
Paola Baratto, I giorni degli altri, Manni 2025 (pp. 112, euro 14)
Bastano poche righe per ritrovare la cifra e insieme la motivazione profonda della scrittura di Paola Baratto: una presa di distanza dall’esistente, una critica irrevocabile e sommessa del mondo così com’è.
Questa volta tuttavia – rispetto alle precedenti, puntualmente segnalate in queste note da una decina d’anni a questa parte – le voci attraverso le quali questa postura si esprime non sono quelle di poetici outsider, di figure emblematiche e inevitabilmente marginali che animano brevi racconti, ma di due donne, protagoniste di un romanzo che s’arricchisce via via di personaggi e vicende rivelando complesse trame familiari, rimandi e memorie che innervano il presente.
Due donne che impersonano l’opposto della smart people, delle “persone brillanti” che la pubblicità propaganda con un’insistenza tale da saturare il senso comune e diffondere la vuota illusione di appartenere alla schiera dei noi, contrapposta a quella degli altri, i diseredati, i perdenti; un’illusione pronta sempre a trasformarsi in “una rabbia imbottita d’invidia” nel caso ci si senta esclusi dalla categoria dei vincenti.
Bruna, cui è assegnata la voce narrante, incontra – casualmente? – Ludovica, che “ha diversi anni di meno (…), ma è più vecchia”. Il loro è un “incontro di solitudini un po’ anomalo” perché né l’una né l’altra cercava compagnia, quanto piuttosto una “complicità”, sostanziata dall’interesse alle “vite degli altri” ed evidente fin dal primo approccio. Perché Ludovica è una di quelle “persone che cercano di conoscerti senza porre domande e non si fanno imbarazzare dai silenzi”.
Ad accomunarle è una riservatezza che appare condizione di uno spirito oppositivo, di uno scarto che consente il riscatto dal conformismo e dall’“accidia cui ci si consegna come ad una forza di gravità”, e che non riguarda solo le persone, ma anche i luoghi: “Da quando la fabbrica ha chiuso, la via è più sgombra e va a finire in nulla, dentro cortiletti pieni di ferraglie. Un ricetto cittadino con sembianze di campagna. (…) I luoghi che han fatto il loro tempo hanno il pregio residuo di compiacere chi è malato di nostalgie. (…) [Ma] Di fronte ad ogni resa all’abbandono, mi chiedo sempre se fosse davvero ineluttabile o a che punto si sarebbe potuto fermare il declino”.
I luoghi ma anche le cose, “le cose di sempre, che diventano insolite se si ha il gusto dei dettagli (…) a me è sempre piaciuto – osserva Bruna – soffermarmi sugli aspetti marginali. M’illudo che possano rivelare in codice per decifrare il disordine delle cose”. Senza per questo rivelarlo appieno, come del resto la poetica dell’autrice prevede: “Lo stimolo alla scrittura è un senso di mistero che si vorrebbe lasciare intatto, senza spiegare tutto”.
A segnare la continuità con gli scritti precedenti, e a suonare come ulteriore conferma della loro l’originalità , è anche la qualità della scrittura, una scrittura che ti obbliga al suo passo, che ti impedisce di sorvolare le parole, perché ognuna è quella e non potrebbe essere un’altra, perché ognuna concorre a dar corpo a una riflessione che non avrebbe trovato altrimenti modo di esprimersi, e di sorprenderti: “Ogni estate porta dentro il riverbero di quelle trascorse. È nella sua natura evocare una risonanza, ripresentandosi nuova e già vissuta”, oppure: “Alcuni di quei testi mi accompagnavano da anni e, sebbene mi fossero piaciuti, non avrei più saputo dirne il motivo. È un po’ quel che avviene con certe persone. O con qualcosa che si è scritto in passato e non sentiamo estraneo, ma neanche intimo.”

Come già rilevato in altre note sui lavori di Paola Baratto, questa estrema cura della lingua non si può considerare una qualità aggiuntiva della sua narrativa. Ne è piuttosto sostanza, condizione senza la quale quello spirito critico che la anima rischierebbe di ridursi a generosa testimonianza o rischierebbe di farsi declamatoria petizione di principio, invece di essere, come inequivocabilmente è, il segno di una consapevole e indefettibile resistenza alla corruzione del linguaggio, alla omologazione delle parole, alla normalizzazione dei significati.