo miglioramento di sé e del proprio stato.

Di pagina in pagina, Rowlands spiega con efficacia – basandosi sulla concreta esperienza di uomo che ha sempre vissuto in compagnia di due o tre cani per volta –, con una scrittura piana ma non banalizzante, questa sua convinzione. Aprendo anche a considerazioni meditate: “La morte è il limite di una vita e quindi non può esserne parte (…). Purtroppo, però, ciò vale solo per una vita vista dall’interno, una vita mentre viene vissuta. Poiché i cani vivono solo così, la loro vita non ha limiti (…). Non vale lo stesso, invece, per gli umani. Noi viviamo una vita vista contemporaneamente dall’interno e dall’esterno. E la vita vista dall’esterno ha limiti ben identificabili. La morte è un evento della vita vista dall’esterno”.

Per giungere, infine, alla suggestiva, coerente conclusione: “il senso nella vita esiste dovunque la felicità scaturisca dalla natura del soggetto in questione. Se volete sapere che senso può esserci nella vita, prendetevi un cane”. E, sottinteso, sappiate vivere, anche, la sua vita, il suo modo di stare al mondo.

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