Janne Teller, È la mia storia, Feltrinelli 2019 (pp. 130, euro 14)
Il riferimento è esplicito: il Mann che fa
valere le sue ragioni a proposito dei Buddenbrook,
“un libro che viene sempre tirato in ballo in ogni processo scandalistico –
scriveva in Bilse e io, nel 1906 –,
per il motivo che i suoi personaggi s’ispirano in parte a persone reali”,
quando dev’essere chiaro che “La realtà che un poeta utilizza per i suoi fini
può ben essere il suo mondo quotidiano, le sue persone più vicine e care (…)
ciò nondimeno esiste per lui – e dovrebbe esistere per il mondo! – una differenza
abissale tra la realtà e la sua costruzione poetica: la differenza essenziale,
cioè, che separa il mondo della realtà da quello dell’arte”.
Non è un grande scrittore a porsi il problema,
in questo romanzo, bensì l’editore di un autore che grande non è, ma di sicuro
incontrerà il favore del pubblico in un mondo come quello di oggi in cui “i
media sono tutto, e l’assenza di scrupoli dello scrittore sembra fatta apposta
per la luce dei riflettori”.
Eppure il problema si pone, tanto più che è il
tema del discorso che il protagonista deve pronunciare l’indomani mattina: “Si
ha il diritto di rendere pubblica una storia che ci è stata raccontata in modo
confidenziale solo perché ci si è presi la briga di cambiare i nomi?
Trasformare la realtà in narrativa dà carta bianca?”, si chiede, e la riposta
che trova sembra quietarlo: “L’arte non è la realtà – sosterrà –. L’artista
attinge dalla realtà per creare una riflessione narrativa sulla realtà”.
Ma la questione si complica: il passato non passa, perché possiamo sopravvivere a quello che ci fanno gli altri, non a quello che noi facciamo a loro. Non solo non passa per la donna che è stata da lui poche ore prima, diffidandolo dal pubblicare il romanzo che ha sul tavolo essendo che quella è la sua storia, ma coinvolge di fatto anche l’editore. Nel suo studio, alle prese con la stesura del discorso di cui leggiamo via via le argomentazioni, il problema di coscienza rappresentato dalla decisione se pubblicare o no quel romanzo deborda in un riesame complessivo della sua vita, della sua carriera, del suo matrimonio e delle sue molte relazioni parallele. La sua esistenza ha finito col trovare, di fatto, un termine di confronto ineludibile nella certezza morale di quella donna che si ritiene illegittimamente chiamata in causa dal romanzo. La scrittura di Teller restituisce il ritmo spezzato di un flusso di coscienza che torna continuamente su un dilemma inestricabile, si contraddice, rettifica, crede di aver trovato la soluzione per poi vederla sfarinarsi e tornare quindi ad arrovellarsi daccapo: “I Buddenbrook sarebbe un romanzo peggiore se la famiglia protagonista non fosse riconoscibile? Se i fatti narrati non si svolgessero a Lubecca, ma ad Amburgo?”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Patrik Svensson, Nel segno dell’anguilla, Guanda 2019 (pp. 275, euro 18)
L’esistenza misteriosa, e per certi versi ascetica, dell’anguilla è al centro del discorso, ma si intreccia, a capitoli alterni, dall’inizio alla fine, con un altro enigma, naturale quanto insondabile: quello del rapporto fra un padre e un figlio. È anche un romanzo di formazione, questo romanzo-saggio che sa incrociare la storia degli anni in cui i due hanno pescato insieme anguille e la progressiva comprensione – ad opera di filosofi, naturalisti, scienziati – dell’esistenza di questi animali longevi e ostinati, solitari e impavidi, che continuano attraverso i secoli, i millenni, il loro peregrinare fra il Mar dei Sargassi e i fiumi europei, fra l’acqua salata e l’acqua dolce per poi tornare a riprodursi, e morire – ma la faccenda non è tuttora chiara – nella prima. Un viaggio che questi pesci – a lungo non considerati tali – hanno continuato imperturbabili di fronte alle guerre che hanno scosso il mondo come alla curiosità umana. Un tempo lento, circolare, che sembra in qualche modo imporsi a chi con le anguille ha a che fare, perché pescarle non tollera la fretta: “La pazienza era il primo requisito che bisognava avere. Dovevi donare all’anguilla il tuo tempo”. E stare zitti: “Quando eravamo giù al torrente, non mi ricordo che parlassimo d’altro se non di anguille e del modo migliore per catturarle. O meglio, non mi ricordo proprio che parlassimo. Forse perché in effetti non lo facevamo mai. Forse perché ci trovavamo in un luogo dove il bisogno di parlare era limitato, un luogo che per sua natura poteva essere meglio apprezzato in silenzio. (…)
Bisognava stare zitti per diventare una parte del tutto”. Anche se lei, l’anguilla, restava sempre al di là: “Ogni volta che pescavamo un’anguilla, la guardavo negli occhi, cercando di cogliere un frammento di quello che aveva visto. Ma nessuna ricambiò mai il mio sguardo.” Ma neanche quello indagatore degli studiosi. “Gli uomini che nel corso dei secoli hanno considerato il dilemma dell’anguilla un problema da risolvere – passando da una domanda all’altra: è un pesce? è sessuata? perché quel lunghissimo ritorno al luogo d’origine per riprodursi? – sono sempre stati fedeli, in modo quasi amorevole, anche all’enigma stesso”. Il che non significa che “l’uomo, prima o poi, troverà una risposta. Basta dargli tempo”. Non fosse che “il problema è che per l’anguilla il tempo sta per scadere”, e “l’ultimo interrogativo, il più urgente, che riguarda l’anguilla” è ormai un altro: “perché sta morendo?”