crick-crack

Una foglia. Un’altra. L’acero di fronte alla finestra si stava spogliando. Lui riusciva ad osservarlo grazie alla luce di un lampione che metteva in risalto anche il buio della notte alle spalle, la foschia che risaliva dal fiume e il colorito spento delle foglie rimaste. La settimana prima, l’albero aveva ancora quella tinta rossa e arancio che sembrava incendiarlo, ma ormai il fuoco era spento e i rami erano coperti da un fogliame grigio cenere. Altre due foglie intanto si erano staccate e precipitavano al suolo. Peccato, pensò il giovane che aveva abbandonato volentieri l’estate, pativa il caldo per via del sudore, conseguenza della ciccia sui fianchi, sulle gambe, sul culo e sul collo, ma non aveva voglia di inverno: la pioggia, la nebbia e il grigio lo mettevano di cattivo umore. L’autunno era la sua stagione preferita: bei colori, giornate magnifiche, temperature miti…

“A cosa pensi?”
“Come?”
“Dove sei con la testa? Ti sento distante…”
“Ma se sono qui dentro di te!”
“Ma pensi ad altro…”
“Solo perché mi sono preso un minuto di riposo…”

La ragazza, i minuti di riposo durante il sesso, non li sopportava, ma i loro rapporti si limitavano quasi solo a quelli. Lui non aveva fuoco, non aveva nervo, e poi andava sempre convinto e non solo spettava a lei l’iniziativa, ma pure gran parte del movimento e ugualmente lui si stancava subito. Non l’avrebbe mai detto, ma quel marcantonio a letto era un inetto.

Il giovane percepiva l’astio di lei, ma non poteva farci niente: anche quella sera aveva mangiato troppo, era oppresso da un peso sullo stomaco, e non si trattava solo della ragazza che aveva deciso di mettersi sopra, si era proprio abbuffato come un cinghiale: la mattina dopo, già lo sapeva, avrebbe dovuto mettere le pastiglie di maalox nello yogurt, al posto dei cereali, per far passare il reflusso. E chissà cosa si sarebbe inventata lei per occupare il giorno di riposo. Sicuramente qualcosa di stancante: un tour in qualche città, una visita guidata al museo, come minimo una gita in barca. Lui avrebbe preferito passare la domenica in riva al fiume, cercando di addestrare Canadà, il labrador, a riportagli le birre gelate, lasciate in una rete legata a un tronco, magari a fronte del lancio di un sasso, meglio ancora se fosse riuscito a insegnargli a portare in fresca una birra calda e a riportarne una pronta da stappare, ma forse questo era chiedere troppo.

“Prendimi i fianchi… Stringi di più… Sei un metro e novanta, pesi cento chili… potresti farmi volare…”
“Ma è così bello restare appiccicati, sentire il tuo corpo addosso al mio… immobili, senza fatica, senza sudare…”
“Scopi come un cinquantenne!”
“Vuoi dire che ho un approccio zen al sesso…”
“Mio caro monaco buddista, vorresti farmi raggiungere il nirvana, una volta tanto?”

Il paradiso può attendere, stava quasi per rispondere il giovane, ma si trattenne: lei non meritava il suo sarcasmo, le sue pretese erano legittime, era lui in torto. Non sapeva spiegarsi il perché: aveva fatto di tutto per mettersi con la più attraente, la più desiderata ragazza della facoltà e quando c’era riuscito, mix di avvenenza fisica, fortuna, senso dell’umorismo e una quantità smodata di regali, si era reso conto che non desiderava il suo corpo. Gli piaceva essere visto in giro con lei – erano una bella coppia, lui così alto e moro, lei minuta e biondissima – ma niente più. Non solo non desiderava il suo corpo, ne aveva per certi versi ribrezzo. Quelle parti molli e umide, animate da una vitalità famelica e bestiale, gli ricordavano i molluschi, l’unico cibo che non sopportava, i molluschi e i muscoli, esseri misteriosi, incomprensibili, alieni, perfino…

