Un apologo sorridente della vita ridotta all’essenziale

Sara Baume, L’occhio della montagna, NNE 2023 (pp. 208, euro 18)

Non avevano niente da dimostrare, né agli altri né a sé stessi, lui e lei. Semplicemente, essendosi casualmente conosciuti, e piaciuti, hanno deciso di mollare tutto, città, lavoro, genitori e fratelli, e trasferirsi in un posto non lontano ma sperduto abbastanza, in una casa provata dal tempo ma ben collocata, vicina alla costa e ai piedi del monte che, come un “occhio colossale”, “stava di guardia al cielo al mare e alla terra”. Non avevano pretese del resto, Bell e Sigh, essendo entrambi giunti, benché ancora giovani, alla conclusione che “l’unica esistenza appropriata fosse quella che lascia meno tracce possibili, e progressivamente scompare”. L’uno a l’altro “curiosi di vedere cosa sarebbe successo se due misantropi solitari avessero provato a vivere insieme”. E dunque si sentono capaci di “inaugurare” una nuova famiglia – loro e i due cani che li accompagnano–, “senza regredire agli obblighi di       fare regali,      partecipare a riunioni,      o amare”. (Non sono errori tipografici gli spazi che spesso separano più del dovuto le parole: quella di Baume è una prosa che, soprattutto nella chiusa dei brani nei quali il testo si articola, assume movenze poetiche, come a suggerire dei fermoimmagine che inducono un rallentamento nella lettura).

L’esperimento riesce: i giorni prendono a succedersi secondo una ripetitività che non sprofonda nella monotonia ma assume i tratti di una sensata armonia, attenta all’essenziale, incurante degli inconvenienti che una vita sostanzialmente isolata comporta. Innamorati e soddisfatti della loro scelta, “ogni sera, mentre passeggiavano, Bell e Sigh si descrivevano vicendevolmente il tempo, il paesaggio e il tipo di percorso”.

Passano gli anni – e sono le rapide descrizioni di piante, animali, cieli, così come delle minute occupazioni quotidiane, a darcene la misura. Ma è anche il peggioramento della loro situazione economica a segnare il trascorrere del tempo: i sussidi dell’assistenza sociale e i pochi risparmi accantonati si assottigliano. “Senza accorgersene erano diventati poveri e trasandati”. Ma nient’affatto demoralizzati, o stanchi delle meraviglie che il posto continua a offrire e che loro accettano grati e curiosi, maldestri e spensierati come all’inizio, sempre più assimilati all’ambiente che li circonda, quasi indistinguibili in esso. Come i loro cani. E non diversamente dalla loro casa, i cui materiali si deteriorano lentamente, dolcemente, come tornando al loro stato originario, in sintonia con il sentimento dei due abitanti, sempre più affezionati “alla loro roba schifosa e inutile”, ma per loro “preziosa”: “Si erano abituati allo sfacelo. (…) Non appena una cosa veniva riparata, se ne rompeva un’altra. Questo era il loro equilibrio cosmico”. Un equilibrio nel quale il tempo ciclico delle stagioni è attraversato da quello irreversibile del degrado delle cose, dei segni di vecchiaia dei due cani, dell’ingrigirsi dei capelli e dell’incresparsi della pelle dei visi di Bell e Sigh.

Solo il monte, dopo tanto tempo, si è mantenuto estraneo alle loro perlustrazioni: “resta non scalato”, come veniamo puntualmente informati di capitolo in capitolo, di anno in anno. E in questa storia, in cui non sembra accadere nulla di decisivo, si crea così un’aspettativa, che si scioglierà solo alla fine, all’ottavo anno, senza una ragione particolare. Doveva accadere, ma era necessario un certo tempo perché accadesse.

Sarebbe dissonante un finale che riservasse sorprese. È piuttosto una rivelazione quella che ci viene riservata, a lungo rimandata e a suo modo, nella sua semplicità, inattesa: “Dall’alto poterono vedere l’intera strada che percorrevano ogni giorno”, la loro casa. Ma, soprattutto,

“le tracce di una persona sola,       o almeno così pareva –

una
vita
sola”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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