
In un’estate che non potrà dimenticare, luoghi e situazioni coinvolgenti, ricordi che non cessano di turbarlo e figure che stenta a decifrare, si avvicendano attorno a Lucio, diciottenne alle soglie di una nuova vita, insicuro tuttavia nel comprendere i desideri e i sentimenti che avverte, tormentato dalla sensazione di non saper prendere decisioni, di non riuscire a chiarire a se stesso quel che davvero vuole.
È solo alla vigilia della partenza, osservando i gabbiani che si librano come aquiloni accanto al barcone che lo porterà a Stromboli, che gli pare di capire: occorre l’indifferenza di una cosa per star così, nell’aria, ma insieme la concentrazione di un animale che ha fiutato la preda, preso in quello che sta facendo, nel momento in cui lo sta facendo, tanto da dimenticarsi quasi dello scopo del suo fare e fin di se stesso.
Occorre essere distanti da sé e allo stesso tempo mai così raccolti, ma non basta volerlo. Occorre confondersi con il vento, smetterla di difendersene.
Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal romanzo:
La  bambina tende le mani. Vorrebbe che si avvicinassero ancora di più a  prendere il biscotto che tiene sul palmo. I suoi richiami si mescolano  ai loro stridi. La madre cerca di farle fare un passo indietro: ha paura  dei becchi uncinati, e di quelle zampe, che potrebbero artigliare la  manina tesa verso di loro, anche se pendono inerti sotto quei corpi  tozzi che si direbbero troppo pesanti per stare sospesi nell’aria,  controvento. Immobili.
Guarda come si lasciano portare, dice una ragazza al suo compagno: stan su senza far niente…
Lucio non lo sa se è così davvero: i loro occhi sembrano quelli di chi sta lavorando, seri, concentrati.
La  donna è riuscita a convincere la figlia a lanciare il biscotto: un  gabbiano lo afferra strappandolo a quello che l’aveva già nel becco e  scompare. La bambina vuole continuare il gioco, piange quando la madre la trascina via.
Lucio  prende dallo zainetto un sacchetto di cracker e ne tira pezzi ai  gabbiani. Ce n’è uno, in particolare, che gli sembra lo guardi dritto  negli occhi.
Si  rovescia via nel vento ma poi ritorna, e sta lì, così vicino che lui,  quasi, potrebbe toccarlo. Non fa niente per prendere i bocconi che Lucio  tira in mezzo agli uccelli. Non sembra lì per quello. Sembra stia fermo  nel vento perché così fa un gabbiano, perché vuole fare come i gabbiani  che stanno sospesi intorno a lui in quel momento stesso, e come tutti  gli altri che hanno sempre fatto così, da che mondo è mondo…
Rumori  metallici di lamiere percosse, rimbombi cupi che risalgono tubature  invisibili lo svegliano ogni pochi minuti. O così gli sembra. Quando  sono voci a farlo uscire dal sonno gli occorre un momento per rendersi  conto che è steso in una cuccetta, sulla nave che lo porta alle Eolie.
Si riscuote. Ricorda che quando veniva con i suoi voleva che lo svegliassero prima delle sei per vedere il vulcano. Stromboli.
La  prima volta era rimasto deluso: dov’erano la lava, il fuoco? Aveva  immaginato che il cratere si vedesse dal mare. Invece c’era solo una  montagna, verde di cespugli bassi, ripida, chiazzata di terra scura.
Quando  la nave aveva lasciato il molo di Scari, sotto San Vincenzo, e aveva  costeggiato l’isola si era visto il fianco grigio, quasi nero, senza un  filo d’erba: la Sciara del Fuoco. È da lì che scende la lava, quando  scende. Ma quel giorno non se ne vedeva. Una nuvoletta bianca sulla  cima, quando erano stati ormai distanti dall’isola: segno che il vulcano  era sveglio, gli avevano detto. Sveglio anche se non in fase di eruzione.
Questo  aveva visto, la prima volta, quando era un bambino di sei anni, e di  tutto quello che il padre aveva via via spiegato, e tornato a spiegare, a  lui e alla mamma, negli anni successivi – l’età del vulcano, la  formazione della Sciara del Fuoco, la presenza di tre crateri – a Lucio  era rimasta in mente soprattutto una cosa che aveva letto in uno dei  romanzi che il nonno, il papà della mamma, gli regalava al suo  compleanno: Viaggio al centro della terra. Era di lì, dal vulcano  di Stromboli che Axel, con lo zio professore e la loro guida islandese,  erano tornati sulla terra. Dallo Sneffels, il vulcano spento in cui si  erano calati, a Stromboli. Dall’Islanda all’Italia.
Dorme fin quasi alle sei. Succede con il vino bianco, gelato, se ne bevi come fosse acqua.
Resta  a guardarsi intorno. Aveva sempre dormito di là, in cucina c’è ancora  la sua poltrona letto. Il letto dove dormivano i suoi è di quelli a una piazza  e mezza, infossato al centro. Anche lì, vicino alla porta del bagno, un  acquerello – non di Doriana però, di sua madre: ci s’era messa anche  lei, incoraggiata dalla vicina. Il mare, e lontani, sulla destra, tre gabbiani in volo.
Li  vede ancora, Lucio, gli occhi di quell’uccello fissi per qualche  secondo nei suoi: come si aspettasse che lui intuisse quel che aveva da  dirgli, gli vien da pensare adesso. Come si fossero riconosciuti e non ci fosse bisogno di parole fra loro.
Sul  tavolo della terrazzina trova un cesto di cedri e arance. Non mancava  mai quando i suoi erano a Salina. E i Parisi se ne sono ricordati.
Gli  sembra di vederla, Lara, che lo appoggia lì, in punta di piedi, e poi  se ne va. Ma è la figura di Doriana a sovrapporsi subito a quella della  figlia: la immagina entrare in casa e affacciarsi alla camera, e restar ferma un momento a guardarlo dormire.
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Recensioni
Dal Giornale di Brescia del 13 giugno 2019.
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Dal Corriere della Sera – Brescia del 22 giugno 2019.
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