
Osvaldo Squassina, Renzo Bortolini, Una lezione di umanità e democrazia. La Fiom di Brescia negli anni Settanta, Fiom-Cgil-Liberedizioni 2025 (pp. 448, euro 19)
Quello che segue è il testo dell’intervento pronunciato da Carlo Simoni nel corso della presentazione del libro il 15 aprile 2025.
Come si può leggere fin dalla presentazione del libro, “le vicende descritte sono state ricostruite, attraverso la consultazione di documenti ufficiali custoditi presso l’archivio storico della Camera del Lavoro di Brescia, dal quale sono stati estratti accordi sindacali, documentazioni sulle vertenze aziendali, testimonianze fotografiche, volantini, articoli di stampa e corrispondenze tra Organizzazioni Sindacali, Associazioni Imprenditoriali e Aziende”.
Un libro di storia, quindi, perché la storia si fa con i documenti: è questo che la distingue dai racconti che travisano il passato o addirittura lo falsificano, oppure ne raccontano solo quello che conviene: operazioni che vediamo ogni giorno, soprattutto in questi tempi di guerra, da parte di governanti, politici e giornalisti che ci forniscono versioni parziali, cambiandole loro stessi nel giro di poche settimane. O versioni del tutto inventate: ci sono capi di stato che mentono sapendo di mentire e non dando alcun peso al fatto di poter essere smascherati.
È la messa in discussione della verità storica, la svalutazione del passato da parte di un presente che crede e sostiene di poter fare a meno di quello che l’ha preceduto.
Ma la storia ha dalla sua parte non solo l’incontrovertibillità dei documenti scritti, ma anche l’immediatezza, il calore dei documenti orali: la memoria dei testimoni, di coloro per i quali il passato che hanno vissuto continua a far parte del presente e sentono dunque il bisogno di trasmettere la loro esperienza a chi è venuto dopo.
In questo libro di storia c’è anche molta memoria.
In primo luogo perché i due autori sono anche testimoni in prima persona dei fatti che raccontano: Osvaldo, operaio alla Pietra; Renzo, alla Lucchini di Sarezzo. Entrambi delegati Fiom nelle loro fabbriche e dal ’77 operatori sindacali che anno vissuto gli anni di cui il libro si occupa.
In secondo luogo perché oltre alla ricostruzione storica il libro propone testimonianze, il discorso ricavato dai documenti si confronta con la memoria dei protagonisti.
Scorrendo i loro nomi, alla fine del libro, è facile constatare che buona parte di loro era già stata interpellata dalla Fiom di Brescia una quarantina d’anni fa, quando, nella persona del suo segretario generale, Giorgio Cremaschi, aveva deciso di dare incarico ad alcuni storici non solo di ripercorrere quanto era avvenuto nella fabbriche metalmeccaniche bresciane dalla metà degli anni ’70 alla metà del decennio seguente attraverso l’analisi di documenti e dati statistici (lavoro svolto da Alessandro Camarda), ma anche di prendere in considerazione il modo in cui i cambiamenti verificatisi erano stati vissuti dai delegati: una campagna di raccolta di oltre 50 testimonianze, che Gianfranco Porta ed io abbiamo registrato, trascritto, organizzato per argomenti in modo da metterle a confronto e ricavarne i punti comuni.
A ognuno dei delegati coinvolti si chiedeva di raccontare, impiegando il tempo che gli serviva – dalle due alle tre ore nella maggior parte dei casi – la sua esperienza dal momento in cui era entrato in fabbrica, concentrandosi però sula fase aperta dalla Strage di Piazza della Loggia nel ’74 – che per Brescia ha rappresentato un risveglio di coscienze e un apertura di dialogo fra diversi soggetti sociali quali il Sessantotto aveva rappresentato in altre realtà, dal 1974 quindi alla metà degli anni’80.