Per fortuna che è grosso, pensava la ragazza e lui in effetti era talmente muscoloso e… grosso che poteva vivere di rendita. La riempiva completamente, non c’era altro modo per dirlo, la riempiva completamente e un minimo movimento era sufficiente a darle i brividi. E prima o poi lui avrebbe raggiunto l’orgasmo e lei avrebbe goduto gli spasmi violenti dei suoi lombi. La spinta ricevuta da quell’enorme massa di carne l’avrebbe fatta sobbalzare come sul tagadà, la giostra che da bambina le piaceva così tanto o come sul toro meccanico che aveva provato una volta negli Stati Uniti, trovandolo molto eccitante… su e giù, su e giù… per questo amava stare sopra, le piaceva saltare e sentirsi libera… su e giù, su e giù… stava sopra da alcuni minuti e ne valeva la pena, cazzo se ne valeva la pena, valeva lo sforzo fatto al cento per cento, finalmente il suo bel manzo si era deciso a farla volare su, su, su… e lei se la stava godendo, doveva godersela finché durava l’ascesa per poi lasciarsi andare…

Quando la ragazza scivolò al suo fianco con un sospiro, il giovane pensò è fatta e dopo pochi minuti si rese conto che lei si stava addormentando dai rapidi movimenti delle gambe e delle braccia che sempre la prendevano nelle primissime fasi del sonno. Lui ci avrebbe messo ancora parecchio a perdere conoscenza. Attese, voleva essere sicuro che lei stesse dormendo profondamente, poi di nascosto, allungando solo un braccio, rovistò nel cassetto del comodino alla ricerca di una caramella, ne trovò una, la scartò senza fare rumore e se la mise in bocca per poi ficcare la carta nella federa del cuscino. Ora gli sarebbe bastato muovere un poco la testa per sentirne il fruscio. Se lei se ne fosse accorta, l’avrebbe definitivamente preso per matto, ma lui non poteva resistere alla tentazione: gli piaceva troppo il rumore della carta, così simile a quello delle foglie secche per strada, crick-crack, che bello quando da bambino poteva passare il pomeriggio a calpestarle, crick-crack, e a saltarci sopra e a buttarle in aria… l’indomani, con la scusa di raccogliere quelle cadute dall’acero, avrebbe potuto giocarci un po’, magari insieme a Canadà, per non destare sospetti, in effetti…

Come un topolino a molla

Daniele Zito, Robledo, Fazi, 2017 (pp. 368, euro 17)

Robledo, di Daniele Zito, è un romanzo a tratti distopico, a tratti surrealistico, ma che per la maggior parte delle pagine parla di una cattività vera, concreta, quella del disoccupato, prigioniero del mondo del lavoro che l’ha espulso. Non si tratta di un lavoro che nobilita l’uomo, quindi, quanto piuttosto di quello che rende schiavi – come campeggiava con espressione beffardamente contraffatta all’ingresso di Auschwitz e come è riportato nell’esergo del libro. Si tratta infatti di un lavoro che imprigiona chi ce l’ha, ma soprattutto chi l’ha perso, o non l’ha mai trovato, con la sua ossessione, col suo pensiero fisso, fisso come il posto a cui tutti i personaggi aspirano.

E ad essere aspirato in questo vortice è in prima battuta il protagonista, Robledo appunto, giornalista freelance con un divorzio recente alle spalle e una giovane amante sul groppo. Situazione, lavorativa e personale, che lo colloca fra il libero e l’impegnato sentimentalmente e fra l’impiegato e il disoccupato in campo professionale.

È lui lo scopritore, forse l’inventore, del fantomatico movimento LPL (lavoro per il lavoro), un movimento che spinge chi è stato licenziato a cercarsi un’occupazione qualsiasi, a farsene carico gratuitamente, in modo clandestino, all’insaputa del datore di lavoro stesso, mimetizzandosi fra i cento magazzinieri di un grande supermercato, fra gli anonimi commessi di un bookstore.

Tanti i personaggi colti nel loro momento di difficoltà – scelti perché questa difficoltà non si è risolta, anzi, si è trasformata in disperazione, si è trasformata in tragedia, in terrorismo – raccontati attraverso reportage, pagine di diario, articoli di giornale di cui il romanzo rappresenta la raccolta e Robledo l’autore.

