Per una parola “suscitatrice” di angoscia

Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi 2021 (pp. 138, euro 12)

Dopo la lettura del pamphlet di Franzen e il suo invito a smetterla di fingere che sia possibile fermare la crisi climatica (ne parliamo qui), viene naturale assegnare un posto specifico a ogni lettura sull’argomento – su questo che non è un argomento fra gli altri – a seconda che ammetta ancora questa possibilità o la ritenga tramontata.

Il discorso di Benedetti pare ammetterla (“siamo ancora in tempo”, la “catastrofe terribile che si annuncia potrebbe ancora essere evitata se gli uomini mutassero il loro comportamento”), e tuttavia non suona affatto incline alla sottovalutazione del problema o a prospettarne una soluzione per via esclusivamente tecnologica. Un discorso connotato da una sua radicalità, nella sostanza: “non era mai successo prima d’ora che la violenza genocida si esercitasse sui viventi di domani. Questa è in assoluto la novità più disumana del nostro tempo, che rende ancor più atroce e intollerabile l’inerzia di oggi”. La nostra “capacità empatica” non sembra capace di “estendersi oltre i viventi di oggi, o non è abituata a farlo”. Forse perché “il nostro cervello (…) è programmato per reagire solo a minacce immediate, oppure legate ad azioni immorali” ma, appunto, non riusciamo a inquadrare facilmente nell’uno o nell’altro di questi campi le minacce ambientali. Le frequenti denunce, ricche di dati e al momento in cui le leggiamo impressionanti, non sedimentano un atteggiamento che duri e soprattutto si traduca in atti concreti.  È il credere ma continuare ad agire, a vivere, come non si credesse: è questo che avviene e l’abbiamo letto ormai più di una volta, ma neanche questa consapevolezza pare in grado di determinare conseguenze tangibili. Perché? Perché sono le strutture stesse del nostro modo di pensare a mantenerci in questa bolla di oggettiva indifferenza e, come leggiamo nell’esergo del libro, “non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”. La frase, attribuita ad Einstein, è alla base di prese di posizione che vanno dal fisico Rovelli (secondo il quale occorre “ripensare la grammatica della nostra comprensione del mondo”) all’antropologo e filosofo Latour, che ci ricorda che “la terra è un pianeta vivente”, e dunque reagisce alle perturbazioni finché può, avendo, come ogni vivente, dei limiti. 

Le opere di molti degli autori citati da Benedetti compaiono in queste note di lettura e i rimandi ad esse sarebbero troppi. Quello ad Amitav Ghosh è però inevitabile, essendo di fatto, il suo libro (ne parliamo qui), un riferimento ormai essenziale per chiunque rifletta sulla nostra (assenza di) risposta alla crisi climatica. Anche per l’autrice, tanto più trattandosi di un’insegnante di letteratura, che dunque pratica il medesimo territorio sul quale si muove lo scrittore indiano. Ecco dunque, poco oltre la metà del saggio, affiorare la convinzione di Ghosh: “Per il moderno romanzo realista occidentale – e per il cinema e le serie televisive, possiamo aggiungere: per il nostro immaginario, insomma – i fenomeni legati al cambiamento climatico rappresentano l’impensabile”. Il quotidiano che ci viene raccontato, per quanto violento e terrificante possa essere, ha messo al bando l’imprevedibile, ciò che non appartiene già, in qualche modo, all’esperienza umana. Come la catastrofe climatica, appunto. Una catastrofe che non si limita al dato di fatto: “ È enorme la cosa che sta accadendo, ma lo è anche ciò che non sta accadendo”, ossia una nostra effettiva, reale, fattiva presa di coscienza: non mancano narrazioni che vorrebbero smuoverci – come quella di Bruno Arpaia (ne parliamo qui) -, ma “fanno leva su un solo sentimento, lo spavento per la catastrofe che ci aspetta”,  un sentimento che può tradursi in “paralisi”, quale che sia la forma da essa assunta, dal fatalismo al senso di impotenza. Senonché “non è la consapevolezza della possibile catastrofe che ci manca, ma la forza di uscire – appunto – dalla paralisi che l’attuale stato delle cose genera”.

Ed ecco il punto: l’unica via è “accendere l’immaginazione”, “lavorare anche sul sentimento”. E dunque rivolgersi alla letteratura, una letteratura non separata dalla filosofia, com’era nelle “grandi opere del passato” e anche, talvolta, nelle opere prodotte da culture diverse da quella occidentale.  È un “cantiere umanistico dell’Antropocene” quello di cui abbiamo bisogno almeno quanto abbiamo bisogno della scienza.

Di qui, il discorso si apre a quello di autori come Günther Anders, con il suo illuminate apologo di Noè e del suo tentativo di persuadere gli uomini della minaccia incombente, e più in generale rimanda agli scrittori che hanno saputo e sanno esprimere una “parola profetica” non puramente “assertiva”, capace cioè solo di “annunciare” la catastrofe, ma di risultare “suscitatrice” di “forze sepolte” eppure ancora vive, e in grado di farci allargare l’orizzonte al “tempo profondo” e al “non umano”, a tutto quello che il nostro modo di pensare ha di fatto rimosso, rendendosi incapace di concepire ciò che ormai è nella realtà: una fine “che non prelude più a nessun riscatto”. E a chi riferirsi per trovare esempi di una parola “suscitatrice” di un’angoscia che non si risolva in paralisi? A Pasolini, sostiene Benedetti, alla “tonalità sentimentale della sua profezia”, aliena dall’algida lucidità di un Adorno, oppure, oggi, a scrittori che sanno rompere la gabbia creata dalla “fabbricazione di quei punti ciechi del sapere grazie ai quali sono stati resi invisibili i guasti provocati dalla modernità”. Antonio Moresco, fra questi, che nel Grido, soprattutto, “prende di petto quella cosa enorme che incombe sopra di noi”. Così come sembrano capaci di fare i giovani, i “giovanissimi” anzi, portatori di una cultura veggente “conto la parte accecata e accecante che tende a rimuovere l’emergenza”; ancora non disposti ad accettare “quel tipo di contraddizione, tra il sapere e l’agire” con cui invece gli adulti si sono abituati a convivere, refrattari alla “retorica ottimistica degli accelerazionisti [per i quali il cambiamento potrà venire non dal contrastare ma dal portare all’eccesso i processi innescati dal capitalismo], degli ecomodernisti, della bioingegneria e dell’ingegneria del clima”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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