Al libro in cui si raccolsero i dati della nostra ricerca si diede un titolo che sintetizzava il periodo trattato: Gli anni difficili, gli anni dai quali ci viene Una lezione di umanità e democrazia, come recita il titolo del libro di Squassina e Bortolini che, partendo dal 1969, trattano poi dello stesso periodo da noi considerato: c’è una continuità profonda quindi tra i due lavori, non solo per il periodo scelto e per il metodo adottato, ma anche per i temi messi in luce.
Temi che nel libro del ’90 erano sostanzialmente tre.
In primo luogo, l’esperienza sindacale, il mestiere del delegato e il cambiamento in esso avvenuto rispetto agli anni ’70, rispetto alla fase del “sindacato dei consigli”, un sindacato che era stato capace di farsi collettore di esperienze e idee diverse, di confrontarsi con istanze diverse non per normalizzarle ma per interpretarle e farne sintesi.
C’è rimpianto, non critica nelle voci dei delegati che si erano formati in quegli anni: la presa d’atto di un sostanziale cambio di fase segnato da quello che nel libro di Squassina e Bortolini viene definito “lo spartiacque”: “lo spartiacque – scrivono – tra un periodo di forte crescita della capacità del movimento sindacale di condizionare le scelte economiche del Paese e una successiva fase di restaurazione che portò a un peggioramento diffuso della condizione dei lavoratori favorito dal cambio delle politiche economiche e sociali che si affermò alla fine del decennio”.
Ma uno spartiacque tanto più profondo e denso di conseguenze perché – scrivono ancora – “mentre i metalmeccanici si mobilitavano con lo sciopero generale della categoria e la grande manifestazione del 2 dicembre 1977 rivendicando una diversa politica economica del governo, nella Confederazione si affermava la politica dei sacrifici codificata nel documento dell’Eur e teorizzata da Luciano Lama nella sua intervista a Repubblica del 24 gennaio 1978. Il dibattito innescato da questa intervista certificò una profonda divaricazione tra le scelte delle confederazioni e i contenuti che erano alla base della mobilitazione dei lavoratori metalmeccanici”: una crisi della democrazia sindacale che aveva contraddistinto il decennio tra fine anni ’60 e la fine dei ’70, quindi.
Conviene soffermarsi un momento su questo snodo e affidarsi sia pur brevemente, alle parole raccolte allora, a una decina d’anni di distanza da questa svolta dell’Eur:
“L’Eur ha sicuramente introdotto un cambiamento nel rapporto tra sindacati e lavoratori – ricordava – (…) Inizialmente l’Eur fu vissuto dai lavoratori con diffidenza, una diffidenza che tuttavia si manifestava nella discussione (…) Quando invece si è visto che in realtà qualche arretramento lo si faceva, la diffidenza si è trasformata in aperto dissenso, è iniziata una fase aperta bei confronti della linea nazionale del sindacato” (Adriano Taglietti).
“La situazione ha cominciato a cambiare con la politica dell’Eur, che doveva essere la politica dello scambio e invece è stata una politica a senso unico perché abbiamo pagato solo noi” (Giacomo Ceruti).
“ È stata una delusione non tanto perché ci chiedevano sacrifici, ma perché, ancora una volta, si chiedeva di farli partendo da quelli che li avevano sempre fatti” (Giovanni Saleri).
“Siamo di fronte a una situazione economica confusa, ad una crisi politica e sindacale (…) Quindi occorre essere in grado di gestire questa fase con la partecipazione diretta dei lavoratori, che non vuol dire fare assemblee generali dove parlano soltanto due o tre. Bisogna modificare gli strumenti della partecipazione, stabilire delle regole democratiche, e attraverso queste regole individuare degli obiettivi, sulla base dei quali poi ogni gruppo dirigente ha l’obbligo di verificare il suo operato dentro e fuori dalla fabbrica. Con questa verifica dei programmi il dirigente si sottopone al giudizio della gente anche sul piano individuale” (Osvaldo Squassina).
