Roland Barthes, Sul racconto, Marietti 1820, 2019 (pp. 88; euro 8)
Fra l’introduzione di Paolo Fabbri, intervistatore dello studioso francese più di cinquant’anni fa – e oggi sintetico commentatore di quel testo brillantemente sopravvissuto ad un periodo in cui “la problematica narrativa è passata da un iniziale negazionismo, all’accettazione decerebrata dello storytelling – e la postfazione di Gianfranco Marrone, che “in questo straordinario documento” individua i nuclei che lo rendono tanto più attuale e incisiva “in un’epoca di restaurazione positivista”, leggiamo la lezione di Roland Barthes. Perché di una lezione di chiarezza esemplare si tratta, che prende le mosse da una necessità innegabile: “milioni e milioni di racconti” sono stati elaborati “in tutte le società umane”, “Il racconto è dovunque: in tutte le epoche, in tutti i paesi, in tutte le culture; si serve di qualunque sostanza – la parola scritta, parlata, l’immagine mobile e immobile”. Di qui il tentativo di “scegliere un modello di descrizione”, illustrandone i “ragionevoli” presupposti. Fra rimandi culturali illuminanti ed esempi capaci di accompagnare anche il lettore poco addentro in queste tematiche, Barthes spiega di che cos’è davvero fatto un racconto, a partire dalle sue unità insopprimibili, funzionali dunque all’intelligibilità della storia, secondo un criterio diverso da quello che ci è consueto e si concentra su comportamenti, sentimenti, monologhi interiori. Diverso ma in grado di considerare comunque le “espansioni”, quelle “unità complementari o riempitive – cioè – che pure compongono il racconto. Anche un racconto come Goldfinger, che – né più né meno che l’Odissea – non sfugge alla possibilità di essere analizzato sulla base della logica che governa la successione e i reciproci “inscatolamenti” delle sequenze delle sue unità essenziali, dei “nuclei” che lo fanno essere quel racconto e non un altro.
E dopo l’individuazione dei nuclei e delle loro relazioni, i personaggi, non come “essenze psicologiche” ma “in quanto partecipano a certe azioni”, sull’esempio di quelli individuati da Vladimir Propp, familiare a insegnanti e genitori curiosi di comprendere le fiabe che raccontavano iniziando con quell’immancabile “c’era una volta”, ossia con quel segnale – ci fa notare Barthes – che avvertiva che un racconto iniziava. E il contesto del racconto? la sua “origine sociale”, i suoi risvolti ideologici? Non si tratta di ignorarli, quanto piuttosto di riconoscervi i luoghi nei quali “il sistema del racconto tocca il mondo” – e il “mondo scritto” incontra il “mondo non scritto”, avrebbe forse detto Calvino. Sarebbe necessario che l’analisi semiologica giungesse a quella ideologica, ammette Barthes, non senza ricordare tuttavia, in conclusione, che “solo se il sistema ideologico passa attraverso il relais d’un sistema simbolico diventa opera letteraria, opera d’arte”.
“Insegnavo scrittura creativa, una materia che personalmente non ho mai studiato e un’attività che non so bene come giudicare. L’unico beneficio possibile, come la vedevo io, era che lo sforzo insito nel tentativo di scrivere qualcosa avrebbe insegnato agli studenti quanto è difficile farlo bene e quindi affinato la loro capacità di apprezzare la buona scrittura”. (Paul Auster)
Majgull Axelsson, La tua vita e la mia, Iperborea 2019 (pp. 448, euro 18,50)
Per settant’anni, la protagonista di Io non mi chiamo Miriam – il romanzo della Axelsson pubblicato in
Italia tre anni fa – ha tenuto nascosta dentro di sé la verità, e cinquanta ne
sono passati prima che Märit torni là dove tutto era accaduto. Perché “certe
storie sono semi a cui serve molto tempo per germogliare”, come la scrittrice
svedese ammette nella nota finale.
Torna alla casa dei suoi, in occasione del settantesimo
proprio e del gemello Jonas, ormai sepolto nel linguaggio incomprensibile di un
uomo paralizzato dall’ictus. È con Kajsa, amica d’infanzia divenuta moglie del
fratello, che si compie il gioco terribile di rivangare un passato che non è
passato, che l’Altra non permette
scivoli nell’oblio. L’Altra, la sorella
morta durante il parto trigemellare da cui sono nati Jonas e Märit, ma che non
ha mai cessato di abitare quest’ultima, di farle sentire la sua voce
implacabile, sarcastica, ineludibile: “Infilata in un recesso profondo del mio
cervello, finge di non esistere”, ma ciononostante solo a momenti cessa di
“parassitare le mie capacità. E assillare, naturalmente: assillare, assillare,
assillare”. Impedire, in primo luogo, che si cancelli la memoria di Lars,
“Lars-lo-svitato”, il fratello che allora veniva definito “matto” e adesso si
direbbe “disabile intellettivo con evidenti tratti autistici”. Mal tollerato in
casa, dove solo la madre lo accudisce con amore, nasconde una grande
sensibilità artistica: disegna, fa ritratti somiglianti di persone incontrate
per caso, ma non sa avere rapporto con gli altri, e non è alieno da comportamenti
violenti, aggressivi. La morte della madre segna il suo destino. Märit è
l’unica a ritenerlo non un essere inferiore, ma diverso. Gli altri no: il suo
posto è un ospedale psichiatrico, in “un’epoca che non capiva o non vedeva la
propria malvagità”, un’epoca nella quale fra i medici “i più prestigiosi erano
i neurochirurghi, seguiti a ruota dai cardiologi, dopodiché, in scala
discendente, si arrivava al gradino più basso, quello degli sfortunati
psichiatri”, ma ancora più in basso stavano “quegli insignificanti figuri che
si occupavano dei dementi. E chi erano i dementi, allora? I poveri diavoli al
gradino più basso di tutte le gerarchie”, “considerati ancora più infimi e
indegni degli invalidi e degli alcolisti e dei lapponi e degli zingari”. Una Svezia
sconosciuta emerge da queste pagine, un paese che solo nei primi anni sessanta
scopre l’uso, accanto alle camicie di forza, di farmaci che permettono di
affrontare un “demente scatenato mettendolo al tappeto invece di chiuderlo in
una stanza vuota e poi sentirlo rimbalzare tra le pareti mentre ulula di
disperazione o terrore”. Sarà questo il destino di Lars, e sarà Märit a
scoprirne la condizione prima di ritrovarselo cadavere, segnato dalle botte
ricevute, sul tavolo di dissezione, lei allieva di medicina che lo stesso
giorno abbandonerà l’università, rinunciando a quello che fin dall’inizio i
suoi avevano giudicato un lavoro non da donne. Perché quella è anche l’epoca in
cui “non si può strillare e far chiasso e menar botte. Nemmeno quando se ne
avrebbe voglia. Nemmeno se se ne avrebbe tutte le ragioni del mondo. Non se si
nasce donne”.
