Bruno Latour, Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia, Einaudi 2022 (pp. 180, euro 15)
Il filosofo prosegue la sua riflessione – rintracciabile in saggi come Tracciare la rotta, in queste note nel settembre 2018 – alla luce del confinamento che abbiamo conosciuto durante la pandemia. Non perché sia convinto che quell’esperienza ci abbia reso finalmente consapevoli della nostra situazione, ma perché in essa siamo stati costretti, al di là della consapevolezza conservatane, a fare una “specie di prova generale” di quello che ci aspetta ma che – anche se di fatto negazionisti, sia pure in quella forma di “quietismo ambientale” che ci accomuna – già ora ci sgomenta: di fronte a un bel paesaggio, ascoltando il fruscio degli alberi, non possiamo non avvertire l’inquietudine suscitata da un senso nuovo della caducità. Una caducità non inevitabile, connessa alla condizione di tutto quanto è nato, ma derivante dalle nostre azioni: “se ti senti così a disagio a guardare gli alberi, il vento, la pioggia, la siccità, il mare, i fiumi – e naturalmente le farfalle e le api – è perché ti senti responsabile, sì, in fondo colpevole di non lottare contro quelli che li distruggono”. Opponi resistenza, ma una resistenza sempre più precaria alla coscienza che tutto è cambiato, che “una metamorfosi c’è stata e non pare proprio che al risveglio da questo incubo torneremo indietro”: la pandemia è solo uno dei molti segni di una metamorfosi radicale, simile a quella vissuta dal Gregor Samsa di Kafka, che si riaffaccia in molte di queste pagine a ricordarci il carattere inedito del cambiamento ormai in corso, una metamorfosi che lui solo, non i suoi familiari, comprende.
La diffusione del virus ci ha dimostrato l’interdipendenza planetaria, ma ne possiamo, ne dobbiamo ricavare una superiore consapevolezza: siamo tutti esseri che respirano “in mezzo a miliardi di altri esseri respiranti”. Ma c’è dell’altro: non siamo calati in un ambiente, in un fuori. “Il concetto di ambiente non ha alcun senso, giacché è impossibile delimitare il confine che separa un organismo da ciò che lo circonda”. Viviamo del respiro degli alberi, analogamente sostiene un altro filosofo, Emanuele Coccia, nel suo Metamorfosi. Siamo un’unica, sola vita (Einaudi 2022), che sottoscriverebbe le parole di Latour: “Quelli che si ritengono gli unici esseri dotati di coscienza in mezzo a cose inerti considerano esseri viventi solo sé stessi, i loro gatti, i loro cani, i loro gerani e forse anche il parco dove vanno a passeggiare”. Sarebbero vive le formiche ma non il formicaio, dunque: ma il formicaio non ci sarebbe, non sarebbe quel che è se non ci fossero le formiche, e queste morirebbero senza il formicaio: occorre fantasia filosofica, capace di rompere con gli schemi che contraddistinguono il nostro modo di pensare, per seguire il discorso e ammettere che “tutto è vivente”, che quella chiamiamo Natura, come se – del tutto esterna a noi che dunque ci limiteremmo ad abitarla, a modificarla – ci preesistesse, è in realtà il prodotto di una miriade di viventi. Occorre distaccarsi dalla favola filosofica di Cartesio, uscire dalla contrapposizione di soggetto (pensante) e oggetto (inanimato) per riconoscere che, prima della conoscenza scientifica (sempre indiretta, mediata), abbiamo esperienza diretta di “Terra”, la realtà che ci comprende non come un recipiente ma come una rete di relazioni prodotta dai viventi, da noi stessi fra gli altri. Non ci sono soggetti che esercitano il sapere del naturalista di fronte a oggetti naturalizzati. Lo sanno altri popoli, immuni per storia culturale dal nostro antropocentrismo. E qui, ad essere esplicitamente richiamata è la grande lezione dell’antropologo Philippe Descola (sintetizzata dallo stesso in Un’ecologia delle relazioni. L’uomo e il suo ambiente, in queste note nello scorso gennaio). Così come non è casuale la citazione di un altro studioso, Baptiste Morizot (Sulla pista animale, Nottetempo 2020), in quanto geniale artefice – e, aggiungiamo, narratore efficace – del confronto fra “lupi, greggi, allevatori di pecore, cacciatori e agricoltori biologici” nella montagna del Vercors.
L’argomentare di Latour prosegue incalzante, assumendo ora i toni della conversazione ora quelli della perorazione: “ormai avrete capito che la pandemia di Covid-19, anche se prima o poi ne vedremo la fine, non fa che prefigurare una situazione nuova, da cui non uscirete mai. Ne consegue l’irruzione di una forma alquanto paradossale di universalità negativa – nessuno sa come cavarsela una volta per tutte –, ma al contempo positiva – i terrestri riconoscono di essere tutti sulla stessa barca. Da una parte (…) ci si sente soffocare, dall’altra si comincia a respirare. Viene da chiedersi se l’espressione di ‘coscienza planetaria’, abbastanza vuota fino a questo momento, non abbia cominciato a caricarsi di significato. Quasi si sentisse in lontananza lo slogan inatteso ma ogni giorno più articolato: “Confinati di tutto il mondo, unitevi! Avete un nemico comune: quelli che voglio scappare su un altro pianeta”. Che lo vogliano letteralmente, sognando trasmigrazioni e nuove colonizzazioni dello spazio – e pensando di poterle iniziare a sperimentare, chi appartiene a quell’1% dei super ricchi – o che molto più terra terra (è il caso di dirlo) continuino come se nulla fosse secondo la vecchia filosofia del dopo di me il diluvio. Quando l’unica via percorribile è di vivere in modo diverso il luogo in cui già viviamo. Il che richiede però una rivoluzione culturale, a partire dal superamento dell’Economia, resa pervasiva negli ultimi tre secoli, tanto da occupare ogni altro ambito umano, e oggi più che mai naturalizzata, come non fosse un prodotto degli uomini stessi, un modo di vedere artificiale e del tutto parziale. E ad echeggiare nelle parole di Latour è qui il pensiero critico che Latouche oppone al totalitarismo economico (ultimamente in Breve storia della decrescita, in queste note nel marzo di quest’anno).
Non è comunque, l’Economia, l’unico feticcio del quale disfarsi, per lo meno nella sua forma totalizzante e falsamente oggettiva. Anche la Politica, quella degli Stati, delle grandi potenze e delle loro fruste bandiere è fonte di abbagli colossali: “Antropocene è il nome della rivoluzione totale avvenuta sotto il nostro naso mentre, in quel glorioso 1989, festeggiavamo la ‘ vittoria contro il comunismo’. Questa è l’assurda sconfitta!”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.