. Diversi, e fra loro intrecciati, i fattori – tutti umani – di un’estinzione imminente, “che trascende il normale progresso dell’evoluzione e della vita”, e non si lascia contrastare da misure risolutive: l’anguilla, a differenza del salmone, non si è mai riusciti ad allevarla, a farla riprodurre in cattività. Mentre “Il processo in atto corre incredibilmente veloce” e la sua portata è ormai riconosciuta: “se per le precedenti estinzioni di massa – cinque – si parlava di eventi che avvennero in milioni di anni, adesso si parla di secoli, ma ciò che rende l’odierne estinzione di massa davvero unica è che per la prima volta nella storia c’è un responsabile vivente”. Che pure ha convissuto a lungo con l’anguilla pur pescandola e cibandosene, come per anni hanno fatto quel padre e il figlio che “nel segno dell’anguilla” ha costruito il suo rapporto con il mondo, il suo incanto, i suoi misteri.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Fabio Geda, Una domenica, Einaudi 2019 (pp. 192, euro 16)
“Aveva sessantasette anni ed era vedovo da otto mesi,
durante i quali aveva scoperto di aver prestato nel corso della vita più
attenzione alle cose urgenti che a quelle importanti; ma a tale proposito, oramai,
non c’era molto che potesse fare, se non dimostrare a se stesso e ai figli di
saper attraversare il resto del tempo distinguendo con maggiore consapevolezza
le une dalle altre”: nel ritratto del pensionato ex ingegnere di ponti per
lunghi periodi lontano dalla famiglia ci sono già la storia e il suo
significato. Riempire la casa vuota invitando a pranzo, una domenica, la figlia
maggiore con la sua famiglia, cucinando lui come aveva sempre fatto la moglie.
La figlia che sta più vicino – Biella, non troppo distante da Torino. Il figlio
è lontano, l’altra figlia sta a Roma: Giulia, la voce narrante. Figli lontani,
vedovi soli: il protagonista ma anche la donna che incontra ai giardini a
sorvegliare il figlio, skater spericolato, dopo che il pranzo è andato a monte,
per un piccolo incidente di una delle nipoti. E allora, tutte quelle buone cose
preparate come a rievocare la tradizione familiare ravvivando una tavola ormai
deserta? Di qui l’invito a Elena e al figlio Gaston. Un gesto gratuito, e a suo
modo necessario.
Come in tutti i romanzi migliori, fra i personaggi se ne
aggira uno senza volto, muto, pervasivo: il Tempo. Il tempo passato che emana
dall’agenda di ricette compilata dalla moglie morta, il tempo di quando i figli
erano bambini, il tempo che si porta via la vita e ci mette di fronte al fatto
che “invecchiando si perdono molte cose. Soprattutto cose che non sapevamo di
avere.” Ma c’è il tempo presente a far valere i suoi diritti, e ad offrire
opportunità, sempre che le si sappia cogliere. Con l’umiltà che il vecchio
ingegnere sa mostrare: ascoltando Elena, giocando con Gaston, recuperando –
senza mea culpa, ma con una lucida consapevolezza di quel che è stato – il
rapporto con Giulia che, come accade in ogni famiglia, era stata quella che aveva
subito il peso maggiore della distanza del padre, avvertita anche dai fratelli,
e dalla madre forse, ma fattasi in lei motivo di allontanamento dal genitore.
Un allontanamento che cederà tuttavia a “una nuova complicità” con il padre,
che “nulla (toglie) alle incomprensioni del passato”, ma le rende più
“gestibili”. Perché – e l’osservazione si fa qui messaggio che, per il lettore,
ben si accorda con il Natale imminente – “Non si (tratta) di cancellare o
dimenticare: ma di perdonare”, godendo di quello che occorre saper riconoscere:
“un tempo nuovo”.
E dunque tutto si risolverà, perché i personaggi sanno rispondere a una “comune voglia di racconto”, di condivisione delle vicende vissute e del tempo nel quale si sono svolte e rivivono. Nel racconto, appunto. Un racconto, questo di Geda, nel quale – ha notato Ida Bozzi su La lettura dello scorso 15 settembre – l’autore “non si limita a mettere in campo la classica struttura con l’intreccio principale e i flashback”, ma lascia emergere “un terzo tempo, successivo al pranzo raccontato e a quello dei ricordi evocati, un tempo nuovo che può esistere perché l’invito a pranzo c’è stato” e in seguito Giulia ha potuto conoscere Elena che gliene ha raccontato. È nel tempo della narrazione che tensioni e distanze trovano composizione e insieme un luogo nel quale consistere: la casa, che dopo la morte del padre i figli non si sentono di vendere perché è “Un luogo in cui tornare di tanto in tanto. Per dialogare con il tempo che passa e cercare di farci pace.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Io non sono uno di quei cattivi scrittori che dicono di scrivere solo per se stessi. C’è una sola cosa che si scrive per se stesso, ed è la lista della spesa. E quando hai comperato le cose che dovevi, puoi distruggerla. (…) Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno”. (Umberto Eco)
Alan Pauls, Trance. Autobiografia di un lettore, Sur 2019 (pp. 136, euro 12)
Il
protagonista è un lettore molto
forte, ma è un po’ tutti coloro che leggono molto.
La
trance del titolo è quella cui la lettura può dar luogo quando sembra che “il
mondo sia sparito con tutto dentro, compreso tutto ciò che (si) ama tranne
quello che (si) sta leggendo”: anche il proprio corpo passa in secondo piano ed
è questa “la prova più irrefutabile dell’intensità della trance in cui cade chi
legge (…): solo ripiegamento e oblio, l’indifferenza quasi zen in cui la
lettura avvolge chi legge, disattivando tutte le funzioni che potrebbero
cospirare contro l’esclusività dell’esperienza”.