E Robledo, la cui figura emerge nel momento in cui la vita, il lavoro e le vicende giudiziarie lo affossano, come un topolino a molla che sbatte contro un ostacolo sul suo percorso, va a sbattere contro la sua stessa opera, e, senza la carica necessaria a risollevarsi, si lascia travolgere dalle conseguenze a livello sociale e penale dei suoi scritti, risultandone alla fine schiacciato.

Polveri Sottili

L’incipit del nuovo romanzo in pubblicazione di Giovanni Locatelli

Mia madre ha interrotto una gravidanza, due anni prima di portare a termine me. Se lui fosse nato, io non sarei qui. Difficilmente avrebbe fatto un terzo figlio, mia madre, due erano sufficienti, una femmina e un maschio. Lui sarebbe al mio posto e nessuno potrebbe notare la differenza. Così nessuno si accorge oggi che sto usurpando il suo trono. Senza colpe, intendiamoci. Io non ho fatto niente di male, sono solo arrivato fino in fondo, mentre lui non ce l’ha fatta, ma c’è mancato un soffio e non avrei avuto questa occasione. Senza questa, non ne avrei avuta un’altra. Quel momento, l’unione di quell’ovulo e quello spermatozoo, non due a caso, proprio quei due, era ed è irripetibile. La questione può sembrare oziosa, ma di tanto in tanto l’aborto spontaneo di mia madre ritorna nei miei pensieri e ogni volta mi chiedo: ha davvero senso dire lui, dire io? Cosa sarebbe cambiato se fosse nato lui al posto mio?

Lui non sarebbe stato a quella rotonda, in quel momento, quel maledetto lunedì mattina. Un’ombra vista con la coda dell’occhio, una pagliuzza, poi un tonfo, un urto contro il muso dell’auto e subito un oggetto che rimbalza sul cofano, rotola lungo il parabrezza e viene scaraventato dietro l’automobile, un tronco dritto nel mio stomaco che caccia fuori l’aria dai polmoni in un grido disperato. Ho investito un motorino! Il veicolo è dieci metri avanti, scivolato sull’asfalto bagnato dalla pioggia che cade da qualche minuto. Tempo di scendere dall’auto convinto di vedere alle mie spalle il corpo riverso sull’asfalto e invece la motociclista è già in piedi, ferma immobile in mezzo alla strada. Mi avvicino di corsa, guardo negli occhi la donna, lei si toglie il casco, il volto sporco di sangue che esce da un labbro, io balbetto un mi scusi, armeggio con il cellulare, chiamo il 118, ma non mi muovo e lei neppure, saremmo ancora fermi uno di fronte all’altra in mezzo alla rotonda oggi, se non fosse finalmente arrivata una donna a spostarci.

“Signora non stia in piedi, venga a sedersi. Tutti e due, venite via da qui…

A lui non sarebbe successo: avrebbe dormito a casa di un’altra fidanzata in una città diversa, sarebbe partito prima per arrivare al lavoro presto, sarebbe stato attento alla strada invece di guidare col pilota automatico, mezzo addormentato e mezzo distratto dalla radio.

Certo, gli sarebbero capitate comunque esperienze negative, oppure avrebbe potuto essere uno psicopatico, un serial killer. Viceversa, potrei aver soffiato il posto a un genio, un medico che avrebbe debellato il cancro, un politico in grado di pacificare il Medio Oriente. Non si può sapere.

Magari questo mio fratello mai nato non avrebbe salvato quel ragazzo in piscina, parecchi anni fa. Perché meno allenato, o poco pratico con l’acqua, perché in un’altra corsia, troppo distante per accorgersene o semplicemente per non averlo visto, non avendo i miei dieci decimi e non potendo nuotare con le lenti a contatto. In fin dei conti, dei presenti in piscina quel giorno, io sono stato l’unico ad accorgersi dell’africano in difficoltà. Avevo cominciato a tenerlo d’occhio sin da inizio vasca, per quel suo strano fare su e giù nel mezzo, dove l’acqua supera i due metri. Poteva essere un esercizio per la respirazione, un allenamento all’apnea, ma avvicinandomi mi ero reso conto che il giovane aveva perso il controllo e stava annegando. Non avendo nessuna preparazione e pensando che la cosa migliore fosse cercare di sollevarlo per farlo respirare, ero finito io sott’acqua ed era lui a tenermi giù. In quella situazione, e senza possibilità di confondersi, lui e io eravamo due entità ben distinte, in lotta per la sopravvivenza, almeno finché non sono riuscito a spingerlo fra le braccia del bagnino che l’ha estratto dall’acqua.

