Un contributo importante all’archeologia industriale
Tag, segni e tracce lasciate nelle Cattedrali del lavoro ormai abbandonate immortalate da Gigi Bellometti.
Ha respirato l’aria della fabbrica, Gigi Bellometti, sin da bambino, nelle officine meccaniche del nonno, e poi da operaio, in gioventù, e in seguito, per una vita – arrivata oggi vicino agli ottanta – attraverso l’impegno a vario titolo prestato nel sindacato.
Un’aria, quella dei capannoni e delle macchine, che si è tuttavia rarefatta a partire dalla fine degli anni ’70 e soprattutto con le grandi ristrutturazioni degli anni ’80, che dopo il tessile investirono il metalmeccanico.
Di qui la consapevolezza che, come la memoria della civiltà contadina in seguito allo spopolamento delle cascine, così anche quella dei luoghi della produzione industriale poteva disperdersi con l’abbandono e il degrado di quelle che si potevano considerare Cattedrali del lavoro. Questo il titolo del grande reportage fotografico con il quale Bellometti ha offerto un contributo importante alla ricerca archeologico-industriale diffusasi in Italia, e a Brescia, sul finire degli anni ’70. Gli stessi in cui – la coincidenza appare in questo caso significativa – apparivano nei ghetti newyorkesi i primi graffiti, manifestazione di quella cultura hip-hop non a caso richiamata in una delle immagini che in anni recenti Bellometti ha scattato fra le rovine delle fabbriche disertate dal lavoro, a Brescia come a Nave e in altri centri della provincia.
Brescia nel libro di Pietro Gino Barbieri, ex medico del lavoro
Un libro che ha a tratti il sapore di una narrazione e in altri quello di un saggio: è di un ex operaio della Eternit il giudizio, Nicola Pondrano, autore della nota di prefazione. Un operaio divenuto in seguito dirigente sindacale della Cgil ma anche del fondo per le vittime dell’amianto e dell’associazione dei loro famigliari. Nel suo percorso si rappresenta la vicenda, il dramma anzi, raccontato dall’autore, Pietro Gino Barbieri, medico del lavoro dal 1980: «il dramma prevedibile di una strage prevenibile», come recita il sottotitolo di «Morire di amianto». E prevedibile era davvero, dal momento che fin dagli anni Cinquanta era dimostrata l’associazione causale tra amianto e cancro del polmone e dagli anni Sessanta quella con il mesotelioma maligno, un tumore della pleura e del peritoneo.
Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda 2019 (pp. 320, euro 18)
“La
parola è scritta al contrario sul cofano delle ambulanze perché chi guida le
possa leggere nello specchietto retrovisore. Si potrebbe dire che è scritta per
il futuro – per le macchine che stanno davanti all’ambulanza. Esattamente come
chi sta in un’ambulanza non può vedere la parola ambulanza, noi non possiamo
leggere la storia che stiamo creando: è scritta al contrario, per essere letta
in uno specchietto retrovisore da chi non è ancora nato”.
Sono
passaggi come questo a dirci la differenza fra uno dei molti saggi sul
cambiamento climatico e questo libro, in cui la voce che si leva a lanciare
l’allarme è quella di uno scrittore. Uno scrittore conscio del fatto che il
problema è crederci, alla catastrofe annunciata dal riscaldamento del pianeta,
e si tratta dunque di uscire dallo stato di negazione che – nella nostra
società, la società dell’informazione – si risolve in un non sapere sapendo, in
un sapere ma non fare: “Dobbiamo fare
qualcosa ci diciamo a vicenda, come se affermarlo fosse sufficiente. Dobbiamo fare qualcosa diciamo a noi
stessi, e poi aspettiamo istruzioni che non arrivano. Sappiamo che stiamo
scegliendo la nostra stessa fine: solo che non riusciamo a crederci”, immersi
come siamo in una generale crisi della capacità di credere che trova alimento
in un’informazione strabordante di opinioni che offuscano i fatti, dominata da
un presentismo che mina l’idea di futuro.
E
allora? Allora occorre che la questione ambientale si carichi di emotività: non
si crede in quello che non ci scuote. Ma “Anche le nostre emozioni, come i
nostri corpi, hanno dei limiti. E se i nostri limiti emotivi non potessero
essere superati?”
Non
resta all’autore che riprendere il filo del discorso iniziato con il suo
precedente Se niente importa. Perché
mangiamo gli animali? (Guanda 2010), notando che anche nei discorsi più
appassionati e documentati sulla questione climatica – il nobel Al Gore non
escluso – viene taciuto un aspetto decisivo: “l’impatto dell’allevamento
sull’ambiente”. Perché “quando si parla di carne, latticini e uova la gente si
mette sulla difensiva. Si infastidisce. A parte i vegani, nessuno muore dalla
voglia di affrontare l’argomento, e il fatto che i vegani ne abbiano voglia
costituisce un ulteriore disincentivo”. Ma la questione sta proprio qui:
comprare un’auto ibrida non è inutile, ma serve soprattutto a “farci sentire
meglio. E può essere pericoloso sentirsi meglio quando le cose non vanno
meglio”. E dunque, non giriamo intorno al problema: pagine di dati e
rilevazioni scientifiche supportano la conclusione che “non possiamo salvare il
pianeta se non riduciamo in modo significativo il nostro consumo di prodotti di
origine animale”. Non si tratta di eliminarli dalla nostra dieta, si badi: si
tratta di ridurne “in modo significativo” il consumo.
È
questo il succo del discorso, e nonostante la letteratura ignori la crisi
climatica, pena l’esser dequalificata a fantascienza – come ha fatto rilevare
Amitav Ghosh con il suo La grande cecità (Neri Pozza 2017) – è il
libro di un autore di romanzi a imporlo alla nostra attenzione.