Ma se avesse potuto, si sarebbe occupata, lei, del fratello “matto”? L’Altra la mette alle strette, la obbliga a riconoscere che no, non se ne sarebbe occupata annullandosi in lui come faceva la madre: non l’avrebbe fatto perché voleva una vita sua. Se non di medico, di giornalista. Ed è quella che imboccherà, senza tuttavia poter sfuggire al ricordo della vita sua e della propria famiglia, “una delle tante storie silenziose, importantissime e inservibili che dobbiamo portarci dentro fino al giorno in cui moriremo”. Ed è appunto una serie ininterrotta di flash back, non di rado lunghi tanto da far dimenticare al lettore di esser stato trasportato nel passato, a fare questo romanzo: “Smettila, dice l’Altra nella mia testa. Dimentica, per il tuo stesso bene. Quella ormai è storia, storia antica! È passato più di mezzo secolo. Ma io non intendo dimenticare – afferma la protagonista, in un continuo gioco delle parti con il suo doppio –. E lei, la grande amministratrice di ricordi, non deve impicciarsi.” Vuole arrivare fino in fondo, Märit, non lasciare che si dissolva nessuno dei fili di cui è intessuta la storia tragica della sua famiglia. Solo allora, sarà possibile andarsene, senza più voltarsi indietro.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Antonio Gramsci, Sherlock
Holmes & Padre Brown. Note sul romanzo
poliziesco,
Marietti 1820, 2019 (pp. 80, euro 8)
“(…)
tu avevi una felice disposizione a ricevere le impressioni più immediate e meno
complicate dai sedimenti culturali. Non eri neanche riuscita ad accorgerti che
il Chesterton ha scritto una delicatissima caricatura delle novelle poliziesche
più che delle novelle poliziesche propriamente dette”. Potrebbe sembrare ma non
è: Antonio Gramsci, dal carcere di Turi, nell’ottobre del 1930 scrive alla cognata
Tatiana Schucht – “Carissima Tania” – non per rimproverarle un’ingenuità di
lettrice, ma al contrario per esprimerle “invidia” per la sua “capacità di
fresco e schietto impressionismo”. Antonio legge diversamente, e la stessa lettera lo dimostra: “Il padre
Brown è un cattolico che prende in giro
il modo di pensare meccanico dei protestanti”, di cui lo Sherlock Holmes di
Conan Doyle è l’esempio lampante, l’investigatore che trova il bandolo di una
matassa criminale partendo dal’esterno, basandosi (…) sull’induzione”, mentre
il sacerdote detective di Chesterton si basa “sulla deduzione e
sull’introspezione” e, pur così apparentemente dimesso e alieno da ogni
carattere di eccezionalità, fa apparire Holmes “un ragazzetto pretenzioso”. Ma, nella sostanza, i racconti di Padre Brown
sono “fondamentalmente un’apologia della Chiesa Romana contro la Chiesa Anglicana”;
la sfida lanciata, con successo, dal detective cattolico contro quello
protestante.
Senonché, i libri che Gramsci poteva leggere in carcere – fa notare Jean-Louis Ska in uno dei saggi che compaiono nel libro, accanto a quelli di Chiara Daniele e Alessandro Zaccuri – non erano una biblioteca fornita cui lui potesse accedere liberamente, e così non può che trascurare il fatto che mentre Conan Doyle usciva da una famiglia cattolica, Chesterton si era formato in ambiente anglicano e solo a quarantotto anni si sarebbe convertito al cattolicesimo. L’opposizione fra i due non è dunque di carattere religioso, ma culturale: “fra una cultura mediterranea più sensibile alle motivazioni morali e psicologiche e una cultura anglosassone più induttiva, pratica ed empirica”. Una divaricazione che ogni lettore di polizieschi conosce bene, sulla quale ha scritto parole inequivocabili Sciascia definendo Simenon, non lo scrittore che ama il puro gioco intellettuale ma quello che “vede” e che “ama” (Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi 2018), capace quindi di superare l’alternativa che pure all’inizio gli si era posta, fra un dotto Jean incline al freddo ragionamento (Il fondo della bottiglia, Adelphi 2018) e il ben più fortunato Maigret, fatto di tutt’altra pasta, che inaugura un profilo di poliziotto destinato a un successo tanto solido da arrivare al nostro Montalbano.