Si capisce, da testimonianze come queste, che non c’è fatto, evoluzione storica che avvengano indipendentemente dagli uomini che li vivono: ogni cambiamento ha risonanze significative nella persona, nel suo modo di pensare e di stare con gli altri nelle sue speranze e nelle sue delusioni: anni difficili perché sono stati difficili non solo sindacalmente, politicamente, ma anche umanamente. Non hanno inciso solo sugli equilibri di forza nelle fabbriche, ma anche nelle biografie dei protagonisti: Taglietti, sulla vicenda dello scorporo reparto Sider dell’Atb: “Lì ho imparato che si poteva perdere e che la sconfitta significava anche molta sofferenza sul piano personale per tanta gente, tanti compagni, tanti lavoratori al di là delle conseguenze sul piano della propria vita concreta dentro la fabbrica.”.
Una seconda tematica che affiorava nelle testimonianze era il ruolo della tecnologia,
in anni – si badi – in cui era ancora ampiamente condivisa una visione ottimistica dell’innovazione tecnologica, vista come progresso, ma si era anche capito una cosa che oggi sembra in gran parte dimenticata: che la tecnologia non è mai neutrale, e dunque era possibile vederne oltre ai vantaggi produttivi (ricorre quest’anno, per fare un esempio, i 60° dell’introduzione della prima colata continua nel Bresciano, alla Ori Martin) anche i risvolti regressivi, le conseguenze contraddittorie o addirittura negative.
“Molte vertenze hanno avuto un limite enorme, che era la non conoscenza di come era organizzata complessivamente la fabbrica (…) Il non aver effettuato questo salto di qualità ha fatto in modo che, in molte realtà, ti sei trovato in mezzo a una crisi senza nemmeno essertela aspettata. (…) Rischi di fare una contrattazione vecchia e tradizionale quando l’organizzazione della produzione è cambiata radicalmente” (Osvaldo Squassina).
“Anche se la Fiom capiva più di altri quello che stava accadendo c’era una grossa difficoltà a intervenire sui processi di ristrutturazione. Una partita così in realtà non la giochi soltanto all’interno della fabbrica (…) conta la fabbrica, la fabbrica è l’elemento fondamentale ma è necessario intervenire su tutti gli altri settori, altrimenti puoi anche reggere in fabbrica, ma se i processi passano altrove, prima o poi perdi la capacità di resistere, di opporti” (Flavio Tosato).
Ma delle nuove tecnologie e delle loro conseguenze sull’organizzazione del lavoro si coglieva anche un aspetto decisivo, un fattore di regressione.
“Le innovazioni tecnologiche hanno portato uno sfilacciamento fra compagni di lavoro, fra delegati” (Sergio Bertoletti).
“L’introduzione delle macchine a controllo numerico ha ridotto lo spazio di discussione (…) L’operaio è ridotto a fare lo schiacciabottoni” (Giovanni Eros Tiberti).
“La nuova organizzazione del lavoro tende a separare gli operai tra loro. Prima si lavorava soprattutto con le braccia e questo permetteva di parlare con i compagni vicino. Adesso invece si lavora su delle macchine che richiedono maggiore attenzione e questo determina un maggiore distacco fra gli operai. Prima anche il delegato poteva fare una parola con un operaio o con l’altro, invece adesso m’hanno messo a una macchina, per cui non posso muovermi come una volta o spostarmi per 5 o 10 minuti. Adesso è molto difficile dialogare con gli altri operai” (Giuseppe Goffi).
E infine una terza tematica, che ho lasciato per ultima proprio perché ha una portata che va al di là dell’esperienza operaia e sindacale: la centralità, il ruolo cruciale della fabbrica, della grande fabbrica.
Un primo aspetto di questa centralità: quel che accadeva nella fabbrica ha prefigurato spesso ciò che è poi avvenuto nella società. Torniamo un momento alle due tematiche di cui si diceva.