Alla nostra attenzione, appunto: basterà, questo, a farci credere, al punto da indurci a modificare i nostri comportamenti? E se anche fosse, servirebbe davvero, o la crisi è ormai irreversibile? (Come sembrano preconizzare storie come quella narrata da Bruno Arpaia in Qualcosa, là fuori, Guanda 2016). Quel che è certo è che vivere in quello stato di sapere e fare come non si sapesse e dunque non facendo non è vivere pienamente la propria vita. È adeguarsi alla “grande regressione” della nostra civiltà (La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017). È rinunciare a cercare un bandolo nella generale involuzione che ci coinvolge, perché – lo notava Bruno Latour (Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina 2018) – “non si possono comprendere le posizioni politiche assunte da cinquant’anni a questa parte se non si assegna un posto centrale alla questione del clima e della sua negazione”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Tenere una penna in mano o, immagino, posare le dita su una tastiera ed entrare nella zona del linguaggio è un atto che genera altro linguaggio, che genera pensieri, sensazioni, ricordi e idee che possono arrivare solo mentre scriviamo. Senza la penna in mano non ho gli stessi pensieri”. (Paul Auster)
Franco Ferrarotti, L’uomo di carta. Archeologia di un padre, Marietti 1820, 2019 (pp. 168, euro 14)
Passa
attraverso l’evocazione del rapporto con il proprio padre il bilancio che della
propria vita e del lavoro culturale più in generale l’autore ci propone in
questa archeologia di un padre. Un racconto che – come la Geologia di un padre di Valerio Magrelli – si staglia sullo sfondo della scomparsa che
questa figura ha registrato negli ultimi decenni, come sostenuto da più parti (nei
saggi di Massimo Recalcati in primo luogo).
“Non
sarai mai niente. Non diventerai niente. Sarai solo un uomo di carta”: il
pronostico, severo quanto sconfortato, del padre si direbbe contraddetto dalla
strada percorsa dal figlio, giunto – dopo gli anni di formazione, anni che
sembrano echeggiare lo “studio matto e disperatissimo” di altri grandi italiani
– ad essere riconosciuto come “il padre della sociologia italiana” (“Ma tutti
sanno – aggiunge con un tocco di autoironia Ferrarotti – che «mater semper certa est, pater numquam»).
E
invece no, quella previsione non era campata in aria: “Ora che la mia corsa è
finita e che mi capita, più spesso del previsto, di avvertire sulla nuca
l’alito freddo della morte (…) devo riconoscere, per quanto a malincuore, che mio
padre aveva ragione. Toglietemi di torno le carte, i libri, gli opuscoli, i
ritagli di giornale e non resta più nulla”. Ma non è solo un riconoscimento a
posteriori quello tributato al padre, bensì il frutto di una comprensione inevitabilmente
tardiva: “Mio padre credeva unicamente alla conoscenza attraverso l’esperienza personale,
diretta” ed era quindi, per il figlioletto, gracile e inadatto al lavoro dei
campi, un padre “lontano”. Un uomo la cui individualità solo adesso che non c’è
più si può mettere a fuoco: attento ai “valori
qualitativi” quanto la moglie a quelli “quantitativi” e “Io – sottolinea
l’autore – ero dalla parte di mia madre”, del suo “sovrano controllo
razionale”, senza avere “gli elementi per comprendere le “frustrazioni”, le
“sconfitte” del padre, uomo immerso nei tempi lenti delle stagioni, in quella
civiltà che Ferrarotti sa evocare in pochi tratti – in ciò richiamando i mémoires
di Enzo Bianchi –, uomo consapevole “di essere ormai alla fine, superato, obsoleto. Estraneo alla
società”. Ecco il punto: si comprende una persona quando se ne vede la
fragilità, e la si sa interpretare come un segno dei tempi che ha vissuto, e
questo vale tanto più quando è con i propri genitori che avviene il confronto. Un
confronto che si fa via via più lucido in queste pagine, approdando a sintesi
suggestive: “mio padre ha rappresentato per me la natura, mentre mia madre è
stata la cultura”.
A conti fatti, conclude l’ormai ultra
novantenne sociologo, morirò in compagnia dei miei libri. Saranno la mia
estrema unzione” (e qui è un altro autore, per altro richiamato in queste stesse
pagine, Sartre, il Sartre delle Parole a
risuonare: “Ho cominciato la mia vita come senza
dubbio la terminerò: tra i libri”). I libri e insieme i ricordi, la cultura, la
memoria, perché “Siamo ciò che ricordiamo, e ricordiamo ciò che abbiamo vissuto
e ancor più vividamente ciò che abbiamo letto”.
“[Pensare
così tanto ai propri genitori] è il prezzo che si paga per essere scrittori. Si
è assillati dal passato: sofferenze, sensazioni, rifiuti, tutto. Credo che
questo aggrapparsi al passato sia un impellente, quasi disperato, desiderio di
reinventarlo in modo da poterlo cambiare. Medici, avvocati e molti altri
rispettabili cittadini non sono tormentati da una memoria così ostinata. A loro
modo possono anche essere turbati (…), però non se ne rendono conto. Non
approfondiscono”. (Edna
O’Brien)
Cees Noteboom, 533. Il libro dei giorni, Iperborea 2019
“Non
è nemmeno certo che questo sia un vero diario, forse è piuttosto un libro dei
giorni, uno strumento per trattenere qualcosa del flusso dei pensieri, delle
letture, di quel che si vede, di certo non è un libro di confessioni”.
Prendiamo sul serio il tentativo che l’autore fa, passata la metà del suo libro, per definirne la natura. Primo, i pensieri: un ininterrotto colloquio con se stesso che non offusca affatto l’attenzione per gli avvenimenti che la cronaca registra. “Provate – constata infatti Nooteboom – a tenervi lontani dal mondo e il mondo vi riagguanterà”. Anche se vi chiedete “Quando si può dire che un fatto sia un evento”. Lo è un incidente ferroviario, ma anche, per uno che si sente “ospite del (proprio) giardino” nella prediletta Minorca, l’upupa che improvvisamente un giorno gli si posa accanto. Ma, appunto, il mondo ti riagguanta: “si presenta sullo schermo: attentati, guerra, omicidi (…) tutto si disegna sul vetro, come se si guardasse lontano, attraverso un tunnel, e i panorami qua fuori e i libri dentro casa non esistessero più”. E non basta aver scritto, aver preso posizione pubblicamente, perché “non sai se sia servito a qualcosa”, forse “è tempo che ti chiuda nel tuo giardino mentre tutti gli altri procedono frenetici e inarrestabili in un mondo che è tutto un malinteso”. Senonché, “anche se personalmente sei al sicuro, sei imbrattato della merda della guerra che accompagnerà i tuoi giorni fino alla fine, che tu lo voglia o no”. La guerra e le migrazioni, di fronte alle quali “diventiamo persone diverse senza più rendercene conto. (…) Il faut cultiver notre jardin” – ha scritto Voltaire –. “Io faccio del mio meglio, ma il mio giardino si trova nel mondo, che lo voglia o no”.