Anime diverse che si incontrano in un punto dello spazio e del tempo per mai più rivedersi, eppure rimanendo per sempre legati: io, il ragazzo, la signora, quindi, chi siamo? Io sono colui che prova rimorso; la signora, colei che prova dolore. Nessuno vorrebbe essere al nostro posto, ma tutti, dovendo scegliere, preferirebbero il mio ruolo. Il ragazzo stava annegando; io sono l’eroe che ha portato a termine il salvataggio. Anche in questo caso miei sono i panni che chiunque vorrebbe indossare. Con mio fratello mai nato si è verificato lo stesso fenomeno, in fondo: sono io ad aver pescato il jolly. A meno che lui non sia altrove, con una vita e una famiglia diverse, nonostante quell’occasione mancata. Chi dice che non ci sia una seconda chance? Di sicuro qualche filosofo ha già risposto a questa domanda, ma filosofia a scuola l’ho fatta male e ora ne pago le conseguenze. Credere nell’immortalità dell’anima, nella reincarnazione, in una qualsiasi delle teorie sulla metempsicosi mi aiuterebbe a capire chi o cosa ha messo la mia anima in questo corpo, ma io non credo in niente, neppure nell’anima e certi giorni dubito persino del corpo. È mio questo fisico ingrassato, rilassato, impossibile da tenere in forma? È questo che sono diventato? E se ho perso il vigore dei vent’anni, che cosa ho ricevuto in cambio?

Biglietti di andata (incipit)

La Brescia stralunata e convulsa di Giovanni Locatelli nell’incipit di Biglietti di andata, il romanzo cui sta tuttora lavorando.

Alcide si fuma una sigaretta al freddo,

tenendo le braccia, grandi come condotti dell’acqua, incrociate sul petto e le mani sotto le ascelle. C’è un motivo losco e di contrabbando, un motivo made in China, se è arrivato alle 6 del mattino per aprire i cancelli, solo che Alcide maschera la sua preoccupazione con tutt’altri pensieri. Sono quasi le 8, ma del camion manco l’ombra, pensa. Telefonare è inutile, i rumeni non hanno nessuna cognizione della loro posizione, “cinque minuti arrivo!” dicono solo, poi passano due ore oppure sono già al cancello che strombazzano per entrare senza chiedere permesso.

TOOO TOOO

«Amico! Ehi capo!»

Una faccia rotonda e abbronzata spunta insieme a un braccio tatuato da un finestrino a due metri di altezza. Non dovrebbe fumare visto il materiale che trasporta, ma lui lo fa uguale. Si vive una volta sola, pensa Rudian, l’autista. Sono dieci ore che guido e una bella tzigarra me la merito di sicuro.

Il bilico con i pannelli isolanti è finalmente arrivato. È termaflon cinese, costa la metà del normale poliuretano espanso, spedizione inclusa. Dopo un anno è già in briciole, adagiato sul fondo delle pareti della furgonatura, ma chi se ne accorge? Chi fa un incidente e apre in due la cella frigo ha ben altri pensieri che l’isolante.

Alcide fa cenno al camionista di andare da quella parte, allargarsi a sinistra e tornare in retromarcia raddrizzandosi fino a centrare il dock di scarico. Tutto a gesti e orchi zii che il rumeno comprende alla perfezione.

Se arrivavi alle 6, canchero, ’ste manovre le facevi senza gente fra i piedi, insiste Alcide, mascherando la verità: dicono che sia nocivo, il termaflon. Non quanto l’eternit, ma quasi. Proprio per via del suo ostinato ridursi in una polvere che prima o poi ti entra nei polmoni e te lo mette in culo.