L’autobiografia
del sottotitolo – organizzata in brani disposti in ordine alfabetico – parte
proprio da qui: dal fastidio, dall’incubo anzi che l’interruzione rappresentava
già per il lettore bambino, lettore precoce tanto da imitare l’atto del leggere
ancor prima di saperlo fare, e arriva alle riflessioni del lettore attempato
sulle pagine da lui variamente chiosate e sottolineate, prova di una dedizione
durata l’intera vita. “Quando torna ai libri più vecchi che ha – infatti –,
quelli più segnati dalla sua mania di sottolineare, ha l’impressione di
trovarsi fra le mani non un libro ma due: uno, il libro in sé, originale,
intatto; l’altro (…) (che) narra la sua storia di lettore”.
Tra
uno e l’altro capo, osservazioni su che cos’è leggere tanto penetranti e
originali – spesso assonanti con quelle lette in Una meravigliosa
solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna di Lina
Bolzoni (Einaudi 2019) – che vale la pena di seguirle pur attraverso
riferimenti culturali che sfuggono spesso al lettore medio italiano.
Osservazioni
che ci vengono proposte fin dalla esplicitazione iniziale dello scopo del libro
(o “glossario”, come Pauls preferisce chiamarlo): “Dichiarare il debito
incommensurabile che lo scrivere (compulsione strategica) ha con il leggere
(quel vizio gratuito, benefico, generoso)”. Sempre che la lettura sia vera
lettura, consapevole che “in tutto ciò che è scritto c’è sempre qualcosa di non
scritto”, che cogliere il senso di un testo non è come centrare un bersaglio
perché il senso è “qualcosa che non esiste prima”, ma è “qualcosa che nasce e
si fa e si disfa nell’incontro fra un testo e un desiderio di leggere”. È
allora che nasce una reciprocità che dà sostanza alla lettura e le conferisce
la sua “ingenuità provocatoria”, la tranquilla rivendicazione del proprio
anacronismo di attività che impone continuità e concatenamento “in uno stato di
cose in cui moneta corrente sono la simultaneità e il montaggio”, che chiede
una dedizione esclusiva che contrasta radicalmente il multitasking imperante.
Un
elogio del leggere, dunque, che non ignora tuttavia la nota obiezione: leggere
finisce con l’essere uno stratagemma per non vivere, una pratica di fuga dal
mondo. Un argomento con cui Pauls si misura ripetutamente, per arrivare a una
conclusione difficilmente contestabile: “Si legge per vivere quanto per evitare
di vivere; si legge per sapere che cos’è vivere e come vivere; si legge per
fuggire dalla vita e immaginare una vita possibile”. Si legge dovunque e
comunque, come i lettori “rilassati” di Steve McCurry, colti in quel loro
“raccoglimento laico” che sa resistere a guerre, miseria, catastrofi naturali.
Loro, e tutti quanti leggono davvero, fedeli al “modello di ciò che ogni
lettura dovrebbe essere: una pratica (un’etica) della fiducia”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Io, stare tanto tempo senza scrivere neanche un libro, non so come dire, sì, avevo due libri che dovevano uscire, ma li avevo finiti di scrivere più di un anno prima, era più di un anno che non scrivevo un libro nuovo e a star tanto tempo senza scrivere niente, mi sentivo in colpa. Per quello, credo, avevo bisogno di cominciare una cosa”. (Paolo Nori)
Massimo Tedeschi, La maledizione del numero 55. Un’indagine del commissario Sartori da Salò, La nave di Teseo 2019 (pp. 176, euro 16)
Da narratore seriale ormai
consumato – e approdato con questo romanzo a una casa editrice prestigiosa –
l’autore sa da subito mettere a suo agio il lettore, sia quello che per la
prima volta incontra il commissario Italico (Italo, più comunemente) Sartori e
nei cenni che lo inquadrano trova i riferimenti necessari per dargli un volto e
una personalità inconfondibile, sia quello che riconosce il personaggio
avendolo seguito nelle indagini precedenti e prova un’impressione di familiarità
nel ritrovare il caffè Impero dove lui fa sosta ogni mattina per bere il suo
latte macchiato, il cane Argo che lo accoglie affettuoso, la villa che si
intravede dall’altra parte del golfo, a Portese, e calamita lo sguardo del
commissario evocando in lui brividi di desiderio ma anche, in questo caso,
l’inquietudine che travaglia gli amanti tormentati da un disaccordo di cui non
sanno prevedere gli esiti. Già, perché la bella – e agiata, quanto generosa –
vedova Anna Arquati, altra vecchia conoscenza, intende partecipare alla Milla
Miglia che si sta per disputare, suscitando la preoccupazione, ma soprattutto
la gelosia di Sartori, che già se la immagina attorniata da una schiera di
ammiratori.
Ma Salò è solo uno dei luoghi
lacustri che fanno da cornice alla vicenda: sono l’intero Garda bresciano da
Sirmione a Limone – questa la giurisdizione del commissario –, il suo
paesaggio, le sue atmosfere diverse secondo la stagione ad accompagnarci nella
lettura, a darle un sapore che sembra fare dei romanzi di Tedeschi i capitoli
di un’unica storia che si snoda attorno a un lago ora radioso ora grigio e
nebbioso ma sempre capace di suggestioni inimitabili.