Eppure.
Eppure – ecco le altre piste che percorrono queste pagine – i libri, che
restituiscono “il mio autoritratto di lettore”, gli innumerevoli riferimenti
letterari che sono parte dell’esperienza quanto gli incontri che si sono
ricercati sull’onda di una curiosità inestinguibile per le altre culture,
quella curiosità che aveva condotto Nooteboom in Giappone – come testimoniato
in Cerchi infiniti. Viaggi in
Giappone (Iperborea 2017) – e che qui si manifesta come consapevolezza del fatto che
il confronto – come già aveva sottolineato Montaigne – è la via per misurarsi
“con gli aspetti di se stesso che si imparano in un’altra cultura”. Confronto
con gli altri, ma anche con l’Altro, il non umano: dai cactus che aspettano
ogni stagione lo scrittore a Minorca all’asino e alle mucche in cui gli accade
di imbattersi, quella che emerge è una radicale alterità della natura, in cui
“le rose non possono disperarsi”, “semplicemente esistono, non hanno altro da
fare, soprattutto non devono preoccuparsi di noi e dei nostri sentimenti”. Così
come gli amati cactus che si è imparato a distinguere apprendendone i nomi “non
sanno come si chiamano, ma sembra che non gliene importi nulla”.
Se è allo sguardo del calviniano Palomar che a
volte sembra possibile accostare quello di Nooteboom, allo scrittore italiano
si avvicinano anche la curiosità scientifica dell’umanista e soprattutto la consapevolezza delle propria
limitatezza e della propria finitudine, circostanze in cui tuttavia risiede
quella del proprio essere nel mondo, del proprio esserci al di là delle
convenzioni sociali e dei condizionamenti storici, del proprio saper vedere
l’estrema varietà che connota il mondo senza l’illusione di conquistarne una
visione complessiva, obiettiva. Tutt’altro: occorre ammettere che tutto quel
che si vede lo si vede, inevitabilmente, in riferimento a se stessi. Ed è perciò
ineliminabile il mistero. Quello del tempo e della durata, innanzitutto, su cui
– annota lo scrittore – ho imparato che c’è ben poco da dire”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
«Non si può collocare un’opera così importante – qual è il Musil – in un contesto di degrado fatto di scheletri di capannoni». Tempestiva l’osservazione di recente espressa su questo giornale da Maurizio Pegrari. Occorre tuttavia ricordare che quanto attornia gli edifici destinati alla musealizzazione non è il risultato di un naturale, inevitabile degrado, ma della sistematica demolizione che negli anni scorsi ha raso al suolo fabbriche, cinte murarie, serbatoi pensili. I segni di un passato produttivo senza i quali il nuovo museo corre un rischio di non poco conto: lo spaesamento. Non a caso l’ipotesi – nella sua formulazione originaria, negli anni ’80 – di un museo della Brescia contemporanea, della sua modernizzazione e della sua industria, attribuiva al polo espositivo anche la funzione di centro di interpretazione di un contesto del quale si riteneva essenziale fossero conservate le presenze architettoniche più significative e la fisionomia complessiva. Le cose non sono andate così, appunto, ma non sono solo «scheletri di capannoni» ciò che resta dell’ex laminatoio che affianca il museo e degli edifici industriali pericolanti che si innalzano – non sappiamo per quanto ancora – appena a sud del museo stesso: un loro recupero, capace di non cancellarne i caratteri così come di prevederne un riuso non puramente abitativo e terziario, appare indispensabile garanzia del mantenimento di quel contesto.
Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 384, euro 16,50)
La vita travagliata di Carlo Gesualdo da Venosa, autore di madrigali a cavallo fra il Cinque e il Seicento, la si conosceva e aveva già ispirato romanzi: uxoricida, afflitto dalla morte dei figli, per l’intera vita alle prese con una ricerca musicale mai in grado di sedare la sua inquietudine, fino alla morte prematura e sofferta. È la sua figura tragica ed enigmatica che si ripropone nella “Cronaca” scritta da uno dei suoi servi – il più fedele e infelice, un nano deforme, colto e sensibile – o forse apocrifa, che un altro musicista, tre secoli dopo, acquista in una libreria antiquaria di Napoli e legge appassionatamente, concependo l’idea di rivisitare tre dei madrigali di Gesualdo secondo canoni novecenteschi. Lo ha fatto davvero Igor Stravinsky, con il Monumentum pro Gesualdo da Venosa composto nel1960, ed è qui, nel dialogo a distanza che si sviluppa fra il musicista contemporaneo e quello secentesco la novità e la ragione di interesse principale del romanzo di Tarabbia. Un romanzo che si fa via via sempre più “gotico” – come l’autore stesso avverte – e tuttavia non riserva al lettore solo vicende cupe e scene di cruda violenza, ma anche la storia di un progressivo avvicinamento tra due artisti geniali, nel quale emerge una concezione della composizione musicale, e più in generale della creatività, aliena dal mito di una libertà assoluta e incline piuttosto a riconoscervi un lavoro teso a “catturare l’unica evoluzione musicale logica possibile”, perché “non si può costruire sul niente”. Occorre che la scrittura, anche quella di parole, trovi una “resistenza”, ben sapendo comunque che non sarà mai possibile realizzare “il vero scopo dello scrivere”, ossia “trovare parole definitive, oggettive”, “trovare una frase che racchiuda un sentimento, che lo incarceri una volta per tutte in una forma assoluta, che impedisca a chi legge di raccontare quello stesso sentimento con parole diverse da quelle che trova scritte”. È uno Stravinsky professionalmente ambientato negli Stati Uniti ma culturalmente, forse esistenzialmente, spaesato in una Hollywood che lo ha “sia celebrato che respinto” e nella quale pure abita agiatamente, quello che si misura con l’idea di Gesualdo che i suoni a disposizione non bastino e che gli uomini siano condannati a non poter attingere a quelli infiniti che abitano l’universo, infiniti come i mondi di Giordano Bruno: “È naturale – obietta il compositore russo – che la musica sia limitata, e che i suoni siano in fondo pochi. È la nostra fortuna e la nostra benedizione: se così non fosse, non ci sarebbe data la possibilità di organizzarla, perfino di immaginarla. Saremmo perduti”.
