
Shrouq Aila, Hanno ucciso habibi, Wetlands 2025 (pp. 96, euro 15)
Poche pagine, ma tanto dense, pesanti, da non poter essere ridotte a una nota riassuntiva. Perché è quel che danno mentre le leggi che conta. Il dolore e l’orrore, la rabbia e la compassione ti seguono dall’inizio alla fine, raggiungendo punte che ti obbligano ad alzare gli occhi dal libro prima di riprendere.
Fare citazioni avrebbe il sapore di una profanazione.
Solo due osservazioni. Da un lato il potere di una narrazione che si fa storia già nel momento in cui ti raggiunge, a differenza della cronaca, della registrazione quotidiana che pure riferisce – anche attraverso le immagini – quegli stessi eventi; dall’altro, la domanda che la lettura ti lascia, adesso che una tregua che non è pace è stata dichiarata: chi pagherà per la ferocia sistematica che per due anni si è scientemente praticata nella striscia di Gaza?
Domanda che suona retorica se il responsabile diretto sta per essere graziato per i reati di corruzione e frode di cui è incriminato e che la guerra ha fatto accantonare.

Domanda che si leva come un urlo nelle ultime pagine di Shrouq Aila: “Noi non viviamo, sopravviviamo. (…) La crudeltà non sta solo nelle bombe, ma in ciò che viene dopo. Perché quando arriverà il cessate il fuoco non sarà la fine. Sarà l’inizio di una nuova guerra. (…) quando le bombe smetteranno di cadere, inizierà la vera lotta. La guerra per la sopravvivenza in un luogo che non esiste quasi più. (…) la si può chiamare ancora libertà se arriva quando tutto è perduto? (…) Quando la guerra finirà, Gaza risorgerà dalle sue ceneri. Ma c’è un’altra guerra che brucia dentro di me. Sì, forse il nostro corpo sopravvivrà, ma chi riparerà le rovine sepolte nel profondo della nostra anima?”.