La velocità, mito dominante dell’epoca, non si concretizza questa volta negli idrovolanti del Reparto Alta velocità – come nell’Ultimo record – manelle rombanti automobili della Mille Miglia del 1936, di poco seguente alle esequie del poeta del Vittoriale, figura simbolo di quel mito e presenza ricorrente nelle avventure del nostro commissario, fin da Carta rossa, il primo romanzo. Sartori non ha tuttavia tempo di seguire i frenetici preparativi della gara. Ha altro da pensare: dalla morte apparentemente accidentale di uno dei piloti francesi iscritti alla corsa e del suo meccanico all’assassinio di una maga, la famosa Nefertari, al secolo Luigina Stroppa, alle cui capacità medianiche ricorrevano i più disparati personaggi dell’ambiente gardesano.
È a Brescia che
l’indagine conduce Sartori, nello studio del patron della corsa, Renzo
Castagneto, e proprio dal dialogo fra i due – vero pezzo di bravura per
realismo e vivacità, insieme alla descrizione
di Piazza Vittoria alla vigilia della gara: sembra oggi, non fosse per la presenza
del Bigio… – verrà il sospetto circa le cause effettive
dell’incidente mortale. Nelle miserie dell’ambiente borghese della Riviera si
dovrà invece cercare il movente dell’uccisione dell’indovina, un ambiente che
offre all’autore spunti in abbondanza per darci – come nei romanzi precedenti,
si pensi a Villa romana con delitto –
un quadro dettagliato e impietoso di un mondo le cui doppiezze e meschinità
trovavano alimento nel conformismo imposto dal regime.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Non mi sento capace di scrivere un io completamente autobiografico (…) Invento personaggi finti che però nutro con tutto ciò che ho dentro”. (Nadia Terranova)
Un contributo importante all’archeologia industriale
Tag, segni e tracce lasciate nelle Cattedrali del lavoro ormai abbandonate immortalate da Gigi Bellometti.
Ha respirato l’aria della fabbrica, Gigi Bellometti, sin da bambino, nelle officine meccaniche del nonno, e poi da operaio, in gioventù, e in seguito, per una vita – arrivata oggi vicino agli ottanta – attraverso l’impegno a vario titolo prestato nel sindacato.
Un’aria, quella dei capannoni e delle macchine, che si è tuttavia rarefatta a partire dalla fine degli anni ’70 e soprattutto con le grandi ristrutturazioni degli anni ’80, che dopo il tessile investirono il metalmeccanico.
Di qui la consapevolezza che, come la memoria della civiltà contadina in seguito allo spopolamento delle cascine, così anche quella dei luoghi della produzione industriale poteva disperdersi con l’abbandono e il degrado di quelle che si potevano considerare Cattedrali del lavoro. Questo il titolo del grande reportage fotografico con il quale Bellometti ha offerto un contributo importante alla ricerca archeologico-industriale diffusasi in Italia, e a Brescia, sul finire degli anni ’70. Gli stessi in cui – la coincidenza appare in questo caso significativa – apparivano nei ghetti newyorkesi i primi graffiti, manifestazione di quella cultura hip-hop non a caso richiamata in una delle immagini che in anni recenti Bellometti ha scattato fra le rovine delle fabbriche disertate dal lavoro, a Brescia come a Nave e in altri centri della provincia.
Brescia nel libro di Pietro Gino Barbieri, ex medico del lavoro
Un libro che ha a tratti il sapore di una narrazione e in altri quello di un saggio: è di un ex operaio della Eternit il giudizio, Nicola Pondrano, autore della nota di prefazione. Un operaio divenuto in seguito dirigente sindacale della Cgil ma anche del fondo per le vittime dell’amianto e dell’associazione dei loro famigliari. Nel suo percorso si rappresenta la vicenda, il dramma anzi, raccontato dall’autore, Pietro Gino Barbieri, medico del lavoro dal 1980: «il dramma prevedibile di una strage prevenibile», come recita il sottotitolo di «Morire di amianto». E prevedibile era davvero, dal momento che fin dagli anni Cinquanta era dimostrata l’associazione causale tra amianto e cancro del polmone e dagli anni Sessanta quella con il mesotelioma maligno, un tumore della pleura e del peritoneo.
Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda 2019 (pp. 320, euro 18)
“La
parola è scritta al contrario sul cofano delle ambulanze perché chi guida le
possa leggere nello specchietto retrovisore. Si potrebbe dire che è scritta per
il futuro – per le macchine che stanno davanti all’ambulanza. Esattamente come
chi sta in un’ambulanza non può vedere la parola ambulanza, noi non possiamo
leggere la storia che stiamo creando: è scritta al contrario, per essere letta
in uno specchietto retrovisore da chi non è ancora nato”.
Sono
passaggi come questo a dirci la differenza fra uno dei molti saggi sul
cambiamento climatico e questo libro, in cui la voce che si leva a lanciare
l’allarme è quella di uno scrittore. Uno scrittore conscio del fatto che il
problema è crederci, alla catastrofe annunciata dal riscaldamento del pianeta,
e si tratta dunque di uscire dallo stato di negazione che – nella nostra
società, la società dell’informazione – si risolve in un non sapere sapendo, in
un sapere ma non fare: “Dobbiamo fare
qualcosa ci diciamo a vicenda, come se affermarlo fosse sufficiente. Dobbiamo fare qualcosa diciamo a noi
stessi, e poi aspettiamo istruzioni che non arrivano. Sappiamo che stiamo
scegliendo la nostra stessa fine: solo che non riusciamo a crederci”, immersi
come siamo in una generale crisi della capacità di credere che trova alimento
in un’informazione strabordante di opinioni che offuscano i fatti, dominata da
un presentismo che mina l’idea di futuro.
E
allora? Allora occorre che la questione ambientale si carichi di emotività: non
si crede in quello che non ci scuote. Ma “Anche le nostre emozioni, come i
nostri corpi, hanno dei limiti. E se i nostri limiti emotivi non potessero
essere superati?”