Eppure è un “padre” che Stravinsky sente in Gesualdo, un padre che sa comprendere nel profondo: non “un innovatore, un iconoclasta, “un originale senza dubbio, qualcuno che portò il genere del madrigale alla saturazione. Ma (che) proprio per questo non è un innovatore, non porta il nuovo: egli si appoggia alla tradizione e ne slabbra di un poco i confini (…) Fa il nuovo, per così dire, affastellando tutti gli elementi della tradizione”. Ecco il punto, e il riconoscimento che ne consegue: “In questo ci somigliamo: nel cercare qualcosa di mai udito attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito”. È qui l’originalità, la grandezza di Stravinsky, per questo bollato come reazionario dall’Adorno che solo nella dodecafonia di Schönberg vedeva un progresso rivoluzionario. Parlando di musica, è della cultura del Novecento, del posto che l’eredità della tradizione in essa ha occupato – e della sua catastrofe, come vogliono alcuni – che questo romanzo, dalla trama fitta e densa di colpi di scena, parla: “bisogna dialogare coi padri, dar loro un linguaggio nuovo che li renda vicini”, proprio come ha fatto Tarabbia. E infatti – è la conclusione cui giunge il professore cui Stravinky ha sottoposto la Cronaca per avere un parere sulla sua autenticità – “Niente mi leva dalla testa che il Suo lavoro su questi tre madrigali sia la trasposizione di ciò che l’autore di questa cronaca, chiunque egli sia, ha fatto con la vita e l’opera di Carlo Gesualdo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Antonio Prete, La poesia del vivente. Leopardi con noi, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 192, euro 17)
C’è il sapore di una constatazione conclusiva nel nuovo libro di Antonio Prete su un poeta cui ha dedicato negli anni studi che hanno cambiato il modo di leggerlo – da Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi (Feltrinelli 1980) a Finitudine e Infinito. Su Leopardi (Feltrinelli 1998) e Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi (Donzelli 2004). Senza dimenticare il capitolo che nella nuova edizione di Nostalgia. Storia di un sentimento (Cortina 2018) si è aggiunto riservando uno spazio alla poesia e inevitabilmente richiamando Leopardi.
Sembra perciò l’esito di un consuntivo quello che si profila
già nel sottotitolo e si chiarisce fin dalla prima pagina: “Ci sono poeti che
continuano a stare con noi. Camminano con noi” e Leopardi è senz’altro uno di
questi, perché “Ci accompagna con le diverse forme della sua scrittura”,
“tessitura assidua di un pensiero poetante. Di un pensiero, cioè, che la poesia
anima dei suoi modi, e dunque salva dal compimento, dall’ambizione del sistema,
e trattiene nel campo aperto dell’interrogazione, dell’assillo della ricerca”.
Quell’interrogazione, quell’assillo che, appunto, non ci lasciano per tutto il
corso dell’esistenza, e che trovano – in modo diverso secondo le età della vita
in cui torniamo a rileggerlo – rispondenza nel poeta che “oppone a una civiltà
che ama le astrazioni – popolo, pubblico, massa – il corpo individuo: con il
suo affanno, con le sue ferite. (…) E nella terra, così come nel suo luminoso
satellite, scorge il ritmo di una comune appartenenza di tutti gli esseri a una
cosmologia sconfinata”, e insieme al “mondo snaturato della natura”, la cui
bellezza e integrità sono state piegate “alle ragioni della tecnica. O alla
frenesia del consumo”, e compromesse dalla rimozione della fragilità del
vivente, e della morte. Solo la poesia, allora, può “aiutare a conoscere ed
abitare la natura”, la poesia, che “come la ginestra è un fiore tra le rovine”,
capace tuttavia ancora di portare un “sorriso nella tela brevissima della nostra vita” – secondo la citazione di Sterne
che ritroviamo nello Zibaldone –, nella
vita di creature, quali sono gli uomini, costitutivamente desiderose di
felicità e bisognose di infinito anche se, allo stesso tempo, consapevoli del
loro destino di finitudine e infelicità.
Il rischio, volendo riferire di questo libro, è naufragare nel gusto della citazione,
fin dal primo momento, quando si legge la prefazione dell’autore, e questo
accade non solo per la qualità della scrittura, che sonda insieme aderisce alla
voce del poeta, ma anche perché la critica di Prete è – potremmo dire parafrasandolo
– una critica poetante. Una critica,
cioè, che “non può essere altro che il racconto della propria esperienza di
lettura”, della quale “si annotano passaggi per dir così interiori, cioè
momenti in cui la presenza del testo agisce nel proprio sentire”, con
“un’implicazione di sé nell’ascolto” tale che “il movimento dalla lettura verso
la scrittura appare necessario”. Una scrittura, comunque, che sempre “dal testo
muove e in sintonia con il testo e nello spazio del testo prende respiro”.
Da qui, da questa vicinanza del testo critico a quello
poetico deriva una vicinanza crescente del lettore di questo libro agli
argomenti e alle movenze del suo autore, sicché, volendo evitare il naufragio
di cui sopra, non resta che enunciare – con le parole dell’autore, certo –
alcuni dei temi che percorrono queste pagine, rinunciando a metterne in luce la
concatenazione, rigorosa e rivelatrice, via via riproposta come un invito
appassionato e convincente a misurarsi con le opere leopardiane.