Ci torna comunque sulla faccenda, Gramsci, nei suoi Quaderni, e a diverse riprese, andando tuttavia al di là del confronto fra le due figure di investigatore e ponendosi un problema di fondo: “perché è diffusa la letteratura poliziesca”, e più in generale “la letteratura non-artistica”, la letteratura spesso definita “popolare”? E la riposta è di quelle che fanno dei Quaderni dal carcere un’opera che non si è mai finito di consultare: la diffusione “sarebbe una manifestazione di rivolta contro la meccanicità e la standardizzazione della vita moderna, un modo di evadere dal tritume quotidiano”, ma sulla distanza è il valore artistico di un testo a farsi valere, quel valore rinvenibile in Chesterton e assai meno in Conan Doyle. In quest’ultimo “c’è un equilibrio razionale (troppo) tra l’intelligenza e la scienza. Oggi interessa di più l’apporto individuale dell’eroe, la tecnica ‘psichica’ in sé”. Un giudizio del tutto sottoscrivibile anche a distanza di decenni, ma che rivela la sua sorprendente attualità in una successiva annotazione che lo sviluppa, e che vale la pena di rileggere attentamente: “Il taylorismo è una bella cosa e l’uomo è un animale adattabile, però forse ci sono dei limiti alla sua meccanizzazione. (…) Vincerà il taylorismo o vinceranno i Moschettieri? (…) Se l’attuale civiltà non precipita, assisteremo forse a interessanti miscugli dei due”: 007 per tutti, dunque? Detective sempre più dotati di mentalità e bagaglio tecnologici ma pur sempre avventurieri? Attenzione però, raccomanda l’autore: “accanto a Don Chisciotte esiste Sancho Panza, che non vuole ‘avventure’, ma certezza di vita”: “il gran numero degli uomini è tormentato proprio dall’ossessione della non ‘prevedibilità’ del domani, dalla precarietà della propria vita, cioè da un eccesso di ‘avventure’ probabili”. Avventure sì, allora, anche delle più torbide, truculente o catastrofiste che siano, purché… rassicurino.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Georges
Simenon, Le persiane verdi, Adelphi
2018 (pp. 208, euro 19)
Alto,
grosso, a suo modo carismatico: venuto dal nulla, Émile Maugin è diventato un
grande attore, popolare al punto da essere riconosciuto per strada, nei
ristoranti, nei caffè. La sera a recitare in palcoscenico, la mattina sul set
cinematografico.
Simenon
ce lo fa seguire in tutti i suoi movimenti, ma anche nei suoi pensieri, nelle
sue idiosincrasie, nelle manifestazioni del suo caratteraccio: prepotente,
insofferente, violento, quasi compiaciuto della propria protervia egocentrica.
E al fondo di tutto: un’insoddisfazione corrosiva, che vino e cognac non
riescono a sopire.
Non
suscitano empatia il piacere della cattiveria, la brutalità dei comportamenti
sessuali, l’instabilità esasperante di questo personaggio. Fino a che,
ritiratosi da un giorno all’altro dalle scene, abbandonata Parigi e
trasferitosi con la giovane moglie e la figlia (non sua) nel sud della Francia,
cominciano ad affiorare in lui i segni di una debolezza che sempre più si
rivela essere sempre stata il contraltare della sua mancanza di scrupoli: ha
paura di morire, Maugin. Il medico gli ha detto che il suo cuore è quello di un
settantacinquenne, non del sessantenne che è. Ma più che la morte in sé è una
morte in solitudine che lo terrorizza. La moglie, la villa affittata dalle
parti di Nizza, la bambina rappresentano una garanzia in questo senso, ma lui non
sa realizzare il sogno di una casa in cui vivere in pace, una casa serena come
quelle che si vedono, con le persiane verdi… Il suo destino è segnato: una
banale ferita, superficiale ma non curata a dovere, sarà la causa della sua
fine.
L’intero
racconto appare allora una preparazione della scena finale: l’infezione si è
diffusa, la morte è vicina, e tutto è filtrato dal punto di vista del
protagonista, ormai perso nelle nebbie di uno stato quasi comatoso e
ciononostante attraversato da un ossessivo arrovellarsi attorno alla propria
vita, ai torti fatti, alle donne lasciate. Tutti, i genitori, i compagni
d’infanzia, il maestro di scuola, le mogli e le amanti, i colleghi e gli amici,
il prete e il dottore, tutti sono lì, al suo capezzale: se li vede intorno e
sente di dovere a tutti loro, e a se stesso, una riposta, una giustificazione
delle sue colpe, ma il bandolo di tutta l’ingarbugliata, confusa faccenda che è
stata la sua vita non si lascia trovare. Finché un tratto capace di spiegare le
sue scelte, il suo modo di stare al mondo, gli appare chiaro, inequivocabile:
“Aveva passato tutta la vita a scappare. Scappare da cosa?” “Aveva fame e
scappava dalla fame, Viveva in mezzo al tanfo degli alberghi malfamati e
scappava dal senso di nausea. Era scappato dal letto delle donne che aveva
posseduto, perché erano solo donne e niente di più, e quando si ritrovava di
nuovo solo beveva per scappare da se stesso.”
La
ripetizione è la colpa di Maugin, la ripetizione di un gesto di fuga che
nell’imminenza della morte non può essere più rimesso in campo.
Le
ultime pagine di questo romanzo risignificano le precedenti, e non possono non
richiamare quelle, insuperate, dedicate da Tolstoj alla morte di Ivan Il’ic.
“Su
questo sasso non succede niente di definitivo; qui la vita procede come in
brutta copia, tracciata a casaccio, eliminando ogni giorno quella precedente, a
pezzi e bocconi, fino alla fine. Sulla terraferma se uno persevera arriva da
qualche parte. Ma su quest’isola che cosa si può fare, a parte girare a vuoto?”
Un’isola.
Luogo che la letteratura privilegia quando – non importa quanto consapevolmente
– intende analizzare, e dimostrare, la realtà del vivere collettivo ridotta al
suo scheletro, ai suoi meccanismi elementari. E alla sua fragilità: è questo il
carattere che la comunità lascia venire alla luce quando un tarlo inizia a
divorala dall’interno. Cartoline, nient’altro che cartoline anonime che
svelano, denunciano, alludono: le magagne che ogni famiglia, ogni abitante,
aveva fino allora dissimulato, non possono più nascondersi sotto il velo delle
chiacchiere quotidiane. Prima a uno poi all’altro e all’altro ancora – a tutti,
c’è da temere – porterà la fatidica cartolina il vecchio postino Gabriel,
addolorato per quel male di cui è contro la sua volontà latore. Ma lui deve.
Deve continuare “a consegnare cartoline il cui autore non si è ancora palesato.
Il male è fatto, il male è in atto, e nessuno ha modo di fermarlo”. Neanche la
polizia, perché a ben vedere “non c’è materiale di indagine ma, piuttosto, per
un trattatello: criminologia delle intenzioni, sociologia della noia”.