Non
resta all’autore che riprendere il filo del discorso iniziato con il suo
precedente Se niente importa. Perché
mangiamo gli animali? (Guanda 2010), notando che anche nei discorsi più
appassionati e documentati sulla questione climatica – il nobel Al Gore non
escluso – viene taciuto un aspetto decisivo: “l’impatto dell’allevamento
sull’ambiente”. Perché “quando si parla di carne, latticini e uova la gente si
mette sulla difensiva. Si infastidisce. A parte i vegani, nessuno muore dalla
voglia di affrontare l’argomento, e il fatto che i vegani ne abbiano voglia
costituisce un ulteriore disincentivo”. Ma la questione sta proprio qui:
comprare un’auto ibrida non è inutile, ma serve soprattutto a “farci sentire
meglio. E può essere pericoloso sentirsi meglio quando le cose non vanno
meglio”. E dunque, non giriamo intorno al problema: pagine di dati e
rilevazioni scientifiche supportano la conclusione che “non possiamo salvare il
pianeta se non riduciamo in modo significativo il nostro consumo di prodotti di
origine animale”. Non si tratta di eliminarli dalla nostra dieta, si badi: si
tratta di ridurne “in modo significativo” il consumo.
È
questo il succo del discorso, e nonostante la letteratura ignori la crisi
climatica, pena l’esser dequalificata a fantascienza – come ha fatto rilevare
Amitav Ghosh con il suo La grande cecità (Neri Pozza 2017) – è il
libro di un autore di romanzi a imporlo alla nostra attenzione.
Alla nostra attenzione, appunto: basterà, questo, a farci credere, al punto da indurci a modificare i nostri comportamenti? E se anche fosse, servirebbe davvero, o la crisi è ormai irreversibile? (Come sembrano preconizzare storie come quella narrata da Bruno Arpaia in Qualcosa, là fuori, Guanda 2016). Quel che è certo è che vivere in quello stato di sapere e fare come non si sapesse e dunque non facendo non è vivere pienamente la propria vita. È adeguarsi alla “grande regressione” della nostra civiltà (La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017). È rinunciare a cercare un bandolo nella generale involuzione che ci coinvolge, perché – lo notava Bruno Latour (Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina 2018) – “non si possono comprendere le posizioni politiche assunte da cinquant’anni a questa parte se non si assegna un posto centrale alla questione del clima e della sua negazione”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Tenere una penna in mano o, immagino, posare le dita su una tastiera ed entrare nella zona del linguaggio è un atto che genera altro linguaggio, che genera pensieri, sensazioni, ricordi e idee che possono arrivare solo mentre scriviamo. Senza la penna in mano non ho gli stessi pensieri”. (Paul Auster)
Franco Ferrarotti, L’uomo di carta. Archeologia di un padre, Marietti 1820, 2019 (pp. 168, euro 14)
Passa
attraverso l’evocazione del rapporto con il proprio padre il bilancio che della
propria vita e del lavoro culturale più in generale l’autore ci propone in
questa archeologia di un padre. Un racconto che – come la Geologia di un padre di Valerio Magrelli – si staglia sullo sfondo della scomparsa che
questa figura ha registrato negli ultimi decenni, come sostenuto da più parti (nei
saggi di Massimo Recalcati in primo luogo).
“Non
sarai mai niente. Non diventerai niente. Sarai solo un uomo di carta”: il
pronostico, severo quanto sconfortato, del padre si direbbe contraddetto dalla
strada percorsa dal figlio, giunto – dopo gli anni di formazione, anni che
sembrano echeggiare lo “studio matto e disperatissimo” di altri grandi italiani
– ad essere riconosciuto come “il padre della sociologia italiana” (“Ma tutti
sanno – aggiunge con un tocco di autoironia Ferrarotti – che «mater semper certa est, pater numquam»).
E
invece no, quella previsione non era campata in aria: “Ora che la mia corsa è
finita e che mi capita, più spesso del previsto, di avvertire sulla nuca
l’alito freddo della morte (…) devo riconoscere, per quanto a malincuore, che mio
padre aveva ragione. Toglietemi di torno le carte, i libri, gli opuscoli, i
ritagli di giornale e non resta più nulla”. Ma non è solo un riconoscimento a
posteriori quello tributato al padre, bensì il frutto di una comprensione inevitabilmente
tardiva: “Mio padre credeva unicamente alla conoscenza attraverso l’esperienza personale,
diretta” ed era quindi, per il figlioletto, gracile e inadatto al lavoro dei
campi, un padre “lontano”. Un uomo la cui individualità solo adesso che non c’è
più si può mettere a fuoco: attento ai “valori
qualitativi” quanto la moglie a quelli “quantitativi” e “Io – sottolinea
l’autore – ero dalla parte di mia madre”, del suo “sovrano controllo
razionale”, senza avere “gli elementi per comprendere le “frustrazioni”, le
“sconfitte” del padre, uomo immerso nei tempi lenti delle stagioni, in quella
civiltà che Ferrarotti sa evocare in pochi tratti – in ciò richiamando i mémoires
di Enzo Bianchi –, uomo consapevole “di essere ormai alla fine, superato, obsoleto. Estraneo alla
società”. Ecco il punto: si comprende una persona quando se ne vede la
fragilità, e la si sa interpretare come un segno dei tempi che ha vissuto, e
questo vale tanto più quando è con i propri genitori che avviene il confronto. Un
confronto che si fa via via più lucido in queste pagine, approdando a sintesi
suggestive: “mio padre ha rappresentato per me la natura, mentre mia madre è
stata la cultura”.