Sono le costanti fondamentali della poesia di Leopardi che
così emergono. L’“assidua dislocazione del punto di osservazione”,
innanzitutto: “dal soggetto alla natura, dal sentimento del singolo al ritmo
cosmico, dalle forme visibili e dominanti della civiltà a un’anteriorità luminosa”, i cui luoghi sono
gli antichi, i fanciulli, gli animali (cui sono dedicate alcune fra le pagine
più intense). Detentori di uno sguardo, di un modo di rapportarsi al mondo e
alla vita che indica il punto di vista necessario per una critica della
modernità aliena da ogni tentazione utopica (risultando sempre dominante “la
fascinazione del prima e dell’oltre, non quella dell’altrove e dell’altro tempo”). Una critica sostanziale e pure capace di riconoscere
che “La modernità è allo stesso tempo distanza dal corporeo e affinamento della
sensibilità (…) sottigliezza dello sguardo”: una dimensione entro la quale
nasce lo stesso pensiero poetante di Leopardi trovando nella ricordanza il suo movimento essenziale,
“dolce perché porta con sé immagini perdute, sottratte alla prigione
dell’oblio”, ma anche “amara perché l’immagine che porta con sé è una
parvenza”, la cui “essenza è l’impalpabile effimero sparire”. Sicché il “tempo
della poesia” è “un tempo che raccoglie quello che il tempo fisico, che è
irreversibile, ha bruciato” e la poesia si definisce “come ospitalità di quel
che è perduto”.
Il “romanzo familiare” con le sue figure e i suoi episodi, il
rapporto con le città via via divenute per Leopardi luoghi di soggiorni più o
meno duraturi, la sua complessa relazione con la traduzione, l’attualissima
riflessione sugli italiani e l’Italia, i motivi di vicinanza e di distanza da
Vico, l’abusata categoria del pessimismo a lungo pretesa quale chiave di
lettura della poesia leopardiana sono altri temi che il libro affronta,
commenta, integra in una visione complessiva e che qui si sono richiamati in
una sintetica rassegna che non può in ogni caso tralasciare di segnalare pagine
che spiccano per la loro capacità di mettere in pratica quello stile critico
prima descritto. Pagine come quelle che nell’Elogio degli uccelli individuano “un piccolo compendio della
filosofia leopardiana”, o come quelle dedicate all’Infinito, frutto di “un’immaginazione corporale” che detta una
lingua percorsa dai “riverberi” di un “infinito osservato nella sua umana e
comprensibile apparizione”, per questo in grado di “(mettere) in scena
l’essenza stessa della poesia”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Claudio Morandini, Gli oscillanti, Bompiani 2019 (pp. 272, euro 17)
La montagna, e i montanari, anche qui, e l’enigma che pervade i luoghi, le vite di chi sta lassù. Ma anche con questo romanzo, come con Neve cane piede, del 2015, non ci troviamo nella cornice ormai collaudata del giallo alpino. Anche in queste pagine ricorre l’alterità, vera o presunta, dei paesani d’alta quota, quel “Voialtri che state in città credete…” che ricorreva in Le pietre, pubblicato due anni fa, ma di nuovo il romanzo non si lascia ridurre a una metafora dell’estraneità, o dell’ostilità addirittura, della montagna rispetto alla città.
I romanzi di Morandini hanno questo carattere – e questa attrattiva – di fondo: la loro irriducibilità a interpretazioni che ne svelino significati sottesi. E, analogamente, la loro sostanziale inaccostabilità ad altri modelli letterari. Solo il nome di Dino Buzzati, forse, risulta in qualche modo pertinente, ma di quello non ritroviamo qui il fascino che, pur nella sua enigmaticità, la montagna conservava. Nelle pagine di Morandini, d’altra parte, è inutile cercare riferimenti tanto alla salubrità del clima montano quanto al permanere di un saper vivere irrimediabilmente perduto nella realtà urbana. Talmente inospitale, umido e freddo, è il paese di Crottarda quanto sferzato da un sole implacabile è il dirimpettaio Autelor. Tanto invidiosi e vendicativi sono gli abitanti del primo quanto esibizionisti e competitivi quelli del secondo.
È nel bel mezzo di questa faida annosa che si viene a trovare la protagonista: da bambina, villeggiante con i genitori; etnomusicologa ora. Ammaliata allora dai richiami inintelligibili e misteriosi dei pastori che udiva la notte; spinta adesso da una volontà di sapere, di capire, che ha saputo conservare la suggestione sperimentata nell’infanzia, aliena com’è dalla supponenza accademica della sua docente e dalle ambizioni che tengono il fidanzato prigioniero dei suoi impegni universitari. Ed eccola allora, munita di taccuino, fogli pentagrammati e registratore, a indagare quei richiami “Di solito espressi in un codice composto da trilli, fischi, brevi grida monosillabiche, al più bisillabiche” che “servono a richiamare il gregge, o a sollecitare l’intervento dei cani”, ma che a Crottarda – secondo l’ipotesi di lavoro che la ricercatrice si propone di verificare – risultano particolarmente “originali e degni di ulteriore studio” perché rivolti anche ad altri pastori, sostituendo di fatto “il codice verbale tra una malga e l’altra”. La curiosità degli abitanti, venata di un’incredulità che sconfina nel dileggio dell’“ingenuità” della colta cittadina, non disarma la giovane studiosa: non doveva essere diversa l’accoglienza di Béla Bartók nelle campagne ungheresi, come ci ricorda, in un esergo, l’autore (“Non scherzo affatto. Parlo sul serio. Sono venuto appositamente da lontano. Da Budapest, per cercare quelle vecchie canzoni che sono conosciute solo qui, da voi!”).