Nessuno sfugge, se non – momentaneamente – alla cartolina, al senso di colpa: la situazione ricorda quella di un altro romanzo recente, le Case di vetro di Louise Penny (Einaudi 2019, in questi Note lo scorso 16 giugno). Dove però il mistero, svelandosi, innesca una nuova fase della storia. Non così nel romanzo di Carlier: anche quando sapremo chi è il personaggio che con le sue cartoline affligge il paese come fosse il suo “piccolo gregge inquieto”, la vicenda non si risolve. La “crudeltà quasi materna” del “corvo”, l’ignoto autore dei messaggi malevoli e inquietanti, fa precipitare la situazione secondo una logica implacabile, quella stessa per cui “nella vita, non si fa altro che andare verso se stessi”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Puoi trascorrere anni a considerarti uno scrittore, tanto sicuramente nessuno si prederà il disturbo di venirti a cercare per dirti: ti stai illudendo, non lo sei.” (Enrique Vila-Matas)
Gianfranco Pacchioni, L’ultimo sapiens. Viaggio al termine della nostra specie, il Mulino 2019 (pp. 214, euro 15)
Uno scienziato, ma uno di quelli che tiene a farsi fa capire
da tutti. L’idea che l’alta divulgazione sia appannaggio degli anglosassoni è
smentita da un libro come questo: evoluzione, intelligenza artificiale,
genetica, nanotecnlogie, neuroimmagini non restano terreno di enunciazioni che
danno per scontato conoscenze che mediamente non abbiamo.
Una seconda premessa: a dispetto del titolo, non è un pessimismo radicale a connotare il discorso, ma non è neanche il facile (e obbligatorio) ottimismo dei nostri tempi. “Passi da gigante” è un’espressione ricorrente, a proposito della velocizzazione dell’innovazione registratasi negli ultimi decenni nei campi più diversi”, ma non si dà per scontato che l’innovazione sia di per sé progresso: può risolversi in uno “sviluppo forsennato delle tecnologie” e portare a risultati imprevisti e, a dir poco, inquietanti. Come quando due macchine intelligenti, Bob e Alice, programmate per sostenere trattative commerciali, a un certo punto si sono messe parlare fra loro in un linguaggio incomprensibile, fatto di parole, sì, ma disposte in sequenze senza senso. Sennonché – questo il fatto allarmante – il linguaggio inventato dai due dispositivi, e trasparente a loro soltanto, ha permesso di concludere la trattativa con successo! Macchine capaci di “auto apprendere più velocemente degli scienziati informatici, con risultati devastanti per la nostra specie. Forse – avverte l’autore – sono scenari eccessivamente catastrofisti, magari la superintelligenza non arriverà mai. Ma non ci conterei troppo.” Anche in altre occasioni la conclusione resta volutamente aperta, come a dire al lettore che sta a lui, sulla base di altre sue conoscenze, delle sue esperienze, della scala di valori che riconosce, trarre un giudizio. Un equilibrio di fondo, condito di ironia, è il tono che ci viene proposto, e non potrebbe essere diversamente dal momento che ogni capitolo è introdotto da un racconto in cui si è previsto con largo anticipo quanto avviene oggi: un racconto di Primo Levi, il Levi chimico, l’uomo di scienza fantasioso e lo scrittore lucido delle Storie naturali, di Vizio di forma e del Sistema periodico. Un atteggiamento non demonizzante ma capace di prender atto delle possibili derive – tendenzialmente in atto o comunque possibili – dell’innovazione tecnologica si direbbe possibile, insomma, solo là dove le “due culture” sappiano dialogare. Come in Levi, e in Pacchioni, appunto. Capaci di metterci di fronte alla prospettiva di “scenari del tutto imprevedibili”, abitati da “esseri, non necessariamente integralmente biologici, in parte umani e in parte artificiali, più intelligenti di noi sapiens.” Ci arriveremo fra venti o trent’anni, secondo alcuni, convinti che sarà “uno dei momenti più promettenti per la storia dell’umanità”. Ma ci sono altri per i quali “potrebbe essere uno dei più pericolosi”. Ai posteri l’ardua sentenza, si sarebbe detto in passato, ma non oggi, perché – si chiedeva Primo Levi – “ci saranno storici futuri, diciamo nel prossimo secolo [questo, n.d.r.]? Non è del tutto certo: l’umanità potrebbe aver perduto ogni interesse per il passato, occupata come sarà a dipanare il gomitolo del futuro; o perduto il gusto per le opere dello spirito in generale, essendo intesa unicamente a sopravvivere; o cessato di esistere.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Federico Pennestrì, Eppur si muore. Vivere di più o vivere meglio?, Mursia 2019 (pp. 148, euro 14)
Un
filosofo che parla ai medici, ma che i medici – e i loro pazienti – li conosce
bene: è un punto di vista privilegiato quello da cui l’autore guarda alla cura
della salute nel mondo contemporaneo. “Vivere costantemente a contatto con la
medicina senza praticarla in prima persona – dichiara infatti – mi permette di
conoscerla e valutarla con obiettività, cercando fuori le soluzioni che essa
non può trovare al proprio interno”, e tenendo sempre presente un presupposto
di fondo: “la medicina è qualcosa di più delle conoscenze e delle tecniche che
la sottendono”.
Presupposto
di cui i pazienti sembrano consapevoli quando lamentano il ridursi del numero
dei “medici che ci conoscono di persona”, di quei medici di famiglia – dei
quali un politico di primo piano ha recentemente decretato l’inevitabile, se
non auspicabile, scomparsa – che non hanno dimenticato quel che Ippocrate
sosteneva, ossia che “per effettuare una diagnosi è più utile conoscere il
paziente che la sua malattia”, ma non per questo si collocano in
contrapposizione polemica con i colleghi specialisti, essendo “il medico di
famiglia il miglior portinaio possibile (gatekeeper)
per aprire le porte degli edifici della specializzazione”. Edifici nei quali tuttavia i medici appaiono
spesso – agli occhi dei pazienti – inaccessibili, a livello sia comunicativo,
sia logistico, sia economico”.
E
i medici? Anche loro frustrati: dall’insufficienza delle risorse, dai ritmi
lavorativi – e dalla collocazione professionale, possiamo aggiungere, che nelle
cliniche private ne fanno, come in molti altri settori, partite Iva per alcuni
aspetti fra loro in competizione? –, ma anche dall’intolleranza di pazienti “pretenziosi
e aggressivi”, “pronti a denunciare il medico”, “informatissimi sui propri
diritti e disinformatissimi sui propri doveri”, pazienti che – in un clima di
generale sottovalutazione, se non di disprezzo, delle competenze – “pretendono di conoscere la
materia meglio di chi la esercita”.