«Alcide! Ti cercano al telefono!»

È Mantovani, il suo socio di minoranza, a richiamarlo in ufficio.

Mai che prenda lui una telefonata quel pirla. Avrà ben visto che sono impegnato!

«Infila l’apertura, fermati e spegni il motore. Non scendere e non scaricare il materiale. Capìt?»

Alcide si decide a spostare i suoi centodieci chili in direzione dell’ufficio, stramaledicendo un mondo così cocciutamente deciso a non farsi sottomettere, scavalcando detriti metallici, rottami, sfridi e semilavorati abbandonati a metà trattamento che riempiono il cortile e dei quali lui non si accorge più.

Quando sente il botto nemmeno si volta, se lo sentiva, lo sapeva che sarebbe successo. Chissà perché lo percepisce appena sveglio che qualcosa andrà storto: sente un prurito nella pancia, dentro, dove non si può grattare, fra duodeno e pancreas. Sa già tutto al punto che tira dritto e va a rispondere al telefono.

«Cosa c’è?» dice senza salutare, senza ascoltare ciò che gli riferiscono all’altro capo, standosene lì, affacciato alla finestra con la cornetta in mano, a guardare le operazioni di soccorso necessarie per estrarre un ragazzo privo di sensi dal carrello elevatore con cui si è schiantato contro il camion in retromarcia.

«Chi è il coglione che guidava il muletto in quel modo?» sbraita dalla finestra spalancata, a telefonata in corso.

Era Maicol Pedrabissi al volante: perito industriale, buyer, magazziniere, pupillo di Alcide e factotum. L’unico che ci capisce qualcosa qui dentro, porca puttana! Non poteva capitare a un altro? Ce n’è di gente che non fa un accidente… era l’occasione per togliermela dalle palle! pensa Alcide prima di tornare a sgolarsi.

«State fermi! Non toccate niente, diavolo porco!»

L’ambulanza arriva in venti minuti. Due infermieri scendono dal portellone e subito sentono polso e fiato a Maicol, ancora a terra privo di sensi. Si guardano intorno per capire la dinamica dell’incidente. Le facce che vedono non promettono nulla di buono. Non caveranno una risposta neanche col forcipe da quelle espressioni sconcertate.

«Perché l’avete spostato?» dice l’infermiere senior.

«Era incastrato nel muletto», bofonchia Alcide, a disagio, poi si gira a guardare gli altri con un’espressione di rimprovero. Siete stati voi a farla questa cazzata!

«Potreste aver provocato danni irreparabili, ve ne rendete conto?» rincara la dose l’infermiere junior.

«Dovevamo lasciarlo lì? Voi non arrivavate mai!» attacca Alcide e fa per avvicinarsi, ma si trova di fronte il guidatore dell’ambulanza, un uomo corpulento quanto lui, ma quindici anni più giovane, che fa da bodyguard agli infermieri, in caso di necessità.

«Premesso che ci avete chiamati alle 8 punto 06», dice l’autista con voce impostata, «sono passati solo 18 minuti. La nostra media di intervento si attesta attorno ai 22 minuti, quindi siamo arrivati con abbondante anticipo».

L’armadio a due ante occulta la vista ad Alcide che vorrebbe controllare le manovre con cui gli infermieri stanno caricando Maicol sulla spinale e da lì sulla barella. L’incarico gli riesce a dovere, ma nemmeno la sua stazza può impedire, chiuse le porte, che tutti si accorgano della fiancata dell’ambulanza pesantemente ammaccata.

«Dove lo portate?»

«Al Civile, che domanda», dice l’uomo rimettendosi alla guida. L’autolettiga parte a sirene spiegate, mancando per un soffio il cancello d’ingresso, aperto il minimo indispensabile perché c’è un punto in cui l’ingranaggio esce dalla cremagliera che nessuno si decide a riparare.

«È troppo lontano il Civile, santo Dio! Ci arrivate che è morto!» sbraita Alcide intercalando parecchie combinazioni di cane-zio-maiale e girandosi alla ricerca di consensi.

