Biglietti di andata (incipit)

La Brescia stralunata e convulsa di Giovanni Locatelli nell’incipit di Biglietti di andata, il romanzo cui sta tuttora lavorando.

Alcide si fuma una sigaretta al freddo,

tenendo le braccia, grandi come condotti dell’acqua, incrociate sul petto e le mani sotto le ascelle. C’è un motivo losco e di contrabbando, un motivo made in China, se è arrivato alle 6 del mattino per aprire i cancelli, solo che Alcide maschera la sua preoccupazione con tutt’altri pensieri. Sono quasi le 8, ma del camion manco l’ombra, pensa. Telefonare è inutile, i rumeni non hanno nessuna cognizione della loro posizione, “cinque minuti arrivo!” dicono solo, poi passano due ore oppure sono già al cancello che strombazzano per entrare senza chiedere permesso.

TOOO TOOO

«Amico! Ehi capo!»

Una faccia rotonda e abbronzata spunta insieme a un braccio tatuato da un finestrino a due metri di altezza. Non dovrebbe fumare visto il materiale che trasporta, ma lui lo fa uguale. Si vive una volta sola, pensa Rudian, l’autista. Sono dieci ore che guido e una bella tzigarra me la merito di sicuro.

Il bilico con i pannelli isolanti è finalmente arrivato. È termaflon cinese, costa la metà del normale poliuretano espanso, spedizione inclusa. Dopo un anno è già in briciole, adagiato sul fondo delle pareti della furgonatura, ma chi se ne accorge? Chi fa un incidente e apre in due la cella frigo ha ben altri pensieri che l’isolante.

Alcide fa cenno al camionista di andare da quella parte, allargarsi a sinistra e tornare in retromarcia raddrizzandosi fino a centrare il dock di scarico. Tutto a gesti e orchi zii che il rumeno comprende alla perfezione.

Se arrivavi alle 6, canchero, ’ste manovre le facevi senza gente fra i piedi, insiste Alcide, mascherando la verità: dicono che sia nocivo, il termaflon. Non quanto l’eternit, ma quasi. Proprio per via del suo ostinato ridursi in una polvere che prima o poi ti entra nei polmoni e te lo mette in culo.

«Alcide! Ti cercano al telefono!»

È Mantovani, il suo socio di minoranza, a richiamarlo in ufficio.

Mai che prenda lui una telefonata quel pirla. Avrà ben visto che sono impegnato!

«Infila l’apertura, fermati e spegni il motore. Non scendere e non scaricare il materiale. Capìt?»

Alcide si decide a spostare i suoi centodieci chili in direzione dell’ufficio, stramaledicendo un mondo così cocciutamente deciso a non farsi sottomettere, scavalcando detriti metallici, rottami, sfridi e semilavorati abbandonati a metà trattamento che riempiono il cortile e dei quali lui non si accorge più.

Quando sente il botto nemmeno si volta, se lo sentiva, lo sapeva che sarebbe successo. Chissà perché lo percepisce appena sveglio che qualcosa andrà storto: sente un prurito nella pancia, dentro, dove non si può grattare, fra duodeno e pancreas. Sa già tutto al punto che tira dritto e va a rispondere al telefono.

«Cosa c’è?» dice senza salutare, senza ascoltare ciò che gli riferiscono all’altro capo, standosene lì, affacciato alla finestra con la cornetta in mano, a guardare le operazioni di soccorso necessarie per estrarre un ragazzo privo di sensi dal carrello elevatore con cui si è schiantato contro il camion in retromarcia.

«Chi è il coglione che guidava il muletto in quel modo?» sbraita dalla finestra spalancata, a telefonata in corso.

Era Maicol Pedrabissi al volante: perito industriale, buyer, magazziniere, pupillo di Alcide e factotum. L’unico che ci capisce qualcosa qui dentro, porca puttana! Non poteva capitare a un altro? Ce n’è di gente che non fa un accidente… era l’occasione per togliermela dalle palle! pensa Alcide prima di tornare a sgolarsi.

«State fermi! Non toccate niente, diavolo porco!»

L’ambulanza arriva in venti minuti. Due infermieri scendono dal portellone e subito sentono polso e fiato a Maicol, ancora a terra privo di sensi. Si guardano intorno per capire la dinamica dell’incidente. Le facce che vedono non promettono nulla di buono. Non caveranno una risposta neanche col forcipe da quelle espressioni sconcertate.

«Perché l’avete spostato?» dice l’infermiere senior.

«Era incastrato nel muletto», bofonchia Alcide, a disagio, poi si gira a guardare gli altri con un’espressione di rimprovero. Siete stati voi a farla questa cazzata!

«Potreste aver provocato danni irreparabili, ve ne rendete conto?» rincara la dose l’infermiere junior.

«Dovevamo lasciarlo lì? Voi non arrivavate mai!» attacca Alcide e fa per avvicinarsi, ma si trova di fronte il guidatore dell’ambulanza, un uomo corpulento quanto lui, ma quindici anni più giovane, che fa da bodyguard agli infermieri, in caso di necessità.

«Premesso che ci avete chiamati alle 8 punto 06», dice l’autista con voce impostata, «sono passati solo 18 minuti. La nostra media di intervento si attesta attorno ai 22 minuti, quindi siamo arrivati con abbondante anticipo».