Senonché,
su questo come a proposito di altri nodi cruciali, l’autore sa esercitare il
suo sguardo esterno, obiettivo: “Il disagio del medico – precisa – e quello del
paziente non sono espressione di due realtà che configgono, ma sono due aspetti
dello stesso disagio.” Perché occorre comprendere come la medicina “sia nata ed
evolva attraverso lo scambio reciproco con la stessa cultura in cui si radica”,
e quando questa cultura esalta, anziché problematizzare, un tratto –
probabilmente ineliminabile – dell’animo umano consistente nel rifiuto del
limite, della fine, della morte, accade che si chieda alla medicina quel che
non può dare e che la medicina per parte sua si faccia “soluzione, seduzione,
promessa e illusione”. Ecco allora che nonostante gli indubbi – e qui ricorrentemente
e documentatamente richiamati – progressi della medicina, i malati aumentano.
Com’è
possibile? Per diverse ragioni: in primo
luogo perché “nuove malattie – croniche, soprattutto – si sono affermate per il
solo fatto che viviamo di più”, in secondo per via della medicalizzazione di
stati come l’infelicità e la tristezza – e la vecchiaia stessa? – senza
dimenticare la tendenza crescente a un consumismo di nuovo stampo, quello di
“prestazioni diagnostiche, farmacologiche e di controllo”.
Delineato
così il quadro, non corre il rischio di suonare moraleggiante la domanda di
fondo: “Ha senso posticipare la morte al prezzo di aumentare gli anni in cui ci
sentiamo sotto tiro?” Ha senso negare la verità sostanziale che il titolo
evidenzia richiamando l’affermazione attribuita a Galileo, “simbolo della
resistenza della scienza contro la superstizione”?
Passando
attraverso approfondimenti essenziali (medicina e follia, ruolo esercitato
dalle condizioni economiche e dalle disuguaglianze, fenomeni come la
“resistenza vaccinale”), si giunge alle conclusioni.
È un cambio culturale quello che appare
indispensabile: più della ricerca della soluzione “per morire dopo”, è quella
“per vivere meglio prima” che occorre mettere in primo piano, e
conseguentemente aver di mira “un utilizzo appropriato della medicina, rivolto
non alla negazione ostinata della morte fisica, ma ad agire per preservare il
più possibile” il senso, e la qualità, della vita. E quando la vecchiaia
arriva, non può essere solo la famiglia a provvedere. Occorrono “politiche di
presa in carico organiche, personalizzate, multidisciplinari e continuative, a
prevenire la situazione in cui “l’anziano è tecnicamente assistito ma
moralmente parcheggiato”. Politiche che non renderanno comunque mai superflua
la necessità che il sistema sanitario si ponga delle priorità, stabilendo “chi
curare, che cosa curare e fino a che punto”. Necessità che trova il suo
corrispettivo in quella, pure inderogabile, di “educare non solo alla salute”,
ma anche “al consumo di prestazioni sanitarie”.
Paolo Pagani, I luoghi del pensiero. Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo, Neri Pozza (pp. 368, euro 13,50)
“Non è possibile separare l’esposizione del pensiero di
Wittgenstein dal racconto della sua esistenza”, e questo vale anche per gli
altri autori presi in considerazione da questo “itinerario geografico e mentale
insieme”. Una ricognizione storica, topografica e passionale” che non si limita
tuttavia a schierarsi conto chi – con buona pace di Proust – sottovaluta o nega
addirittura il nesso fra opera e biografia: un nesso altrettanto decisivo è
quello che lega il pensiero e il luogo, “l’ambiente in cui le idee prendono
forma”. Per cui non è un semplice frutto della curiosità “Sapere che cosa si
vede da certe finestre” delle case abitate dall’autore del Tractatus, “capire tutte le case spoglie di Ludwig, i suoi alloggi
di fortuna, le scelte di eremitaggio”; oppure “girovagare tra gli ambienti che
hanno fatto da quinta allo scrivere e al leggere” di Thomas Mann, “per cercare
tracce, in quei luoghi, del suo pensare laico; della storia del suo tempo;
delle sue idee sul futuro; della sua etica e della sua estetica”. “Perché c’è
un’aura in ogni luogo, un linguaggio non detto che si impara ad ascoltare”,
“una forza gravitazionale silenziosa e prepotente” cui non si deve resistere.
Così avviene se si raggiunge la Hütte, la baita nella quale
Heidegger amò abitare per lunghi periodi, e ci si ferma a guardare silenziosi “La
radura placida e gli alberi immobili, lo stesso panorama che Heidegger
osservava scrivendo, che trattengono l’identica energia evocativa, conservata
intatta in una ieratica semplicità per quasi un secolo”: quel rifugio, quelle
“mura domestiche”, “sono parte integrante dell’opera di chi ci ha vissuto”. È
un “legame ontologico” quello che lega il luogo all’opera: “geografia che
mostra a se stessa un pensiero e pensiero allacciato a una zolla geografica;
sfondo materiale di un filosofare che sa custodire e dire un misterioso
sapere”.
Non diversamente, la laboriosa elaborazione della teoria
evoluzionistica sembra rappresentarsi nel “sentiero sabbioso che il re dei
naturalisti usava da mezzogiorno in punto come thinking pad, o percorso personale di meditazione”. “Pensava
camminando”, Charles Darwin, lungo quel “sentiero che correva intorno a un
boschetto che aveva piantato con le sue mani; e sembrava fosse sempre un
percorso lunghissimo, partendo da casa”.
Persino quando il luogo è mutato vale la pena visitarlo: la
casa natale di Spinoza, ad Amsterdam, non c’è più, ma quell’assenza sembra dire
delle peregrinazioni cui la sua famiglia fu costretta come della proscrizione
che colpì lui stesso, che ci appare nel monumento che sorge non distante, “lo
Spinoza di bronzo (che) luccica come un simbolo indiscusso”.