A conti fatti, conclude l’ormai ultra
novantenne sociologo, morirò in compagnia dei miei libri. Saranno la mia
estrema unzione” (e qui è un altro autore, per altro richiamato in queste stesse
pagine, Sartre, il Sartre delle Parole a
risuonare: “Ho cominciato la mia vita come senza
dubbio la terminerò: tra i libri”). I libri e insieme i ricordi, la cultura, la
memoria, perché “Siamo ciò che ricordiamo, e ricordiamo ciò che abbiamo vissuto
e ancor più vividamente ciò che abbiamo letto”.
“[Pensare
così tanto ai propri genitori] è il prezzo che si paga per essere scrittori. Si
è assillati dal passato: sofferenze, sensazioni, rifiuti, tutto. Credo che
questo aggrapparsi al passato sia un impellente, quasi disperato, desiderio di
reinventarlo in modo da poterlo cambiare. Medici, avvocati e molti altri
rispettabili cittadini non sono tormentati da una memoria così ostinata. A loro
modo possono anche essere turbati (…), però non se ne rendono conto. Non
approfondiscono”. (Edna
O’Brien)
Cees Noteboom, 533. Il libro dei giorni, Iperborea 2019
“Non
è nemmeno certo che questo sia un vero diario, forse è piuttosto un libro dei
giorni, uno strumento per trattenere qualcosa del flusso dei pensieri, delle
letture, di quel che si vede, di certo non è un libro di confessioni”.
Prendiamo sul serio il tentativo che l’autore fa, passata la metà del suo libro, per definirne la natura. Primo, i pensieri: un ininterrotto colloquio con se stesso che non offusca affatto l’attenzione per gli avvenimenti che la cronaca registra. “Provate – constata infatti Nooteboom – a tenervi lontani dal mondo e il mondo vi riagguanterà”. Anche se vi chiedete “Quando si può dire che un fatto sia un evento”. Lo è un incidente ferroviario, ma anche, per uno che si sente “ospite del (proprio) giardino” nella prediletta Minorca, l’upupa che improvvisamente un giorno gli si posa accanto. Ma, appunto, il mondo ti riagguanta: “si presenta sullo schermo: attentati, guerra, omicidi (…) tutto si disegna sul vetro, come se si guardasse lontano, attraverso un tunnel, e i panorami qua fuori e i libri dentro casa non esistessero più”. E non basta aver scritto, aver preso posizione pubblicamente, perché “non sai se sia servito a qualcosa”, forse “è tempo che ti chiuda nel tuo giardino mentre tutti gli altri procedono frenetici e inarrestabili in un mondo che è tutto un malinteso”. Senonché, “anche se personalmente sei al sicuro, sei imbrattato della merda della guerra che accompagnerà i tuoi giorni fino alla fine, che tu lo voglia o no”. La guerra e le migrazioni, di fronte alle quali “diventiamo persone diverse senza più rendercene conto. (…) Il faut cultiver notre jardin” – ha scritto Voltaire –. “Io faccio del mio meglio, ma il mio giardino si trova nel mondo, che lo voglia o no”.
Eppure.
Eppure – ecco le altre piste che percorrono queste pagine – i libri, che
restituiscono “il mio autoritratto di lettore”, gli innumerevoli riferimenti
letterari che sono parte dell’esperienza quanto gli incontri che si sono
ricercati sull’onda di una curiosità inestinguibile per le altre culture,
quella curiosità che aveva condotto Nooteboom in Giappone – come testimoniato
in Cerchi infiniti. Viaggi in
Giappone (Iperborea 2017) – e che qui si manifesta come consapevolezza del fatto che
il confronto – come già aveva sottolineato Montaigne – è la via per misurarsi
“con gli aspetti di se stesso che si imparano in un’altra cultura”. Confronto
con gli altri, ma anche con l’Altro, il non umano: dai cactus che aspettano
ogni stagione lo scrittore a Minorca all’asino e alle mucche in cui gli accade
di imbattersi, quella che emerge è una radicale alterità della natura, in cui
“le rose non possono disperarsi”, “semplicemente esistono, non hanno altro da
fare, soprattutto non devono preoccuparsi di noi e dei nostri sentimenti”. Così
come gli amati cactus che si è imparato a distinguere apprendendone i nomi “non
sanno come si chiamano, ma sembra che non gliene importi nulla”.
Se è allo sguardo del calviniano Palomar che a
volte sembra possibile accostare quello di Nooteboom, allo scrittore italiano
si avvicinano anche la curiosità scientifica dell’umanista e soprattutto la consapevolezza delle propria
limitatezza e della propria finitudine, circostanze in cui tuttavia risiede
quella del proprio essere nel mondo, del proprio esserci al di là delle
convenzioni sociali e dei condizionamenti storici, del proprio saper vedere
l’estrema varietà che connota il mondo senza l’illusione di conquistarne una
visione complessiva, obiettiva. Tutt’altro: occorre ammettere che tutto quel
che si vede lo si vede, inevitabilmente, in riferimento a se stessi. Ed è perciò
ineliminabile il mistero. Quello del tempo e della durata, innanzitutto, su cui
– annota lo scrittore – ho imparato che c’è ben poco da dire”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
«Non si può collocare un’opera così importante – qual è il Musil – in un contesto di degrado fatto di scheletri di capannoni». Tempestiva l’osservazione di recente espressa su questo giornale da Maurizio Pegrari. Occorre tuttavia ricordare che quanto attornia gli edifici destinati alla musealizzazione non è il risultato di un naturale, inevitabile degrado, ma della sistematica demolizione che negli anni scorsi ha raso al suolo fabbriche, cinte murarie, serbatoi pensili. I segni di un passato produttivo senza i quali il nuovo museo corre un rischio di non poco conto: lo spaesamento. Non a caso l’ipotesi – nella sua formulazione originaria, negli anni ’80 – di un museo della Brescia contemporanea, della sua modernizzazione e della sua industria, attribuiva al polo espositivo anche la funzione di centro di interpretazione di un contesto del quale si riteneva essenziale fossero conservate le presenze architettoniche più significative e la fisionomia complessiva. Le cose non sono andate così, appunto, ma non sono solo «scheletri di capannoni» ciò che resta dell’ex laminatoio che affianca il museo e degli edifici industriali pericolanti che si innalzano – non sappiamo per quanto ancora – appena a sud del museo stesso: un loro recupero, capace di non cancellarne i caratteri così come di prevederne un riuso non puramente abitativo e terziario, appare indispensabile garanzia del mantenimento di quel contesto.
Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 384, euro 16,50)
La vita travagliata di Carlo Gesualdo da Venosa, autore di madrigali a cavallo fra il Cinque e il Seicento, la si conosceva e aveva già ispirato romanzi: uxoricida, afflitto dalla morte dei figli, per l’intera vita alle prese con una ricerca musicale mai in grado di sedare la sua inquietudine, fino alla morte prematura e sofferta. È la sua figura tragica ed enigmatica che si ripropone nella “Cronaca” scritta da uno dei suoi servi – il più fedele e infelice, un nano deforme, colto e sensibile – o forse apocrifa, che un altro musicista, tre secoli dopo, acquista in una libreria antiquaria di Napoli e legge appassionatamente, concependo l’idea di rivisitare tre dei madrigali di Gesualdo secondo canoni novecenteschi. Lo ha fatto davvero Igor Stravinsky, con il Monumentum pro Gesualdo da Venosa composto nel1960, ed è qui, nel dialogo a distanza che si sviluppa fra il musicista contemporaneo e quello secentesco la novità e la ragione di interesse principale del romanzo di Tarabbia. Un romanzo che si fa via via sempre più “gotico” – come l’autore stesso avverte – e tuttavia non riserva al lettore solo vicende cupe e scene di cruda violenza, ma anche la storia di un progressivo avvicinamento tra due artisti geniali, nel quale emerge una concezione della composizione musicale, e più in generale della creatività, aliena dal mito di una libertà assoluta e incline piuttosto a riconoscervi un lavoro teso a “catturare l’unica evoluzione musicale logica possibile”, perché “non si può costruire sul niente”. Occorre che la scrittura, anche quella di parole, trovi una “resistenza”, ben sapendo comunque che non sarà mai possibile realizzare “il vero scopo dello scrivere”, ossia “trovare parole definitive, oggettive”, “trovare una frase che racchiuda un sentimento, che lo incarceri una volta per tutte in una forma assoluta, che impedisca a chi legge di raccontare quello stesso sentimento con parole diverse da quelle che trova scritte”. È uno Stravinsky professionalmente ambientato negli Stati Uniti ma culturalmente, forse esistenzialmente, spaesato in una Hollywood che lo ha “sia celebrato che respinto” e nella quale pure abita agiatamente, quello che si misura con l’idea di Gesualdo che i suoni a disposizione non bastino e che gli uomini siano condannati a non poter attingere a quelli infiniti che abitano l’universo, infiniti come i mondi di Giordano Bruno: “È naturale – obietta il compositore russo – che la musica sia limitata, e che i suoni siano in fondo pochi. È la nostra fortuna e la nostra benedizione: se così non fosse, non ci sarebbe data la possibilità di organizzarla, perfino di immaginarla. Saremmo perduti”.
Eppure è un “padre” che Stravinsky sente in Gesualdo, un padre che sa comprendere nel profondo: non “un innovatore, un iconoclasta, “un originale senza dubbio, qualcuno che portò il genere del madrigale alla saturazione. Ma (che) proprio per questo non è un innovatore, non porta il nuovo: egli si appoggia alla tradizione e ne slabbra di un poco i confini (…) Fa il nuovo, per così dire, affastellando tutti gli elementi della tradizione”. Ecco il punto, e il riconoscimento che ne consegue: “In questo ci somigliamo: nel cercare qualcosa di mai udito attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito”. È qui l’originalità, la grandezza di Stravinsky, per questo bollato come reazionario dall’Adorno che solo nella dodecafonia di Schönberg vedeva un progresso rivoluzionario. Parlando di musica, è della cultura del Novecento, del posto che l’eredità della tradizione in essa ha occupato – e della sua catastrofe, come vogliono alcuni – che questo romanzo, dalla trama fitta e densa di colpi di scena, parla: “bisogna dialogare coi padri, dar loro un linguaggio nuovo che li renda vicini”, proprio come ha fatto Tarabbia. E infatti – è la conclusione cui giunge il professore cui Stravinky ha sottoposto la Cronaca per avere un parere sulla sua autenticità – “Niente mi leva dalla testa che il Suo lavoro su questi tre madrigali sia la trasposizione di ciò che l’autore di questa cronaca, chiunque egli sia, ha fatto con la vita e l’opera di Carlo Gesualdo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Antonio Prete, La poesia del vivente. Leopardi con noi, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 192, euro 17)
C’è il sapore di una constatazione conclusiva nel nuovo libro di Antonio Prete su un poeta cui ha dedicato negli anni studi che hanno cambiato il modo di leggerlo – da Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi (Feltrinelli 1980) a Finitudine e Infinito. Su Leopardi (Feltrinelli 1998) e Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi (Donzelli 2004). Senza dimenticare il capitolo che nella nuova edizione di Nostalgia. Storia di un sentimento (Cortina 2018) si è aggiunto riservando uno spazio alla poesia e inevitabilmente richiamando Leopardi.