Senonché, a poco a poco emergono fra i
crottardesi aspetti inquietanti, discorsi difficilmente interpretabili,
comportamenti stravaganti e ambigui (in alcuni casi accostabili a quelli che
incontriamo in un libro per ragazzi dello stesso Morandini sempre ambientato in
montagna, Le maschere di Pocacosa,
pubblicato l’anno scorso: “Nel
piccolo abitato di Pocacosa settori per così dire deviati del corpo dei
figuranti di una sfilata in costumi storici di antica e nobile tradizione
imperversano ormai da molti anni e molti carnevali, perseguitando i loro
compaesani più civili e assennati con sciocchi, quando non sadici, dispetti e
sinistre mascherature”). Se Bernadetta – la ragazza
che, a suo modo, pretende di assumere il ruolo della guida per la forestiera –
mette in campo atteggiamenti contraddittori e ambivalenti, i pastori che
finalmente la protagonista incontra si rivelano “autori di imbrogli sonori, di
contraffazioni da guitti”. Col tempo, però, si fa chiaro che si tratta di un
modo di fare, di stare al mondo, che accomuna tutti “questi poveri abitanti di
Crottarda, in ogni gesto, in ogni giorno, e se li potessi osservare nel corso
della loro vita – questa la conclusione cui giunge l’etnomusicologa – li vedrei
oscillare da quando nascono a quando muoiono, tra la loro esistenza ufficiale e
il loro lato nascosto, tra il bisogno di luce, sempre troppo scarsa e precaria,
e l’attrazione per il buio che li insegue fin nelle case, fin nel sonno, tra lo
sfogo ilare e triviale delle burle e un’insofferenza che (…) riporta un senso tangibile di
malinconia”. “Gli oscillanti, mi viene di chiamarli. E a questo punto un po’
oscillante finisco per sentirmi anch’io”. Destabilizzata, incerta, divisa fra l’interesse
per quei richiami di pastori, che non sono forse che manifestazioni di una vena
di umorismo beffardo, e il mistero inquietante delle voci lamentose che
sembrano venire dalle doline, da un sottosuolo abitato da “omuncoli deformi”
capaci di comporre una polifonia assordante alle orecchie della musicologa.
Resta sulle sue il prete che, a corto di spiegazioni, richiama leggende come quelle che parlano di “pietre che rotolano in salita e ti volano fin dentro casa” – un richiamo esplicito al precedente romanzo – e non sa alla fine che attribuire a un perdurante paganesimo le sinistre manifestazioni del carattere locale. Ma a dover alla fine ammettere la propria incapacità di comprendere è anche la studiosa che, sospettata di collusione con quelli di Autelor, finirà per essere invitata dai crottardesi a tornare al piano, alla città, abbandonando questa “montagna magica” che non le ha rivelato i suoi segreti ma non ha spezzato il suo desiderio di penetrarne i misteri percepiti tanti anni prima e che la seguono dall’infanzia. Ci tornerà dunque, e “presto, senza pensarci troppo”, perché “C’è ancora parecchio da fare laggiù”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“(…) un libro composto da frammenti autobiografici (…). Di norma, una cosa del genere andrebbe scritta in prima persona. Se lo avessi fatto, la mia storia personale sarebbe stata al centro dell’attenzione, ma non era quello che volevo. Potevo optare per la terza persona, ma mi sembrava troppo distante (…). In alternativa c’era la seconda persona. Più ci pensavo e più mi rendevo conto che avrebbe avuto l’effetto di aprire in piccolo spazio tra me e me, in cui avrei potuto intraprendere un dialogo intimo con me stesso. Volevo guardarmi da una certa distanza, piccola però, e la distanza della terza persona sarebbe stata troppo grande. Allo stesso tempo volevo coinvolgere il lettore. Per molti versi il libro invita il lettore a esplorare le proprie memorie, a riflettere sulla propria vita. Spero che funzioni da cassa di risonanza e che le persone ricordino il genere di cose che io ricordo di me stesso nel libro”. (Paul Auster)
“È una fantasia triviale pensare che il libro sia in opposizione alla vita. (…) la scrittura di un libro degno di questo nome sorge sempre da un’esperienza. I libri non sono mai solo dei libri”. (Massimo Recalcati)
Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri, Il Mulino 2019 (pp. 154, euro 14)
“Mah! Chissà…”: le parole che chiudono il libro sembrano contrastare con la
perentorietà del titolo. In realtà, tutta l’argomentazione che vi si sviluppa è
condotta all’insegna della problematizzazione, a partire dall’”atto di
contrizione” che la apre riconoscendo l’esistenza di “un limite etico in chi sa
solo produrre parole” e la legittimità di una domanda antica e sempre attuale:
“Che cosa viene prima: l’azione o il pensiero?” Anche se, occorre pure tenerne
conto, “Oggi, siamo in un’epoca attivistica
e antintellettualistica”, in cui “Le cose si fanno perché sono possibili”. Un’epoca che solo apparentemente si potrebbe
ritenere trovi assonanza nella scritta comparsa nel maggio del ’68 sui muri
della Sorbona – “Jamais plus de maîtres” –, che, “per quanto ingenua e
semplicistica” aveva in realtà di mira “l’uso sopraffattorio della funzione
magistrale”. Senonché, “il magistero non è necessariamente oppressione, ma può
essere un aspetto della liberazione”. Basta intendersi su chi, che cosa sia un
maestro, e si convenga che “è solo quello che è più avanti provvisoriamente”. E del resto, quel più lo ritroviamo nella radice stessa di
magister, in quel magis che si contrappone al minus che non dobbiamo trascurare di
scorgere in minister anche se è ormai
una “lingua della politica disastrata” a contraddistinguere il nostro tempo,
nel quale “il ministro si considera colui che detta legge e crede di avere gli
altri al proprio servizio”, maestri compresi. I quali, per parte loro, hanno sempre
più lasciato il posto agli “influencers,
quelli che dettano e assecondano a milioni le inclinazioni di massa e le mode
attraverso strumenti di persuasione potenti e capillari”.
No, i maestri di cui questo libro rivendica la permanente e attualissima
necessità – e, deve ammettere, la penuria – sono quelli che hanno in comune “un
medesimo modo di concepire l’attività intellettuale come alimento della vita
sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza
degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose e
scuotere la routine che ci avvolge”.
Alimento, interrogazione, capacità di rivoltare il senso comune: sono
questi gli scopi che il maestro
Zagrebelsky persegue in queste pagine, in un discorso che si propone di
definire il significato della cultura; di prender atto di una generale crisi
della “funzione intellettuale” che non eclissa tuttavia la necessità di
ricordare la differenza che intercorre fra l’istruire e l’educare; fra il
conoscere e il comprendere; fra il comprendere, il giustificare e il giudicare.