Non solo di luoghi parla tuttavia questo libro: oltre che trattare di “Dove hanno speso le loro esistenze e come”, l’autore si diffonde su che “cosa ci hanno detto, dove giacciono, perché ricordarli”: Spinoza e Cartesio, Leibniz e Newton, Darwin e Marx, Wittgenstein, Heidegger e Arendt, Keynes e Mann. E di molti ci resta memoria, oltre che di un luogo privilegiato, di una cosa che sembra far corpo con il personaggio, dal celebre melo di Newton alla scrivania su cui Mann scrisse, sempre, in tutte e dieci le case che abitò.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Mentre scrivevo il libro, mi pareva di vedere ancora mio padre, e l’atto della scrittura sembrava alleviare il trauma e il dolore per la sua morte. Eppure, quando ho finito il libro, è stato come se non lo avessi mai scritto. Tutto era come prima. Comporre quel ritratto non era servito a niente. Scrivere non è una terapia. (…) Ho scritto quel libro quando avevo metà degli anni che ho adesso, eppure penso ancora di continuo a mio padre”. (Paul Auster)
Paola Baratto, Lascio che l’ombra, Manni 2019 (pp. 125, euro 14)
Dopo aver letto,
a poche pagine dall’inizio, il corsivo che sembra far da controcanto alla
narrazione, corri avanti a verificare se nel testo ne compaiono altri, e vedi
che parecchi dei capitoli sono conclusi da altri, analoghi brani. Scacci la
tentazione di leggerli di seguito, anche se è lì che senti che il libro ti
tocca più da vicino. Non salti dunque da corsivo a corsivo scavalcando le
pagine in tondo, e la tua rinuncia è presto compensata dalla presa che
l’intreccio via via fa su di te. Anche la vicenda di Aris ti riguarda, in
qualche modo: il suo scrivere appartato, il suo non adeguarsi alle logiche del
pensiero unico che governano la comunicazione, senza per questo trincerarsi
nell’identità dello studioso accademicamente affermato ma mantenendo invece la
disponibilità a misurarsi con l’indifferenza e l’incomprensione, la
superficialità sbrigativa della fiera del libro che si anima solo per l’ospite
di sicuro richiamo, la pantomima straniante del talk show spacciato per
dibattito.
La cultura di
Aristide Dal Pozzo, di antropologo del contemporaneo, di sociologo che non
s’accontenta di statistiche, non può bastare a preservarlo dalla frustrazione,
non gli offre strumenti in grado di smontare l’imperativo alla semplificazione
volgare cui ogni discorso sembra ormai doversi ridurre per avere una sia pur
effimera cittadinanza. Ma lui non è uno di quegli scrittori che se la
raccontano – come del resto la narratrice, che si è messa sulle sue tracce dopo
che, tre anni prima, è scomparso all’improvviso senza lasciare traccia. Anche
lei, Giulia Malavasi, testardamente, appassionatamente dedita a quel «mestiere,
già di per sé così vago» che è lo scrivere, e intollerante dei consigli di conoscenti
ben intenzionati: «scrivi, ma per te stessa», oppure «fatti un blog». Il fatto
è che si scrive sempre per gli altri, per «trovare la
propria umanità e il proprio legame con gli altri esseri umani», stando a Paul Auster (e non diversamente si
esprimeva Umberto Eco: «Io non sono uno di quei
cattivi scrittori che dicono di scrivere solo per se stessi. C’è una sola cosa
che si scrive per se stessi, ed è la lista della spesa. E quando hai comperato
le cose che dovevi, puoi distruggerla. (…) Ogni altra cosa che scrivi, la
scrivi per dire qualcosa a qualcuno»). Aris non era certo di diverso parere, e così Giulia.
Ma dove sono finiti, gli altri? Non solo
quelli che amano esclusivamente intrattenere
ed essere intrattenuti, ma anche
coloro che sembrano voler tenere alta la bandiera dell’impegno e dunque nobilmente, sdegnosamente si pongono il
fatidico quesito: «Verrebbe da chiedersi dove sono finiti gli intellettuali». Il
ritaglio di giornale che riportava queste parole, proferite da un ex ministro
della Cultura, è stato, chissà quando, sottolineato da Aris e costellato di
punti esclamativi tracciati con tanta rabbia da aver rotto la carta. Rabbia
contro la protervia di un establishment politico e culturale che gli
intellettuali non li sente e non li vuol sentire, che li dimentica ancor prima
che scompaiano, che ipocritamente rovescia su di loro la propria cattiva – e
ormai esilissima – coscienza, salvo denunciare la voglia di visibilità degli
intellettuali che prendono la parola, o il loro esser costituzionalmente bastian
contrari, anime più o meno belle e comunque fuori dal mondo nel momento in cui non
rinunciano ad assumere pubblicamente le movenze di quello che si chiamava, e
non si può chiamare altrimenti, che pensiero
critico, come quello praticato da Aris. Un pensiero sempre teso,
indipendentemente dal suo oggetto, «a delineare con spiazzante lucidità gli
scenari presenti».
Un intellettuale
del genere, se scompare, lascia un vuoto al quale non ci si può rassegnare,
tanto più se la propria aspirazione è quella di continuare a scrivere, come fa
Giulia, o a studiare per comprendere un passato che, per il fatto di essere
locale, non necessariamente è già in partenza terreno di inevitabili quanto facili
mitologie localiste, il passato che ha appunto coltivato per tutta la vita
l’ormai attempato professor Console.
Sono loro due a
cercarlo ancora, Aris, a spiarne tracce labili, al limite dell’inconsistenza,
nelle pagine da lui frequentate nel periodo precedente la propria sparizione. Tracce
dalle quali sembra emergere un filo di speranza, per quanto paradossale, sostanzialmente
inconciliabile con il solido razionalismo del professore così come con il laico
disincanto della scrittrice, e pure capace non semplicemente di incuriosire, ma
di affascinare. Senonché, ancor prima
dello sguardo pensoso della figura che campeggia nell’incisione di Dürer riportata
sulla copertina di un noto saggio sulla melanconia – l’ultimo libro, forse, nel
quale Aris ha cercato risposte – sono quei corsivi a dire l’irrimediabilità
della situazione nella quale lui si è sentito sprofondare, e insieme la progressiva,
lucida, autodistruttiva adesione alla domanda non detta, ma di fatto rivolta con
perentorietà sprezzante agli intellettuali, di farsi da parte, di tacere.
