Preferirei di no

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Una pellicola che si riavvolgeva, un film visto a ritroso: la strada per l’ospedale, osservata dal finestrino posteriore di un’ambulanza; seduta alla testa del paziente, lo sguardo incautamente rivolto all’indietro: sembrava un percorso rivisto dal traguardo, una storia letta dall’epilogo, una vita dall’odore di violetta e naftalina.
In emergenza, anche quando il mezzo sfrecciava contromano, su e giù per marciapiedi a velocità proibitive, lo stomaco non faceva una piega, ed era pur sempre lo stesso stomaco che al minimo ondeggiare abitualmente si rivoltava su se stesso. Sarà che nell’urgenza non c’è tempo per pensare ai propri organi traditori e il cervello è arrampicato su altri dirupi. Certo è che, assisa su un seggiolino instabile, abbarbicata ad un monitor, poteva permettersi di guardare indietro, veder sfrecciare sull’asfalto la linea bianca interrotta, come più volte la traccia dei suoi anni e poi ripresa con un balzo e ancora tenuta fra indice e pollice come filo sottile.
La pressione arteriosa reggeva, poteva stare tranquilla e continuare a sbirciare la sua vita srotolata dall’ultima pagina che si palesava dal finestrino.
L’emicrania bussava alle tempie, un ritmo pulsante, un dolore che sopportava da decenni, ma che negli ultimi anni scardinava quasi tutti i giorni, insensibile ormai ai farmaci per bocca, la obbligava sempre più spesso a ricorrere alle vene, senza trascurare il cortisone.
Non era sano, ancora una volta la sua vita aveva preso una piega nociva e sulfurea. Serviva un colpo di reni, un atto di coraggio per mollare la presa.
La saturazione dell’ossigeno superava il novantacinque per cento e la sua adrenalina sonnecchiava nell’angolo, pronta a ringhiare alla minima deflessione del valore percentuale. Lo sguardo scattava dal monitor al viso del paziente. Ora sfiorava i caschetti appesi al portellone da utilizzare in caso di pericolo, lo zaino intubazione, la borsa farmaci. Tutto era al suo posto, a tiro di braccia. Tutto quello che riempiva l’angusto spazio di un vano ambulanza, raggrumava la sua esistenza degli ultimi anni, tutta la sua storia recente, condensata in oggetti di soccorso, barelle, bombole d’ossigeno. Questo era ciò che doveva risolversi a lasciare, dopo l’addio urticante al bisturi, l’età lo imponeva ormai e la cefalea era lì pronta a scrivere il grafico di un corpo stanco, prostrato, che aveva fatto il suo tempo e che chiedeva respiro.
Era tempo di sciogliere le vele.
Bisognava assecondarla almeno questa volta, la vecchia carcassa, smettere di farla gemere, coricarla al bordo della carreggiata e lasciarla rallentare. Anche le resistenze della volontà si stavano sfilacciando, fiaccate da un dolore opprimente, onnipresente, che smembrava i giorni e ne faceva spazzatura. Tirava il vento della sottomissione e della resa.
Desiderava girare pagina, non solo rallentare la danza, ma ballare proprio un’altra danza. Non capiva ancora quale, certo non più questa. La fatica non stava tanto nell’emergenza, che pure non era una passeggiata, ma nella burocrazia che si mangiava la clinica, nel monitor di un computer che si frapponeva fra medico e paziente e nel tempo per l’ascolto che era divorato dai dati. Era bastata l’adozione di un nuovo programma informatico in pronto soccorso per appesantire vertiginosamente il lavoro e per scatenarle bordate di cefalea incontrollabili.
Aveva sempre visitato scrivendo poco, ascoltando e parlando tanto, mettendo le mani addosso ai pazienti per sentire cose che ora erano delegate solo a sonde ecografiche, gettando alle ortiche il sapere delle mani. Moncherini ai polsi e abuso di indagini diagnostiche.
E più si accertava, più si doveva accertare e documentare di averlo fatto, annotando il perché e il per come e, ovviamente l’ora e il minuto in cui si era deciso di farlo, l’ora e il minuto in cui si era materialmente fatto, l’ora e il minuto in cui si era ottenuto un referto. In questo delirio le parole dei pazienti si riducevano a monologhi consegnati a medici-automi ossessionati dal prendere nota pigiando compulsivamente sulla tastiera. Con gli occhi incollati al monitor, si agognavano pazienti disartrici o addirittura afasici per avere il tempo di sedare la voracità del computer.

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