La crisi della democrazia nella fabbriche si può leggere come un precedente significativo della più ampia crisi che ha investito il nostro sistema successivamente: dalla crisi della forma partito, e dalla personalizzazione dei partiti e dalla distorsione dei meccanismi di formazione della loro classe dirigente – un fenomeno trasversale rispetto alle diverse collocazioni politiche – alla disaffezione per la politica sino all’astensionismo e alla caduta di quella che si chiamava opinione pubblica e che ora è sempre più allineamento provvisorio su posizioni individuate più sull’onda di un’informazione martellante e segmentata in una miriade di canali che sulla base di un confronto meditato tra idee e valori da una parte e fatti dall’altra.
Lo diceva bene già allora Squassina: “Noi non siamo stati sconfitti solo sul salario, ma siamo stati sconfitti sull’idea di fondo del sindacato, nel senso che in Italia ha prevalso quello che molti definiscono neoliberismo. Io la spiego dicendo che la Confindustria è stata più brava di noi a fare cultura, ha determinato valori nella società; mentre una volta, nel ’68-69, i valori erano uguaglianza, giustizia e riforme, oggi l’unico valore è il costo del lavoro. (…) Ma il danno non si è determinato solo nella cultura della gente, nella società: il danno maggiore è che questa cultura è passata nelle nostre file”.
E la seconda tematica che emergeva: l’effetto delle nuove tecnologie e dei nuovi criteri di organizzazione del lavoro che hanno dissolto i legami di scambio e minato la solidarietà nelle fabbriche: come non leggere in questa involuzione l’avvio di un processo che ha portato all’individualismo esasperato e alla solitudine diffusa di cui i social sono solo un antidoto illusorio, se non addirittura un fattore di incremento?
Ma è un altro l’aspetto su cui la centralità della fabbrica, la rilevanza del suo ruolo sono sottolineati nelle testimonianze raccolte: la fabbrica come luogo in cui si accumulava e si conservava memoria, si tracciava una storia collettiva altrimenti destinata a disperdersi nella molteplicità delle esperienze individuali. Ricorre nelle parole dei delegati il riconoscimento che la fabbrica era “una scuola”, una scuola in cui non si imparava solo un mestiere, ma un tipo di solidarietà sconosciuta o molto raramente sperimentabile all’esterno.
Per questo la crisi o la chiusura della fabbrica, la sua drastica ristrutturazione o la minaccia di una sua ricollocazione era vissuta come una ferita: perché la fabbrica era sentita come territorio proprio, motore e sede della propria identità.
Un’ultima considerazione, riguardante soprattutto chi è vissuto nella città capoluogo: questo ruolo della fabbrica, questo suo potere di conferire identità non ha riguardato solo chi ci lavorava, ma tutti, tutti coloro che abitavano in una città come Brescia, una città cambiata rapidamente negli ultimi decenni: non si tratta di averne nostalgia, ma di conservarne la memoria per disporre di elementi di confronto e formarsi un’opinione all’altezza del presente. Brescia non è una città che possa permettersi di rimuovere la memoria delle sue fabbriche perché è la sua storia, la sua storia contemporanea, quella che il museo di Santa Giulia, biglietto da visita della città per tanti che vi giungono dall’esterno, non ci racconta, perché si ferma molto prima del ’900.
E non si tratta solo della storia di Brescia, ma anche dell’Italia, ci ricorda De Palma, segretario nazionale delle Fiom, nella prefazione: “Sono convinto che attraverso la storia della Fiom sia possibile leggere le tappe fondamentali della storia politico-sociale del nostro Paese [perché] I metalmeccanici, nel corso del Novecento, hanno sempre anticipato – anche rispetto ad altre categorie – la voglia di giustizia sociale, di crescita collettiva, di libertà e dignità nel lavoro, che andava crescendo nel nostro Paese”.
Ma facciamo attenzione: la storia si difende non solo con i libri: la storia non ha bisogno solo di documenti e di testimonianze, ma anche di cose e luoghi.