L’armadio a due ante occulta la vista ad Alcide che vorrebbe controllare le manovre con cui gli infermieri stanno caricando Maicol sulla spinale e da lì sulla barella. L’incarico gli riesce a dovere, ma nemmeno la sua stazza può impedire, chiuse le porte, che tutti si accorgano della fiancata dell’ambulanza pesantemente ammaccata.

«Dove lo portate?»

«Al Civile, che domanda», dice l’uomo rimettendosi alla guida. L’autolettiga parte a sirene spiegate, mancando per un soffio il cancello d’ingresso, aperto il minimo indispensabile perché c’è un punto in cui l’ingranaggio esce dalla cremagliera che nessuno si decide a riparare.

«È troppo lontano il Civile, santo Dio! Ci arrivate che è morto!» sbraita Alcide intercalando parecchie combinazioni di cane-zio-maiale e girandosi alla ricerca di consensi.

Brescia accoglie chi arriva da sud con la ciminiera del termovalorizzatore, una torre di 120 metri non bella, ma rivestita con pannelli cangianti azzurro cielo dagli illustri natali: Jorrit Tornquist, artista che ha applicato le sue teorie cromatiche anche sulle villette a schiera del Villaggio Violino e sui rivestimenti della galleria Tito Speri che collega downtown alla periferia nord. Ma le nuance della polis non si fermano qui: il cavalcavia dove l’A21 incrocia la bretella per Munticiàr è giallo e verde, i pannelli della Alfa Acciai che si incontrano in autostrada sono rosa, verdi e azzurri e le colonnine per il ticket dei parcheggi hanno una tinta violacea sconosciuta negli altri capoluoghi di provincia. Forse sono tutti ’sti colori che impediscono alla gente di accorgersi delle sirene di un’ambulanza, pensa Alberto, l’autista, incurante della bella sinestesia che ha coniato. Guardali, nessuno accosta nessuno si ferma, regna l’indifferenza, anzi avere i lampeggianti al culo diventa un ottimo pretesto per accelerare, commettere infrazioni. E se glielo chiedi, ti diranno che è la maniera migliore per non intralciare la corsa dell’autolettiga!

Alberto si fa via Labirinto e poi via Corsica con una colonna di auto davanti a sé, impugnando il volante come fossero le redini di una slitta trainata dai cani, sentendosi un po’ Jack London un po’ Santa Claus. Purtroppo, il primo semaforo rompe il gioco perché persino i cani, quando guidano, si fermano col rosso.

«Lo sapevo che sarebbe successo! Tenetevi forte!» avverte Alberto, rivolgendosi a quelli della crew. Si fa un plateale segno della croce e si butta in mezzo. È la certezza di essere brutalmente speronati, e non il doveroso atto di civiltà, a far spostare a destra la colonna di macchine. Ma solo quel tanto che basta, non sia mai, branco di caproni! Dovreste inchinarvi al nostro passaggio, noblesse oblige, invece di stare in mezzo alle palle!

«Qui non è meglio se vai a sinistra?» se ne esce il suo secondo che sta armeggiando con la radio trasmittente dalla partenza.

«Vuoi che non sappia dov’è l’ospedale? Tu servi all’andata, quando si deve recuperare il paziente, non al ritorno».

«Dicevo perché dritto è pieno di semafori».

«Sì, ma a sinistra non si va al Civile. Conosco anch’io strade più scorrevoli di questa, ma non tutte portano a Roma».

Fatto sta che alla prima occasione Alberto svolta a sinistra. E trova addirittura più traffico.

«E adesso, che facciamo?» chiede Mantovani, incerto.

«Mettete a posto questo casino! Fate le foto al muletto e toglietelo di mezzo. Portate via i rottami dal cortile. Palmiro, fai dare una ripulita all’officina e in magazzino, già che ci sei. Nascondete il più possibile!» Si rivolge al capofficina, Alcide, ma guarda dritto Mantovani, quasi fosse responsabile dell’incidente. «E tu manda tutti a casa, finiti i lavori. Oggi si chiude. Io vado all’INPS. Qui salta fuori un macello».

Mantovani è sorpreso, ma non vuole darlo a vedere. Come se gli altri non fossero stati presenti fino a quel momento, si gira e ripete esattamente le parole del capo, ma al rallenty e con parecchie omissioni: «Mettete… casino. Fate le foto… di mezzo. Portate… i rottami… a Palmiro. Poi nascondetevi… a casa».

Gli operai aspettano nuovi ordini, o un chiarimento ulteriore. Passano i secondi, nessuno si muove, Mantovani sbotta.

«Avete sentito? Sbrigatevi!»

Gli uomini si mettono al lavoro mentre le donne: la Giusi, la segretaria di Alcide, Camilla e Viviana, le due ragazze del back office, rimangono ferme in mezzo al cortile, lo sguardo perso, in silenzio. Sembrano tre Marie che hanno appena perso il loro Gesù, staccato dalla croce e portato al sepolcro in ambulanza. Non hanno nulla da fare, i rottami vanno spostati coi muletti e l’officina è off limits per le donne: sono gli uomini a maneggiare le scope in quel mondo maschio e tecnologico. Potrebbero tornare in ufficio e rispondere alle telefonate, ma non riescono a spostarsi dal luogo dell’incidente. Restano lì nel cortile, sotto la pioggia di fine aprile che nel frattempo ha cominciato a scendere, impassibili.

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