Senza temere facili accuse di elitismo nel sostenere che “L’idea del maestro
porta in sé un germe aristocratico”, constatazione del tutto impopolare in anni
in cui “la maggioranza presume di avere sempre ragione”, sicché “la voce
ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio”.
Attenzione però: “Vano è il lamentarsi degli
intellettuali che non si sentono ascoltati e vana è la deplorazione che viene
da chi li invita a mescolarsi col mondo.” Perché “il guasto di fuori è anche in
ciascuno di noi”. E cionondimeno, “La conoscenza è discernimento tra il guasto
e il sano”: “Il maestro tende verso l’alto. Ma, se non si propone di guardare
anche da giù in su, e non solo da su in giù, è vacuo. Il maestro è in mezzo e
se pretende d’essere giudice senza essere giudicato, cioè di non essere lui
stesso parte del problema, non è sincero”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“I personaggi vivono di tanti piccoli furti di identità a carico di chi hai incontrato nella tua vita, perciò contengono, tutti, la forza vitale di un essere umano”. (Lidia Ravera)
Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori, edizioni e/o 2019 (pp. 480, euro 11,99)
Una vita vissuta pienamente, non perché è capitata ma perché
così la si è voluta vivere: affidandosi a quel che via via accadeva, agli amori
e ai disamori, agli acquisti e alle perdite. Essere aperti agli altri, alle
nuove esperienze che la vita propone – ci dice questo romanzo – non vuol dire
cambiare rotta ad ogni incontro, non vuol dire annullarsi in ogni situazione
nella quale ci si venga a trovare. Ma neanche significa vivere sempre sulla
difensiva, opporre la volontà che nulla cambi ad ogni avvisaglia di mutamento.
Questa la filosofia di vita – mai dichiarata, ma praticata nei
fatti – di Violette Touissant. Quanto ai fatti, è presto detto: “Facevo la
guardiana di passaggio a livello, ora faccio la guardiana di cimitero. Assaporo
la vita a piccoli sorsi, come un tè al gelsomino con un po’ di miele”. Violette
sa quel che vuole, ma sa anche che non sono i progetti che si fanno a
portartelo; inutile illudersi di poterla pianificare la propria esistenza
perché scorra lineare, secondo regole stabilite. Meglio accettarla, anche
quando se ne devono combattere le asperità, anche quando sembra di dovervi
soccombere: “Sono stata molto infelice, addirittura annientata. Inesistente,
svuotata. (…) Le mie funzioni vitali continuavano, ma senza un dentro, senza a
mia anima (…). Ma siccome l’infelicità
non mi è mai piaciuta ho deciso che non sarebbe durata”. Quando arriva, comunque,
inutile chiudere gli occhi, che si tratti di ritrovarsi ad essere “vittime
collaterali del progresso – l’automatizzazione del passaggio a livello rende
lei e suo marito disoccupati – o a pagare per l’egoismo di un uomo grande e
grosso che hai amato, con “la sensazione di appartenergli corpo e anima” – ma
si è via via rivelato per il bambino mai cresciuto che sua madre ha voluto
rimanesse. Inutile chiuderli neanche quando arriva il dolore più grande di
tutti: l’incidente tragico e banale che ti toglie la bambina divenuta ragione
di stare al mondo, una figliolina compagna di giochi che non smetteva di
stupirti, e di tener viva la bambina che aveva continuato a vivere in te,
nonostante tutto.
Saranno gli altri a salvarti: la vicina che hai aiutato
quando era lei in difficoltà, il guardiano del cimitero in cui la piccola viene
sepolta e che ti insegnerà il suo lavoro per poi cedertelo, l’uomo che nello
stesso cimitero arriva per assolvere all’ultimo desiderio della madre e saprà
farti tornare a immaginare l’amore. Altri esseri, ai quali Violette non si
aggrappa, ma sa riconoscere per quanto “disadattata, spezzata” si senta, e
accogliere non come soccorritori attesi, ma come simili con i quali tornare a
realizzare lo scambio che è la vita, se è vita vera. Una vita che sa riprendere,
e indurti a “ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.
Come spesso capita, sintetizzare quel che un libro ti ha
lasciato rischia di offrirne una fisionomia parziale, tanto da poter risultare
falsata: la storia di Violette Touissant –
narrata con una certa linearità nella prima parte, calata in un andirivieni di flashback,
pagine di diario e lettere nella seconda – corre sul filo di un umorismo
leggero quanto indefettibile che si annuncia sin dai titoli dei capitoli,
parodie di epitaffi che grondano retorica funeraria in molti casi, capaci di
fermare per un attimo l’attenzione del lettore in altri (Non sei più dov’eri, ma sei ovunque sono io, Le
foglie morte si raccolgono a palate, i ricordi e i rimpianti anche). Ma è
la vita che – circondata dai suoi gatti e dai compagni di lavoro, tre necrofori
che a volte le sembrano i fratelli Marx – quotidianamente la protagonista conduce
nel suo cimitero a riservare momenti nei quali il sorriso non può non
affiorare: “La morte comincia quando nessuno può più sognare di te. È sulla
tomba di Marie Deschamps, una giovane infermiera deceduta nel 1917. Pare che
sia stato un soldato a deporre la targa nel 1919. Ogni volta che ci passo
davanti mi chiedo quanto a lungo l’abbia sognata”. Oppure. “Prendersi cura del
cimitero vuol dire prendersi cura dei morti che vi riposano e rispettarli. Nel
caso non siano stati rispettati da vivi, che almeno lo siano dopo morti. Sono
sicura che vi sono sepolti anche molti stronzi, ma la morte non fa distinzione
fra buoni e cattivi. E poi, chi non è stato un po’ stronzo almeno una volta
nella vita?”
A conti fatti, pare ci sia sempre una ragione per
“ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Alejandro Zambra, Storie
di alberi e bonsai, Sellerio 2918 (pp. 144, euro 14)
“Il
problema è proprio questo, che in questa storia non ci sono nemici”, avverte
già alla seconda pagina l’autore, ma questo non significa che non vi accada
nulla, perché “questa [che si racconta] non è una sera normale, almeno non
ancora. Lui non è completamente sicuro che ci sarà un giorno dopo, perché
Verónica non è tornata dalla lezione di disegno. Quando sarà tornata il romanzo
sarà finito.”