Brescia accoglie chi arriva da sud con la ciminiera del termovalorizzatore, una torre di 120 metri non bella, ma rivestita con pannelli cangianti azzurro cielo dagli illustri natali: Jorrit Tornquist, artista che ha applicato le sue teorie cromatiche anche sulle villette a schiera del Villaggio Violino e sui rivestimenti della galleria Tito Speri che collega downtown alla periferia nord. Ma le nuance della polis non si fermano qui: il cavalcavia dove l’A21 incrocia la bretella per Munticiàr è giallo e verde, i pannelli della Alfa Acciai che si incontrano in autostrada sono rosa, verdi e azzurri e le colonnine per il ticket dei parcheggi hanno una tinta violacea sconosciuta negli altri capoluoghi di provincia. Forse sono tutti ’sti colori che impediscono alla gente di accorgersi delle sirene di un’ambulanza, pensa Alberto, l’autista, incurante della bella sinestesia che ha coniato. Guardali, nessuno accosta nessuno si ferma, regna l’indifferenza, anzi avere i lampeggianti al culo diventa un ottimo pretesto per accelerare, commettere infrazioni. E se glielo chiedi, ti diranno che è la maniera migliore per non intralciare la corsa dell’autolettiga!

Alberto si fa via Labirinto e poi via Corsica con una colonna di auto davanti a sé, impugnando il volante come fossero le redini di una slitta trainata dai cani, sentendosi un po’ Jack London un po’ Santa Claus. Purtroppo, il primo semaforo rompe il gioco perché persino i cani, quando guidano, si fermano col rosso.

«Lo sapevo che sarebbe successo! Tenetevi forte!» avverte Alberto, rivolgendosi a quelli della crew. Si fa un plateale segno della croce e si butta in mezzo. È la certezza di essere brutalmente speronati, e non il doveroso atto di civiltà, a far spostare a destra la colonna di macchine. Ma solo quel tanto che basta, non sia mai, branco di caproni! Dovreste inchinarvi al nostro passaggio, noblesse oblige, invece di stare in mezzo alle palle!

«Qui non è meglio se vai a sinistra?» se ne esce il suo secondo che sta armeggiando con la radio trasmittente dalla partenza.

«Vuoi che non sappia dov’è l’ospedale? Tu servi all’andata, quando si deve recuperare il paziente, non al ritorno».

«Dicevo perché dritto è pieno di semafori».

«Sì, ma a sinistra non si va al Civile. Conosco anch’io strade più scorrevoli di questa, ma non tutte portano a Roma».

Fatto sta che alla prima occasione Alberto svolta a sinistra. E trova addirittura più traffico.

«E adesso, che facciamo?» chiede Mantovani, incerto.

«Mettete a posto questo casino! Fate le foto al muletto e toglietelo di mezzo. Portate via i rottami dal cortile. Palmiro, fai dare una ripulita all’officina e in magazzino, già che ci sei. Nascondete il più possibile!» Si rivolge al capofficina, Alcide, ma guarda dritto Mantovani, quasi fosse responsabile dell’incidente. «E tu manda tutti a casa, finiti i lavori. Oggi si chiude. Io vado all’INPS. Qui salta fuori un macello».

Mantovani è sorpreso, ma non vuole darlo a vedere. Come se gli altri non fossero stati presenti fino a quel momento, si gira e ripete esattamente le parole del capo, ma al rallenty e con parecchie omissioni: «Mettete… casino. Fate le foto… di mezzo. Portate… i rottami… a Palmiro. Poi nascondetevi… a casa».

Gli operai aspettano nuovi ordini, o un chiarimento ulteriore. Passano i secondi, nessuno si muove, Mantovani sbotta.

«Avete sentito? Sbrigatevi!»

Gli uomini si mettono al lavoro mentre le donne: la Giusi, la segretaria di Alcide, Camilla e Viviana, le due ragazze del back office, rimangono ferme in mezzo al cortile, lo sguardo perso, in silenzio. Sembrano tre Marie che hanno appena perso il loro Gesù, staccato dalla croce e portato al sepolcro in ambulanza. Non hanno nulla da fare, i rottami vanno spostati coi muletti e l’officina è off limits per le donne: sono gli uomini a maneggiare le scope in quel mondo maschio e tecnologico. Potrebbero tornare in ufficio e rispondere alle telefonate, ma non riescono a spostarsi dal luogo dell’incidente. Restano lì nel cortile, sotto la pioggia di fine aprile che nel frattempo ha cominciato a scendere, impassibili.

