Daniel Mendelshon, Tre anelli. Una storia di esilio, narrazione e destino, Einaudi 2021 (pp. 112, euro 16)
Una conferma ulteriore della vitalità di una forma capace di innovare e insieme conservare l’impianto narrativo che continua ad apparire, a molti di noi perlomeno, consustanziale all’arte del raccontare: questo troviamo nel nuovo libro di Mendelshon, esempio di romanzo-saggio o, se si preferisce, di saggio che trova il suo elemento unificatore in una cornice narrativa e in un susseguirsi di digressioni, in gran parte autobiografiche. Il tema, lo dice il sottotitolo, è quello dell’esilio; per alcuni, come per i tre autori di cui si racconta, destino che ha motivato e sorretto la loro opera. Il filo che percorre la “storia” è la riflessione sullo scrivere, e per chi sia tentato di leggervi il segno di un’autoreferenzialità dello scrittore vale quanto affermato recentemente da Elena Ferrante (I margini e il dettato, in queste note alla fine dello scorso dicembre): “ogni narrazione dovrebbe comprendere sempre, al suo interno, anche l’avventura dello scrivere che le dà forma”.
Qual è dunque quest’avventura, per Mendelshon, da dove prende spunto? Dalla “disperazione” che lo invade, una ventina di anni fa, a seguito delle ricerche preparatorie di un “libro sul destino dei [suoi] parenti durante l’Olocausto”: “Dopo aver ascoltato per cinque anni racconti di violenza e distruzione senza riuscire ad assimilarli emotivamente (perché in quel momento, mentre li ascoltavo, il mio unico pensiero era ‘mettere giù la storia’)”, lo scrittore si ritrova “svuotato, sia dal punto di vista emotivo sia da quello creativo”, ridotto, lui stesso – come i suoi testimoni sopravvissuti al genocidio nazista –, a “un girovago senza più patria”. Il libro (Gli scomparsi, Neri Pozza 2006; Einaudi 2018) vedrà la luce, ma il lavoro di elaborazione del lutto non è concluso e chiede di imboccare un’altra via, di rientrare nel campo dei propri studi, i classici greci, Omero, l’Odissea. Di qui nascerà un nuovo romanzo (Un’ odissea. Un padre, un figlio e un’epopea, Einaudi 2018, in queste note nel giugno 2018), non prima tuttavia del superamento di una nuova crisi, alimentata questa volta da una “disperazione narrativa”: “non avevo idea di come organizzare la storia (…) la narrazione nel suo insieme non funzionava; per qualche motivo, la lettura risultava sfiancante”.
Scrivere è anche, soprattutto forse, non accontentarsi di quel che si è fatto, non cedere alla rassegnazione, cercare la ragione del proprio malcontento, ricorrendo anche al parere di amici fidati: “C’era qualcosa di sbagliato nella maniera in cui raccontavo la storia (…) le cose venivano semplicemente una dopo l’altra. C’era parecchia materia narrativa, ma non ancora una storia”. Sta qui l’avventura dello scrittore, nel trovare la soluzione al problema che si è da sé stesso creato. Soluzione che, in questo caso, si individua nel ricorso a “una tecnica nota come composizione ad anello”, nella quale “la narrazione sembra divagare abbandonandosi a una digressione (…), ma la digressione, l’apparente allontanamento, si rivela in realtà un cerchio, dato che la narrazione finisce per tornare alla storia nel punto esatto in cui se n’era discostata”. Ed è quello che nella sostanza fa anche Tre anelli, dichiarandolo sin dal titolo e riproponendo, dopo ogni digressione sull’esperienza dell’autore, la storia dello “straniero”, dell’esule, di un uomo come l’ebreo tedesco Erich Auerbach che nel 1936 è costretto a cercare rifugio a Istambul, dove, pur privo dei mezzi che le biblioteche tedesche gli avevano fino allora offerto, comporrà “il suo inno alla grandezza della civiltà europea”, non tralasciando di manifestare perplessità circa la composizione ad anello, espressione di quella tecnica omerica, più in generale greca, che si può definire “ottimista” nel suo convincimento di poter conoscere e rendere conto di tutto, col mettere sullo stesso piano passato e presente, in ciò contrapponendosi all’altro fondamentale stile narrativo, quello ebraico, della Bibbia, “pessimista” nella sua consapevolezza del fatto che “la creazione non è mai del tutto conoscibile, ma può soltanto essere oggetto di interpretazione”.
“Ottimista”, e dunque cultore della composizione ad anello, è invece François de Fénelon, autore di “una serie di racconti moraleggianti basati sull’Odissea” la cui “trama divagante è di fatto un cerchio che si chiude alla perfezione, tornando alla sorgente, lasciando Telemaco esattamente dove deve stare perché la trama di Omero riprenda il suo filo”. Un puro divertissement? Nient’affatto. Les Aventures de Télémaque racchiudono un’aspra critica antiautoritaria a Luigi XIV, che costerà a Fénelon, se non l’esilio, una sorta di confino, compensato tuttavia dal successo europeo dell’opera, gradita a intellettuali fra loro avversi come Voltaire e Rousseau, per arrivare a Proust, il cui “immenso romanzo”, a sua volta, “suggerisce che una lunga serie di digressioni potrebbe di per sé formare il più grande anello immaginabile, un anello in grado di includere l’intera esperienza umana”, rivelando – come l’Odissea – la “gigantesca coerenza dell’opera nel suo insieme”. Il che non avviene nel terzo degli autori considerati (volendo considerare le penetranti pagine su Proust solo una digressione, appunto): Winfried Georg Sebald, che con la scelta dell’esilio e della peregrinazione infinita “vuole affrancarsi non dal racconto degli orrori subiti dalle vittime ma dal senso di colpa ereditario per quegli orrori – da un passato di cui non è responsabile ma da cui si sente contaminato”, non cacciato dalla sua patria, come Fénelon, da un editto reale ma dal “senso di vergogna” che lo porterà a passare “il resto della sua troppo breve vita a scrivere libri su esuli, su emigrati”. Romanzi caratterizzati da “un movimento narrativo tanto ramificato, tanto divagante, tanto meditativo” da far dubitare di potervi scorgere un’“azione”, una trama: uno di questi, Gli anelli di Saturno – conclude Mendelshon –, si può dire sia “composto unicamente da digressioni”, secondo la “tecnica a cui allude la menzione degli anelli nel titolo” e che qui è portata all’estremo, “intrappolando i personaggi in meandri dai quali non riescono a districarsi e che sembrano non portare da nessuna parte”: gli anelli di Sebald non ci portano alla rivelazione ma “a una serie di porte chiuse di cui non c’è la chiave”. A differenza del grande anello di Proust “che – si diceva – ci appare come un grande contenitore pieno di tutta l’esperienza umana, quello di Sebald racchiude un vuoto; implica una destinazione a cui, come in una versione narrativa del paradosso di Zenone, la scrittura non riuscirà mai a farci arrivare”, stante il “fallimento della narrazione”, altra faccia dell’ “irrecuperabilità del passato”, della sua inemendabilità, dell’impossibilità di trarne – attraverso la narrazione – un mezzo di risarcimento per chi vi ha figurato come vittima: gli “emigrati”, in primo luogo, come recita il titolo di un altro grande romanzo di Sebald.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.