Meglio: di sparire.
«Giorno dopo
giorno, mi sto perdendo…», lo si è sentito dire dopo la deludente presentazione
di un suo libro. Perché lui, lo scopriamo alla fine – senza sorprendercene,
perché lo sentivamo, in qualche modo – è l’autore di quelle pagine brevi e dense
dalle quali fin dall’inizio ci siamo sentiti raggiunti. Pagine che non
riguardano solo l’intellettuale, si badi, ma chiunque non si rassegni alla
cancellazione tendenziale dell’individualità, della specificità che fa di
ognuno un essere unico, uguale e diverso dagli altri, e come tale capace di
opporre resistenza all’omologazione, di negarsi al «minuetto di banalità» nel
quale siamo immersi, alla chiacchiera assordante dei media come a quella ubiquitaria e pervasiva dei social; di
conservare quel quid che non accetta di
sciogliersi nella dilagante, acefala schiera di figuranti della spettacolare
messinscena planetaria del consumo. Per cui «si preferisce scappare, non
esserci. (…) E ci si nasconde, iniziando così a scomparire», da un presente che
appare sempre più «un luogo inospitale», inevitabilmente fonte di «disarmonie
con chi ci circonda». Del resto, «Non parlare di sé rende invisibili». È così
che «Arriva il momento in cui si fatica a riconoscersi (…) E a poco a poco si
scompare anche ai propri occhi».
Un pamphlet, dunque, sia pure in forma narrativa, quello di Paola Baratto, un generoso, rinnovato Plaidoyer pour les intellectuels di sartriana memoria? No, un romanzo. Un romanzo, che fonda certamente la sua capacità di coinvolgere il lettore sull’originalità della vicenda e la radicalità del giudizio, ma deriva la sua forza persuasiva dalla qualità di una scrittura ricca dell’esperienza dei romanzi pubblicati (otto, prima di questo) e passata negli ultimi anni attraverso il filtro dei brevi, essenziali racconti di Giardini d’inverno e Tra nevi ingenue.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Eric-Emmanuel Schmitt, La vendetta del perdono, edizioni e/o 2018 (pp. 253, euro 18)
Il piacere di leggere, quello che abbiamo conosciuto
da bambini, appena abbiamo cominciato a saperlo fare; ma soprattutto dopo, da
adolescenti, quando poveri di riferimenti e liberi dall’obbligo di giudicare,
ci affidavamo solo a quello. Al piacere di passare da una pagina all’altra
trascinati da quella forza indefinibile che parole e avvenimenti sanno intrecciare
in una trama che coinvolge e diverte, commuove e, perché no, rappresenta in una
storia i lati migliori degli umani.
Tutto qui: Schmitt sa coltivare questo piacere. Nello scriverli questi racconti, innanzitutto, lo si intuisce. Sembra lì a leggere con noi la vicenda delle due gemelle, Caino e Abele al femminile (con finale a sorpresa), o la storia eterna del conflitto fra amore assoluto e razionalità cinica in Madamina Butterfly; così come lo vediamo rendere l’originale omaggio a Saint-Exupéry del quarto racconto, ma soprattutto mantenere la coerenza, ferrea senza perdere in un’umanità, della protagonista del terzo, che dà il titolo alla raccolta.
Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere, Einaudi 2018 (pp. 195, euro 17,50 )
“Concepire racconti dove il piano della realtà si confonde
con quello della finzione è un gioco molto rischioso”, osserva l’autore, ammettendo
che si tratta di “un pericolo che conosc(e) fin troppo bene”. Ma, del resto,
attenersi ai fatti non è una soluzione, perché “quando indaghiamo un fatto lo
troviamo già aggiustato” e “a noi non resta che fare i conti con qualcosa già
diventato memoria, verità plasmata, aggiustata”. Il che non impedisce, anzi:
comporta necessariamente, che l’autore si comprometta con ciò che vorrebbe
narrare: “Il problema – tuttavia – non è la compromissione in sé, che è
inevitabile e per molti versi irrinunciabile e fruttuosa. Il problema sono la
natura e il livello di questa compromissione, ovvero se siamo in grado di
gestirla, di evitare che ci travolga e che prevalga in noi lo spirito di
vendetta”, dal momento che “qualunque racconto implica anche un intento
vendicativo di qualche tipo o almeno risarcitorio.” Di qui, la “maledizione di
dover raccontare”, una maledizione che non colpisce solo l’autore o, più in
generale, gli scrittori, ma ha assunto il carattere di una malattia epidemica,
la “malattia del nostro tempo: tutto viene convertito in racconto o
comunque pensato in termini narrativi, anche fuori dalla letteratura (…). Nel
parlare corrente narrazione è
diventato ormai sinonimo di dire.”
La riflessione sulla scrittura, su quella romanzesca in
particolare, percorre il racconto che, nonostante la dichiarata consapevolezza
della rischiosità del gioco della finzione sembra davvero travolgere l’autore. E non importa quanto lui ne sembri
soddisfatto. La messa in scena dell’autore da parte dell’autore stesso, il fare
del gioco della scrittura l’oggetto della scrittura stessa non sono di per sé
stucchevoli, ma forse occorre aver la leggerezza,
il sorvegliatissimo senso della misura del calviniano viaggiatore di una notte
d’inverno… La leggerezza e la misura
necessarie per farsi seguire dal lettore, per contagiarlo del piacere che
l’esperimento offre allo scrittore, e non ci sono scorciatoie in questo: non basta,
all’inizio di un nuovo capitolo, a metà del romanzo, avvertire chi legge che “Semmai
non fosse ancora evidente, la voce di questo libro non è più la stessa”, e di
affiancare al personaggio alter ego dell’autore l’autore stesso intrecciandone
vicenda e discorsi con la storia di Michelangelo Merisi. Nulla da obiettare alla
forma del romanzo-saggio, ma qui il romanzo e il saggio sembra, soprattutto
nell’ultima parte, che se ne vadano ognuno per la sua strada, proponendo una
giustapposizione più che un intreccio, un continuo cambio di registro più che
una commistione suggestiva dei piani del discorso. È il postmoderno, bellezza,
qualcuno potrebbe obiettare – Tommaso Pincio è pseudonimo ricalcato, non a
caso, sul nome di uno degli alfieri del postmoderno, Thomas Pinchon –, ma la
constatazione sarebbe lontana dal richiamare motivi di un piacere della lettura
che fosse prima sfuggito.
