
Jane Bennet, Materia vibrante. Un’ecologia politica delle cose, Timeo 2023 (pp. 257, euro 22)
Il tema è sostanzialmente lo stesso, ma l’interesse e l’entroterra culturale dei due autori non coincidono. Sia Coccia (in queste note lo scorso 5 settembre) che Bennet sostengono la causa del monismo: “tutte le forme di vita sono figurazioni di una medesima sostanza” sostiene il primo, bisogna abbandonare l’“abitudine a interpretare il mondo come diviso in materia spenta (esso, le cose) e vita vibrante (noi, gli esseri)” è la tesi centrale della seconda.
Il panteismo laico, per dirla con un ossimoro, che si intravede in Coccia non è lontano dal “materialismo vitale” che la filosofa americana propugna. Ma l’interesse del primo è eminentemente filosofico (nonostante precisi riferimenti scientifici) e include, più o meno esplicitamente, risvolti esistenziali; quello di Bennet, pur attingendo al pensiero filosofico, guarda alle implicazioni politiche della nuova concezione, in grado di supportare più coerentemente una visione e una pratica ecologiche all’altezza dei tempi. Se nel discorso di Coccia echeggiano pensatori antichi e moderni (Spinoza in primis), Bennet si appella certamente ai pensatori della “tradizione epicurea, spinoziana – anche nelle sue pagine Spinoza occupa un posto centrale –, nietzschiana e vitalista”, senza ignorare l’animismo e la ricerca romantica della natura, ma si confronta soprattutto con il materialismo storico di Marx e riprende temi e intuizioni dell’ecofemminismo americano.
La critica del dualismo che pervade il nostro modo di pensare e di rapportarci al mondo deve portare secondo Bennet al riconoscimento di una “materialità vitale” che non ci è estraneo, perché tutti abbiamo vissuto nell’infanzia l’“esperienza di un mondo popolato non da oggetti passivi ma da cose animate”. Ma non ci può essere estraneo anche perché la fisica attuale – ma ancor prima la filosofia di Eraclito e quella degli atomisti – ci assicura che gli oggetti “che si presentano a noi come fissi sono mobili, internamente sono materiali eterogenei la cui velocità e il cui ritmo di cambiamento sono lenti se paragonati alla durata e alla velocità dei corpi umani che li partecipano e li percepiscono. Gli ‘oggetti’ appaiono tali perché il loro divenire procede a una velocità o a un livello al di sotto della soglia del discernimento umano. (…) Per vivere le persone – gli occidentali, sarebbe forse meglio dire? – hanno bisogno di interpretare il mondo riducendolo a una serie di oggetti fissi”. Sono sempre sfuggiti, almeno in parte, a questo modo di vedere gli artigiani, quelli dei metalli in particolare, il cui desiderio è “di scoprire cosa può fare un metallo, non il desiderio di chi fa scienza di sapere cos’è un metallo” ed ha così “permesso di scorgere una vita del metallo e quindi di collaborare con esso in modo più produttivo”.
Entro questo quadro, si tratta di prendere atto della “capacità delle cose – alimenti, merci, tempeste, metalli – non solo di frenare o bloccare la volontà e i progetti umani, ma anche di comportarsi come quasi agenti, come forze dotate di traiettorie, propensioni e tendenze proprie”. Come “attanti” avrebbe detto Bruno Latour, portatore di una visione ambientale totalizzante che non a caso l’aveva portato a coniare questo neologismo: l’attante, per lui, “è l’entità che dà origine all’azione, sia essa umana o non umana”, sia che si possa assumere come soggetto o che come tale non si presenti all’osservatore condizionato da un secolare atteggiamento nei confronti delle cose.
La ragione, e l’urgenza, di un cambio di tale atteggiamento sta nella considerazione che “l’immagine di una materia morta o completamente strumentalizzata alimenta la hybris e le fantasie umane di conquista e consumo che distruggono la terra”, mentre, per converso, l’immagine di una materia vitale “richiede la nostra attenzione, o addirittura il nostro rispetto”, presupposti di un impegno ecologico fondato (ma non fondamentalista: “il mio monismo, in contrasto con alcune versioni dell’ecologia profonda, non postula né un’equilibrata armonia delle parti né una diversità unificata da uno spirito comune”).
Attenzione, rispetto, ma anche “incanto” può suscitare “il mondo quotidiano”: “quella strana combinazione di gioia e turbamento”, di “incanto sensuale (…) verso la natura ma anche – e questo rappresenta una novità nella letteratura ecologista – verso merci e altri prodotti culturali”, ossia non naturali. Tutti portatori comunque di una vitalità materiale che “non è un supplemento spirituale né una ‘forza viva’ aggiunta alla materia che dovrebbe fungere da contenitore [o da “sostrato”]”. “Il mio – chiarisce Bennet – non è un vitalismo nel senso tradizionale”, pur non disconoscendo il ruolo svolto da elaborazioni come quella di “slancio vitale” da parte di Bergson: l’essenziale è “slegare la materialità dall’idea di una sostanza passiva, meccanicistica o divinamente infusa. Questa materia vibrante non è la materia prima per l’attività creativa delle persone o di Dio”.
L’antropocentrismo, presente anche nel marxiano materialismo storico, è l’ostacolo principale che si oppone a un materialismo vitale. Occorre “contrastare il riflesso narcisistico all’interno del pensiero e del linguaggio umano” e, in questo senso – come anche Coccia arriva a sostenere – “dobbiamo coltivare un po’ di antropomorfismo”.

Oltre ad arricchire la tesi di spunti e temi nuovi, l’autrice si addentra in esempi a prima vista poco pertinenti, ma che appaiono alla fine utili alla comprensione di che cosa significhi ammettere un’“agentività” della materia, distribuita molto spesso in “concatenamenti” nei quali, sempre in stretta dialettica con l’elemento umano, si dispone. Concatenamenti sono, in questo senso, la rete elettrica, il cibo nelle sue varie forme, i metalli e le loro leghe, i lombrichi e la loro essenziale attività studiata da Darwin. Ma anche il “complesso militare-industriale” che, proprio in quanto concatenamento umano e non-umano, “costrutto sociale dotato di una propria ‘vita’ negativa”, “può sempre resistere ed eludere il controllo culturale”, politico.
In conclusione, il compito che ci si pone è quello di riuscire a “vivere più orizzontalmente [senza stabilire o presupporre gerarchie] la relazione tra persone e altre materialità” e per questa via “fare un passo avanti verso una sensibilità più ecologica”. Ciò “non vuol dire negare i poteri eccezionali e impressionanti dell’umanità, ma considerare questi poteri come una prova del fatto che anche noi ci costituiamo come materialità vitale” e “anche il potere umano è una specie di potenza delle cose”. “È facile – infatti – riconoscere che le persone sono composte da varie parti materiali (la mineralità delle nostre ossa, il metallo del nostro sangue, l’elettricità dei nostri neuroni). È più difficile invece pensare che questi materiali siano vitali e auto-organizzati, e non mezzi passivi o meccanici guidati da qualcosa di non-materiale, cioè un’anima o una mente attive”. Eppure, “se si adotta la prospettiva del tempo evolutivo piuttosto che biografico diventa visibile la forza minerale”. Un forza, appunto, non un movimento cieco: una forza non finalizzata a uno scopo e pure in grado di produrre mutamenti decisivi, come quello della nascita e della sempre temporanea esistenza degli esseri che chiamiamo viventi.