Sembra perciò l’esito di un consuntivo quello che si profila
già nel sottotitolo e si chiarisce fin dalla prima pagina: “Ci sono poeti che
continuano a stare con noi. Camminano con noi” e Leopardi è senz’altro uno di
questi, perché “Ci accompagna con le diverse forme della sua scrittura”,
“tessitura assidua di un pensiero poetante. Di un pensiero, cioè, che la poesia
anima dei suoi modi, e dunque salva dal compimento, dall’ambizione del sistema,
e trattiene nel campo aperto dell’interrogazione, dell’assillo della ricerca”.
Quell’interrogazione, quell’assillo che, appunto, non ci lasciano per tutto il
corso dell’esistenza, e che trovano – in modo diverso secondo le età della vita
in cui torniamo a rileggerlo – rispondenza nel poeta che “oppone a una civiltà
che ama le astrazioni – popolo, pubblico, massa – il corpo individuo: con il
suo affanno, con le sue ferite. (…) E nella terra, così come nel suo luminoso
satellite, scorge il ritmo di una comune appartenenza di tutti gli esseri a una
cosmologia sconfinata”, e insieme al “mondo snaturato della natura”, la cui
bellezza e integrità sono state piegate “alle ragioni della tecnica. O alla
frenesia del consumo”, e compromesse dalla rimozione della fragilità del
vivente, e della morte. Solo la poesia, allora, può “aiutare a conoscere ed
abitare la natura”, la poesia, che “come la ginestra è un fiore tra le rovine”,
capace tuttavia ancora di portare un “sorriso nella tela brevissima della nostra vita” – secondo la citazione di Sterne
che ritroviamo nello Zibaldone –, nella
vita di creature, quali sono gli uomini, costitutivamente desiderose di
felicità e bisognose di infinito anche se, allo stesso tempo, consapevoli del
loro destino di finitudine e infelicità.
Il rischio, volendo riferire di questo libro, è naufragare nel gusto della citazione,
fin dal primo momento, quando si legge la prefazione dell’autore, e questo
accade non solo per la qualità della scrittura, che sonda insieme aderisce alla
voce del poeta, ma anche perché la critica di Prete è – potremmo dire parafrasandolo
– una critica poetante. Una critica,
cioè, che “non può essere altro che il racconto della propria esperienza di
lettura”, della quale “si annotano passaggi per dir così interiori, cioè
momenti in cui la presenza del testo agisce nel proprio sentire”, con
“un’implicazione di sé nell’ascolto” tale che “il movimento dalla lettura verso
la scrittura appare necessario”. Una scrittura, comunque, che sempre “dal testo
muove e in sintonia con il testo e nello spazio del testo prende respiro”.
Da qui, da questa vicinanza del testo critico a quello
poetico deriva una vicinanza crescente del lettore di questo libro agli
argomenti e alle movenze del suo autore, sicché, volendo evitare il naufragio
di cui sopra, non resta che enunciare – con le parole dell’autore, certo –
alcuni dei temi che percorrono queste pagine, rinunciando a metterne in luce la
concatenazione, rigorosa e rivelatrice, via via riproposta come un invito
appassionato e convincente a misurarsi con le opere leopardiane.
Sono le costanti fondamentali della poesia di Leopardi che
così emergono. L’“assidua dislocazione del punto di osservazione”,
innanzitutto: “dal soggetto alla natura, dal sentimento del singolo al ritmo
cosmico, dalle forme visibili e dominanti della civiltà a un’anteriorità luminosa”, i cui luoghi sono
gli antichi, i fanciulli, gli animali (cui sono dedicate alcune fra le pagine
più intense). Detentori di uno sguardo, di un modo di rapportarsi al mondo e
alla vita che indica il punto di vista necessario per una critica della
modernità aliena da ogni tentazione utopica (risultando sempre dominante “la
fascinazione del prima e dell’oltre, non quella dell’altrove e dell’altro tempo”). Una critica sostanziale e pure capace di riconoscere
che “La modernità è allo stesso tempo distanza dal corporeo e affinamento della
sensibilità (…) sottigliezza dello sguardo”: una dimensione entro la quale
nasce lo stesso pensiero poetante di Leopardi trovando nella ricordanza il suo movimento essenziale,
“dolce perché porta con sé immagini perdute, sottratte alla prigione
dell’oblio”, ma anche “amara perché l’immagine che porta con sé è una
parvenza”, la cui “essenza è l’impalpabile effimero sparire”. Sicché il “tempo
della poesia” è “un tempo che raccoglie quello che il tempo fisico, che è
irreversibile, ha bruciato” e la poesia si definisce “come ospitalità di quel
che è perduto”.
Il “romanzo familiare” con le sue figure e i suoi episodi, il
rapporto con le città via via divenute per Leopardi luoghi di soggiorni più o
meno duraturi, la sua complessa relazione con la traduzione, l’attualissima
riflessione sugli italiani e l’Italia, i motivi di vicinanza e di distanza da
Vico, l’abusata categoria del pessimismo a lungo pretesa quale chiave di
lettura della poesia leopardiana sono altri temi che il libro affronta,
commenta, integra in una visione complessiva e che qui si sono richiamati in
una sintetica rassegna che non può in ogni caso tralasciare di segnalare pagine
che spiccano per la loro capacità di mettere in pratica quello stile critico
prima descritto. Pagine come quelle che nell’Elogio degli uccelli individuano “un piccolo compendio della
filosofia leopardiana”, o come quelle dedicate all’Infinito, frutto di “un’immaginazione corporale” che detta una
lingua percorsa dai “riverberi” di un “infinito osservato nella sua umana e
comprensibile apparizione”, per questo in grado di “(mettere) in scena
l’essenza stessa della poesia”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi”. (Marcel Proust)
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