Pharmacon

Ho assunto del veleno, consapevolmente, a scopi terapeutici. Spero che possa servire, ma non ne sono sicuro. I farmaci che ho preso sino ad oggi non hanno sortito alcun effetto. Questo però è di gran lunga più potente. E più pericoloso, a quanto pare.
Fuori piove, ho messo su un disco comprato oggi, per distrarmi. Non è proprio musica, sono suoni senza alcuna armonia, un pianoforte usato come una percussione, non so se è la colonna sonora più adatta. Abbiamo parlato di John Cage questo pomeriggio alla Monteverdi, ero curioso. Al liceo stiamo studiando Carducci, non c’è paragone. È come tuffarsi nel medioevo tutte le mattine e dover stare in apnea per cinque ore in attesa di respirare un po’ di novità alla scuola di musica. Uscito dalla farmacia sono andato subito a comprarmi l’album di Cage: il farmacista mi aveva dato da firmare una liberatoria di responsabilità, pensavo di consolarmi con la musica, ma la cassiera del negozio di musica mi ha sbattuto in faccia un modulo identico. La città non intende inghiottirmi, né io voglio apparire più appetitoso. Negozi così diversi resistono al mio ingresso e ogni volta sembrano sputarmi fuori con sollievo, liberati dal peso del pacchetto che mi porto via e che non risulta mai essere il prodotto di punta.

Il principale effetto collaterale del farmaco è che, in caso di gravidanza, provoca gravi malformazioni al feto: microcefalia, idrocefalia, dismorfismo facciale, palatoschisi, assenza dell’orecchio, ne sto solo leggendo alcuni. Per fortuna non sono incinto come mia madre. Però fra le controindicazioni meno frequenti annovera comunque depressione, istinto omicida e suicidio. Serve a curare le mia acne, a evitare che si aggravi e diventi cicatriziale, ma non c’è paragone tra i rischi e i possibili benefici. Anche risolti i brufoli, resta comunque una testa sproporzionata, occhi stretti, labbra enormi, un mento appuntito. Decisamente non bello, insomma.
Purtroppo la musica non riesce a distrarmi. Odio prendere medicine, sono terrorizzato dalle controindicazioni che non posso fare a meno di leggere e che mi fanno immediatamente un effetto placebo al contrario: adesso il mio sangue infetto mi ossessiona, mi sento come se contenessi un mostro pronto ad uscire. Mi è interdetta la donazione del sangue, potrebbe essere dato ad una donna in gravidanza. Qualche riga del foglietto illustrativo tratta del mio seme, sembra scagionarlo da ogni accusa, ma non mi pare il momento migliore per farne dono, sempre ammesso che capiti l’occasione. A quanto pare, non è il caso nemmeno di depilarsi le gambe con la ceretta, c’è il rischio che si lacerino i tessuti. Si seccheranno labbra, fauci, gola, occhi, sarà come essere nel deserto. Il mio ematocrito è alto di natura, mi ritroverò del budino al posto del sangue. Cefalee, diarrea, giramenti di testa non li prendo nemmeno in considerazione, quelli sono riportati anche sul bugiardino dell’aspirina.

