Il mestiere di pensare

George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Garzanti 2016, pp. 108, euro 11

Peter Bichsel diceva, in un piccolo libro (Il lettore, il narrare, Comma 22, 2012) che il solo fatto di sapere che la nostra vita ha un termine la colora di un’angoscia che “può essere tenuta a bada” ma non eliminata: “ciò che non scompare è la tristezza per questa finitudine. La tristezza non la si può vincere, può soltanto essere rifiutata o accettata”.

Tornano alla mente queste parole dello scrittore svizzero quando si passano in rassegna le brevi, fulminanti note di Steiner. Ma si badi: qui non è un pensiero, come quello della morte, a generare tristezza, ma il pensiero stesso. Per cui la tristezza non invade la vita a partire da quel che è inevitabile pensare, ma dal fatto di non poter non pensare. Allo stesso modo che non si può smettere di respirare. Anzi: il respiro lo possiamo trattenere, per qualche momento. Il pensiero no. Anche il “vuoto” cui aspira chi pratica la meditazione è in realtà un concetto. Un altro pensiero, insomma.
E il problema è che “il pensiero è rigorosamente inseparabile da una melanconia profonda, indistruttibile”. Perché? Per le dieci (possibili) ragioni, appunto, che ognuno dei dieci capitoletti che formano il libro chiariscono. Ogni lettore è libero di riconoscere quella che più gli sembra convincente. L’ottava per esempio: “impossibile sapere al di là di ogni dubbio che cosa stia pensando un altro essere umano (…) In ultima analisi, il pensiero ci rende estranei l’un l’altro. L’amore più intenso è una negoziazione, mai conclusiva, tra solitudini”. O la decima: “La padronanza del pensiero, della velocità perturbante del pensiero esalta l’uomo al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. Ma lo lascia straniero a se stesso e all’enormità del mondo.”

Attenzione però: questa “tristezza”, questa condizione riassumibile nel fatto che “siamo stati creati, per così dire, rattristati”, “è anche creativa. L’esistenza umana, la vita dell’intelletto, significa un’esperienza di questa melanconia e la capacità di superarla”.
Come? Bichesel diceva che si raccontano, e si scrivono, storie proprio per fare i conti con la melanconia. Steiner non pare voler dare consigli. Offre “ragioni, appunto” e, se può consolare, ci assicura che nessuno, proprio nessuno sfugge alla fondamentale “pesantezza dell’animo” che il pensiero induce, perché “ciascun uomo, donna o bambino è un pensatore. Questo vale per un cretino come per Newton…”.

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