Ecco:
il gusto di guardare il proprio romanzo farsi, o meglio: la messa in scena del
piacere – che, anche se a volte un po’ lezioso, si trasmette al lettore – di
star a guardare quel che succede, ad ascoltare quel che i personaggi dicono.
Il
tono non del narratore, insomma, ma di uno che racconta, sorridendo, il
racconto di un altro. Facendone la sintesi tuttavia, perché non si vuol
annoiare, non sia mai. Non divertire ad ogni costo, non evitare quindi qualche
nota di riflessione, amara se occorre, ma non dilungarsi: “Alla fine lei muore
e lui resta solo, anche se in realtà era rimasto solo diversi anni prima della
morte di lei, Emilia. Supponiamo che lei si chiami o si chiamasse Emilia e lui
si chiami, si chiamasse e continui a chiamarsi Julio. Julio ed Emilia. Alla
fine Emilia muore e Julio non muore. Il resto è letteratura.”
E dunque, si può anche scrivere una “storia leggera che diventa pesante”: basta dirlo. Il lettore è avvertito e può comunque star tranquillo. Nessuna descrizione compiaciuta, nessun dialogo inconcludente. Solo l’essenziale: “Si ama per smettere di amare e si smette di amare per cominciare ad amare qualcun altro, o per rimanere soli per un po’ oppure per sempre. Questo è il dogma. L’unico dogma.”
“Ciascuno di noi non smette di raccontare il bambino che è stato, che è: ma, in certe epoche, se ne ha meno coscienza che in altre, si descrive quel tempo passato, non superabile, senza saperlo”. (Jean Paul Sartre)
Lina Bolzoni, Una meravigliosa solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna, Einaudi 2019 (pp. XXX – 288, euro 30)
Uno scavo destinato agli studiosi
della storia culturale europea? ai cultori dell’Umanesimo e del Rinascimento?
Il libro di Lina Bolzoni è senz’altro anche questo, ma nello stesso tempo molto
di più, per due ragioni. Innanzitutto le pratiche della lettura, gli scopi e i
significati ad essa attribuiti “nei secoli in cui in Europa nasce il mondo
moderno” risultano
straordinariamente attuali; in secondo luogo, documentarsi, e interrogarsi, su
di essi risponde a una domanda che altrettanto ci riguarda da vicino: è “ormai inesorabilmente alle nostre spalle”
quel “mondo in cui la lettura è esperienza comune e insieme del tutto intima e
personale; una specie di viaggio in cui, incontrando l’altro, si riconosce e si
ridisegna il proprio io”?
È dunque la “velocità del cambiamento” che ha investito anche le nostre
consuetudini culturali a suscitare “l’idea (e il desiderio) di ripercorrere i
grandi miti che il Rinascimento ha costruito intorno alla lettura, di guardare
da vicino la rappresentazione di sé come lettori che troviamo” in quell’epoca.
A partire da Petrarca e Boccaccio, passando per Machiavelli, Erasmo, Montaigne
e arrivare a Tasso, il libro ci conduce a ripercorre “quel che ci dicono sulle
loro esperienze di lettori”, sul loro rapporto con i libri – che spesso
prefigura quello delineato da Benjamin, per il quale quello con i libri è “il
rapporto più profondo che in assoluto si possa avere con le cose” – e con
quell’“autoritratto segreto” che è la propria biblioteca, valenza che ad essa
continuano ad assegnare il capitano Nemo di Jules Verne come il Peter Kien di
Elias Canetti, che in Autodafèdiventa la sua biblioteca.
Attraversiamo così
le pagine in cui Petrarca dice della sua insaziabilità in fatto di libri, del
suo rapporto emotivo, fisico, con la lettura, un rapporto nel quale la lettura
si salda con la scrittura, ma soprattutto consente una necessaria e salutare
presa di distanza dalla città, dai suoi affanni, dallo spirito competitivo in
essa dominante, o addirittura dalla rozzezza del mondo contemporaneo. È il
tempo individuale, emancipato da quello sociale – potremmo dire – ad averla
vinta quando è la lettura a riempire i giorni; è un tornare a far centro su di
sé il beneficio ineguagliabile che ne può venire, con il vantaggio oltre tutto
di non ritrovarsi soli. Il tema non è nuovo, come tanti motivi umanistici ha
ascendenti nella tradizione del pensiero antico, ma è ripreso con convinzione, rivissuto in autori come Leon Battista
Alberti, per il quale “la compagnia dei libri è il vero rimedio alla
solitudine, ai mali che derivano dalla frequentazione degli uomini e dalla
decadenza morale e politica”. La biblioteca appare allora “il nuovo eremo”, un
rifugio popolato dei ritratti dei grandi autori con i quali si dialoga, un
“teatro della lettura” – come lo “studiolo” di Federico da Montefeltro – che
garantisce la trasmissione del sapere e dei valori fra le generazioni; come lo
“scrittoio” nel quale Machiavelli si ritira la sera, o la torre in cui
Montaigne compone i suoi Saggi.
Barriera contro la
moltitudine e le passioni sarà anche per il Tasso, capace tuttavia di
intravedere nella lettura anche pericoli come un’immedesimazione nei pensieri
dell’autore tale da esserne invasi e perdere ogni orientamento fra le opinioni
contrapposte con le quali i libri ci mettono in contatto. Ma è l’immagine del
riparo da un “mondo ingiusto” a prevalere fra i doni della lettura. Lo penserà
Ruskin, per il quale la lettura è “conversazione con libri-amici” e deve perciò
essere diffusa attraverso biblioteche pubbliche, ma non Marcel Proust – che
pure ne è l’ammirato traduttore – il quale “non accetta la concezione
utilitaristica” dell’inglese: “l’idea della conversazione è per lui in
conflitto con la condizione essenziale della lettura, che è la solitudine.” Una
meravigliosa solitudine, appunto.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
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