Devo smettere, sto sudando. Meglio studiare il booklet del CD, magari scopro qualcosa di interessante sul compositore. La prima cosa che guardo è a che età l’autore ha scritto la sua prima opera importante. Lo faccio sempre, per capire quanto tempo mi rimane davanti… Qui non ne parla. Invece leggo di John Cage che avesse uno straordinario senso dell’umorismo. C’è una sua foto molto bella all’interno del CD, vecchio con i capelli lunghi, spettinati, gli occhi stretti e la bocca aperta in una risata sincera. Tutti vorrebbero un nonno così. Però che palle sentirlo suonare.
Comincia a farmi prurito la schiena. Fra le scapole, in un punto difficile da raggiungere, poi alla base della spina dorsale, proprio sopra al sedere, adesso una coscia, poi l’altra. In pochi minuti è come se mi fossi rotolato nelle ortiche, brucia tutto il corpo. L’ultimo paragrafo accennava alla cosa, ma in maniera marginale, chiedendo di informare il medico, in caso di controindicazioni non descritte. Lo farò domani, se sopravvivo. Ho sete e caldo. Forse un bagno potrebbe farmi bene, sto sudando, mi scoppia la testa e ho voglia di vomitare. Vorrei dormire, ma non posso, non riesco perché ho paura di non svegliarmi. Il tempo ha smesso di scorrere e i minuti non passano, si accumulano in un angolo della stanza, guardandomi minacciosi come se fosse colpa mia. Riprendo in mano il foglietto illustrativo per vedere se mi sono perso qualcosa di importante. Le pastiglie che non assumo dovrò restituirle al farmacista, c’è scritto, per evitare che qualche donna le prenda accidentalmente. Ma chi è che assume pastiglie a caso? A quanto pare, il pericolo che corre una ragazza fertile in presenza di questo medicinale deve essere gravissimo. Suo figlio potrebbe essere il demonio stesso. Me lo immagino enorme e caprino, alla guida di un auto in corsa, sotto la quale si gettano spontaneamente uccelli ed altri animali, a frotte, a stormi, attratti da un insano desiderio di annullamento. Andrei anch’io a gettarmici sotto, per espiare la colpa di essere la causa di un tale abominio.

Forse sarebbe meglio tornare in cucina, fare quattro chiacchiere con mia madre. Quella cretina. Potrei offrirle una pastiglia, come fosse una caramella, per vedere gli effetti sul nascituro. Magari viene fuori con due teste, magari un centauro, o un minotauro… potrebbe essere l’inizio di una nuova specie, un superuomo dotato di poteri sovrannaturali. Qualunque cosa purché non assomigli a suo padre, meglio bicipite che con quella faccia da culo! Si è fatta ingravidare dal suo nuovo compagno, Cosimo si chiama, che nome del cazzo, quella scema! Si comportava come una ragazzina, negli ultimi tempi, mi permetteva di uscire tutte le sere, per non avermi tra le palle, e adesso scoppia a piangere di continuo al pensiero di dover affrontare una nuova gravidanza a quarantacinque anni. Forse non è una buona idea quella di andare in cucina, non sono dell’umore adatto.

Io ho annusato l’odore della morte dalla bocca di mio padre, per questo adesso so riconoscerlo. La morte gli stava marcendo i polmoni e il suo fiato puzzava come puzzano le carcasse. Poi gliene hanno asportato uno, purtroppo senza riuscire a sconfiggere il male. Adesso mi sembra di risentire quell’odore, presto avrò anch’io la bocca squassata dalle piaghe per via di questa medicina di merda. Mi scanseranno tutti, persino i parenti. All’ultima riunione di famiglia, ho guardato l’effetto che faceva l’espressione “ho una malattia incurabile…” sul volto delle persone alle quali l’ho detta. Così, con la serenità e lo humour del malato terminale che scopre in sé una forza sconosciuta, ho avuto davvero il coraggio e il cattivo gusto di pronunciarla, infliggendo a quei disgraziati un’inutile, insanabile ferita. Mi sono affrettato a precisare “incurabile nel senso che non se ne conosce la cura, non perché mortale”, ma l’ombra negli occhi dei parenti, la nuvola che aveva oscurato la loro vista, non si è completamente diradata. Tutti mi hanno augurato pronta guarigione, al momento dei saluti, auguri immediatamente ricambiati, per puro gusto della stravaganza.
Adesso che ci penso mi sento meschino, dovrei smettere di prepararmi i discorsi in anticipo, levigandoli per migliorarne l’effetto, recitandoli poi per far bella impressione. Lasciano un sapore amaro in chi li ascolta, come se avessero assaggiato un cibo tutt’altro che genuino, un piatto cucinato con ingredienti sintetici. Non sembrano i discorsi di un sedicenne, qualcuno mi ha detto, una volta. continua a leggere