Eppure.
Eppure, arrivato alla fine del romanzo, alcuni tratti dei personaggi restano in mente: dalla malinconia, il cui marchio si riassume nello scoprirsi sempre, fatalmente, spettatori di se stessi, alla connessa mancanza del “dono di saper vivere”, del non sapersi muovere nella vita come pesci nell’acqua, tendendo invece a osservarsi, senza mai coincidere con la vita. La vita. La vita e la sua “architettura” che “si fonda sulle attese”: “Il sipario si alza sui beati anni in cui ti balocchi con quel che farai da grande. Poi, a questa prima e dolcemente tragica fase – perché non c’è infanzia, credo, che non riveli in sé un che di tragico – subentra la seconda, in cui, non più bambino ma comunque giovane, non smetti di crogiolarti, convinto che il meglio debba ancora venire. Infine (…) la fase nella quale, scoperto che il momento in cui diventare grandi è trascorso da un pezzo e non si ha più niente da attendere, si depongono le armi e l’eventualità della morte appare non dico gradita ma almeno una crudeltà non così priva di giustificazioni”. Passaggio come questo non riscattano forse l’intero romanzo, ma impediscono di abbandonarne la lettura, e la perseveranza è premiata con altre pagine che viene voglia di trascrivere, come quella sul “tempo in cui viviamo”, cui si attribuisce “la semplice forma di una linea retta lungo la quale lo scorrere degli attimi si muove senza inversioni o tentennamenti in un’unica direzione, dal passato verso il futuro”, con la conseguenza che “la forma del presente sarà sempre un punto, una circonferenza di colore nero e dimensioni astratte, un pallino ideale e assoluto simile a quelli che poniamo al termine di ogni frase. È mai possibile?, dico io. Una dimensione misteriosissima qual è il tempo ridotta a una sequela di insulsi pallini che procedono in fila come stupidi indiani?” No, non è, non può essere così: “il tempo, questo sconosciuto” è una y. “Ogni attimo, ogni singolo istante della vostra esistenza ha questa forma, che è poi la forma di un bivio, di una via che si divide in due (…). Uno dei due bracci, non importa quale, tende al buio, a ciò che in un dato momento non è. L’altro conduce (…) dove lo stesso momento di cui sopra si distende per rischiararsi di luce propria, illuminandosi per quel che è, per come accade. (…) Una cosa o accade o non accade. Unite l’accadimento e il suo contrario all’incertezza che li precede e avrete i tre segmenti di cui è composto ogni singolo attimo. Il tempo non è che l’eterno perpetuarsi di un bivio; unite gli attimi di cui è composta la vita di una persona e avrete la forma del suo destino, una specie di filo che varierà da individuo a individuo, secondo le infinite possibilità dell’esistere, ma che manterrà l’aspetto di un filo spinato, là dove per spine devono intendersi le deviazioni non prese, le possibilità abortite, ciò che poteva essere e non è stato”.
“La storia è un divenire progressivo fatto di piccoli slittamenti, di presagi minimi prima di diventare destini collettivi, e più sono piccoli più occorre saperli intercettare e raccontare. Per questo si scrivono i romanzi: perché tutti, nessuno escluso, possano leggere delle piccole o grandi storie di cui è fatta la storia e si sentano meno soli nel secolo che è loro toccato in sorte”. (Dario Olivero)
Silvio Perrella, Io ho paura, Neri Pozza 2018 (pp. 124, euro 15)
“Una collezione di pensieri raccontati”. O anche: “uno Zibaldone di paure”, il “diario di un mese trascorso in un luogo di paure naturali”. L’autore stesso tenta ripetutamente di definire il libro che sta scrivendo, che ha scritto: ha promesso all’editore un libro sulla paura, sulle paure anzi, e per farlo è andato in un luogo di mare dove sopravvivono, appunto, “paure naturali”, quelle che un oggetto ce l’hanno, un oggetto che si può nominare, e che quindi i pescatori del posto non dimenticano ma sanno “celebrare com’è giusto che sia”. Non negare, non rimuovere. Anzi: le paure fan parte della vita, se la vita non è stata privata dell’invisibile. Dove tutto pretende di essere visibile, invece, e si dice che non si più paura, di niente, le paure dilagano, distruggono le relazioni, ci rendono soli, e sudditi. Sono le paure che non hanno nome, solo un acronimo se mai (AIDS, ISIS) e quando un nome parrebbero averlo è come non l’avessero: Migranti non evoca persone, ma solo un pericolo. Una paura appunto, una di quelle “fabbricate”. Perché la paura si può fabbricare su scala industriale: “Non c’è oggi fabbrica più fiorente”. Non occorre pensare a un maligno Grande Fratello: basta considerare che le paure, nate da fonti diverse e scoordinate, alla fine “tendono a fare sistema”, e a insinuare un’inquietudine incomunicabile. Qualcosa di indefinibile che “Sta a cuore a io e sta a cuore a tu. Ma non riusciamo a farlo stare a cuore a noi.”
Il luogo, fra nuotate e racconti dei locali, fa emergere “il tempo dell’oggi” nella sua insensatezza fatta di paure. Paure contro le quali occorrerebbe “una presa d’atto delle nostre ignoranze”, terreno fertile dei fabbricanti di paure: occorrerebbe “una messa in comune di quel che non sappiamo, e un tentativo di costruire conoscenze condivise. I tempi del mondo sono così tanti, anche in epoca di cosiddetta globalizzazione, e sarebbe importante fare studi di polifonia. Oggi bisognerebbe diffondere Bach; fare ascoltare le sue fughe, quel modo di intrecciare le voci mettendole in rapporto. Senza che l’una debba prevalere sull’altra.” Un romanzo? Un saggio? Un libro senza una forma precisa: come le paure di cui vuole parlare.
“Lo scrittore è un uomo che non inventa niente, è soltanto uno che guarda meglio e sente di più”. (Andrea Vitali)
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