Un appassionato disincanto

Nino Dolfo, In principio fu lo sguardo. Taccuino vagabondo di un cronista di cultura, Oligo 2025 (pp. 192, euro 16)

Ci sono due modi per vivere l’“età matura”, quella in cui è inevitabile prendere atto che “la vita è un’emorragia, una diaspora continua, una sequenza di disavanzi”. O meglio, due versanti di uno stesso sentimento, la malinconia: quello che inclina allo sconforto e si fa percezione inesorabile della propria transitorietà, retroagendo sull’immagine della propria vita e così rivelandone una sostanziale inconsistenza, e quello che invece, nonostante tutto, “ci conforta con il tempo ritrovato”, facendoci scoprire che “il passato è sempre sorprendente: ci ha seguito con la fedeltà di un’ombra, ci ha aspettato ed è la prova regina che noi siamo esistiti”, la conferma che una sua consistenza ce l’ha, la nostra vita.

Lo senti già, mentre la leggi, che la prima pagina del Taccuino di Dolfo è una di quelle cui tornerai, perché ti ci ritrovi, e ti rincuora: non ti invita al pur nobile e non necessariamente retrivo sentimento della nostalgia, ma ad accettarla, la vita che ti è toccata. Che siano stati “caso, destino, arbitrio” a darle forma.

Non ci sorprende che il resoconto di un “cronista di cultura” si tinga di simili considerazioni di sapore esistenziale: Dolfo ci ha abituato, da sempre, al suo gusto, al suo impegno di non perdere occasione per proporre riflessioni che non sai fino a che punto siano nate dal libro o dal film, dallo scrittore o dal regista su cui ci intrattiene o in essi abbia trovato lo spunto per continuare un discorso da tempo avviato nel proprio intimo, rintracciando appigli significativi da segnalarci nella forma della citazione. Sempre tempestiva, sempre illuminante, perché metabolizzata da chi la riporta ed è dunque in grado di consegnarcela come cosa sua. Una delle tante di cui è fatta una vita da “critico” trascorsa tra parole e immagini; letteratura, fotografia e, soprattutto, cinema (quello del Novecento, rito che si faceva tramite di educazione sentimentale).

L’autobiografia, in questo libro, si lascia intravedere solo all’inizio, negli interstizi di una rete fitta di riferimenti letterari e cinematografici: il servizio alle latrine della caserma in cui è finito richiama per contrasto il lavoro assorto del protagonista di Perfect Days nelle “confortevoli toilettes giapponesi”, la naia appare “come una disdetta personale vidimata dal mito”, avendo fatto seguito alla tesi di laurea dedicata all’Edipo re di Pasolini. Eppure proprio il servizio militare segna l’“esordio” del futuro insegnante (per il momento, di latino e greco ai figli degli ufficiali) e giornalista pubblicista (nella veste di redattore del giornalino dei congedanti): “scrivere stava imponendosi come unico modo per pensare, capire e immaginare una via di fuga”. Che è come dire che la relazione tra lo scrivere e il vivere, di fatto, era ormai all’ordine del giorno, quasi che in ogni persona ci fossero, come ha detto Borges – ecco, puntuale, la citazione – “due individui: quello vero e l’altro”. Indistinguibili nel suo caso, assicura l’autore, ma entrambi all’opera: “Uno scrive, cuce e cucina le parole, l’altro guarda”. Guarda perché prima che uno “scriba”, lui, è stato uno “spettatore cinematografico compulsivo”. Ecco perché “in principio fu lo sguardo”, come recita il titolo di questo “memoir”, di questa “raccolta di piccoli pezzi” dettati da quel “modo, secolare, di pregare” che è il ricordo, testimone del fatto che “noi tutti siamo le persone che abbiamo incontrato”. Le stesse che troviamo in queste pagine, tra le quali si distinguono, e prediligono, “gli outsider, coloro che non sono dati per vincenti” ma sanno vedere ciò che altri non vedono, sanno ad esempio profittare delle virtù della “provincia”, dei benefici – dai più patiti come immeritate menomazioni – della perifericità. Persone che, se si muovono in ambito letterario, “scrivono e lavorano sodo con lo spirito delle vecchie botteghe artigianali che una volta coniugavano etica e ‘ben fatto’”, coltivando una sorta di “apartheid volontaria e sovrana, anche altruista (…), perché appartarsi, sottrarsi alla gnagnera, è la condizione ideale del pensiero solidale”. A tracciare un filo ininterrotto attraverso il racconto di incontri memorabili, e il tratteggio di ritratti che sanno, spesso fulmineamente, definire le ragioni di un’unicità artistica e umana, è la tonalità di un appassionato disincanto, veicolato da una scrittura scintillante di ironici calchi del gergo dei media fattosi lingua comune e di ossimori geniali che la rendono, appunto, tagliente ed empatica.

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