È partendo da questo presupposto che nello stesso periodo in cui si avvia il lavoro che avrebbe portato alla pubblicazione del ’90, si delinea una proposta per il Comparto Milano, l’area industriale che andava da Via Milano alla linea ferroviaria: a seguito dei grandi mutamenti che modificano la struttura del settore siderurgico di Brescia esposti nella terza parte del libro che stiamo presentando, si individuò la necessità non di trasformare fabbriche ancora attive ma di cui si annunciava la dismissione in un museo – questa fu la caricatura che alcuni fecero, anche alcuni da cui non ci si sarebbe aspettata una simile contraffazione della proposta.
No: quello che, purtroppo in pochi, si diceva è che Brescia non poteva vedere cancellate le sue fabbriche storiche, così come aveva demolito a inizio ’900 le mura che la circondavano e trent’anni dopo le case del centro storico per far post a Piazza Vittoria: occorreva individuare nuovo funzioni, sia produttive che terziarie (come si è fatto ad esempio nella zona dell’Ansaldo a Milano), fra le quali anche un luogo nel quale fosse possibile un domani capire la storia industriale e operaia di questa parte di città che ristrutturazioni e delocalizzazioni erano sul punto di cambiare radicalmente.
O un governo del cambiamento o via libera alla speculazione e alla rendita. O semplicemente allo spreco di territorio urbano e di patrimonio storico della città.
Fu questo il messaggio raccolto nel dicembre dell’88 dalla Camera del Lavoro che dedicò alla questione una giornata di dibattito, raccolto poi in un numero di “Sindacato oggi”. Ma lo si deve riconoscere: anche fra chi si poneva il problema erano presenti voci discordi: perché non restituire alla città queste aree da quasi un secolo occupate dalle fabbriche? si chiedevano per esempio alcuni: è inevitabile chiedersi, oggi, come si possa parlare di restituzione alla città e ai suoi abitanti quando ci troviamo di fronte a un centro commerciale come il Freccia rossa ridotto a rovina di cui non sia sa bene cosa fare a soli 10 anni dall’inizio della sua attività, o al grattacielo dall’architettura fantasiosa quanto slegata dal contesto che gli è sorto accanto, o al parco desolatamente disabitato che si è dedicato al ‘nostro’ Mario Venturini.
Quel che è avvenuto, mentre il dibattuto si disperdeva in ipotesi, contraddizioni e compromessi, sono state demolizioni generalizzate, spesso preventive cioè effettuate anche quando non si sapeva che cosa si sarebbe fato del terreno sgombrato.
In conclusione: proprio perché è stato distrutto il volto storico della città delle fabbriche, proprio perché è molto difficile pensare che si realizzi quel “Museo dell’industria e del lavoro” che si era immaginato negli anni’80 e di cui si è discusso e si discute ancora, libri come quelli di cui abbiamo parlato sono essenziali e hanno una grande responsabilità: non solo trasmettere un’esperienza imprescindibile ai giovani che lavorano oggi in fabbrica, ma anche a quelli che cercano di costruire il loro futuro fuori dalla fabbrica.
Si tratta di impedire che venga cancellata la cultura del lavoro che la fabbrica ha creato, e quando dico cultura del lavoro non intendo retorica della laboriosità, pretesa virtù di una mitologica “brescianità”: impedire la dispersione della cultura del lavoro di fabbrica significa contrastare un fenomeno di rimozione che è andato affermandosi negli ultimi anni. La rimozione della realtà del lavoro – nelle diverse forme in cui oggi si organizza e nelle inedite declinazioni della fatica che comporta; la rimozione dell’insuperabile materialità di processi di produzione che restano indispensabili anche là dove la smaterializzazione di processi e dispositivi sembra prevalere.
Più in generale: la dimenticanza della realtà della produzione rispetto alla dimensione del consumo
l’illusione che il mondo virtuale e l’intelligenza artificiale possano regalare esistenze parallele sganciate dal mondo reale e dai suoi limiti, dalle sue storture, ma anche dagli sforzi e dall’impegno volti a contrastare le ingiustizie e le disuguaglianze che nel nostro mondo minacciano di crescere.