Un vitalismo disincantato

Jón Kalman Stefánsson, La tua assenza è tenebra, Iperborea 2022 (pp. 608, euro 21,50)

Un uomo che non ricorda più nulla di sé, una donna che sembra riconoscerlo, come tornasse da un lungo viaggio che l’ha tenuto lontano, forse, dal suo amore… Ma non c’è da illudersi: dopo questo inizio, che potrebbe essere quello di una narrazione come tante, lineare nel suo svolgimento, la trama si complica in una miriade di vicende, racconti e racconti di racconti che non solo hanno protagonisti diversi ma si dispongono in momenti diversi entro un arco di un paio di secoli, e ritornano su sé stessi per procedere, a distanza di pagine, non in sequenza ma secondo un tracciato a spirale che, appunto, contempla riprese e avanzamenti. Non sembra curarsi, lo scrittore, della fatica che chiede al lettore, tranne che in qualche raro caso nel quale lo avverte (o avverte sé stesso?): “fermati un attimo, perché qui c’è un intoppo, una storia, un destino, e per questo abbiamo bisogno di tornare indietro, nel passato (…). Torniamo indietro nella speranza di comprendere meglio, di orientarci meglio. Quindi rallenta. O meglio: rallentiamo il tempo. Altrimenti non si può raccontare”.

L’ha ammesso anche la traduttrice, Silvia Cosimini (in un’intervista a “La Stampa”/tuttolibri, 29 ottobre 2022): a Stefánsson “piace costringere i lettori a seguire più fili, e obbligare la sua traduttrice a disegnarsi su un taccuino schemi e alberi genealogici, per tenere traccia scritta di parentele, spostamenti, nomi”. Ma non c’è da perdersi d’animo, si può andare avanti, pagina dopo pagina, perdendo tranquillamente il filo: ci pensa lui, l’autore, a riportarci dove credevamo di aver dimenticato di essere stati, ma soprattutto a indicarci la via con riflessioni e aforismi sulle cose che contano nella vita. Dettati dalle storie che va raccontando, certo, anche se a volte viene il sospetto che la narrazione, che pure coinvolge, non sia che un grande pretesto per tornare sui temi che gli stanno a cuore. E sono quelli che ricorrono negli altri suoi romanzi (su cui queste note sono più volte tornate, soprattutto in occasione dell’incontro con lui alla nuova Libreria Rinascita a fine febbraio 2018, e poi ancora nel dicembre dello stesso anno e all’inizio del gennaio 2021): quella che si propone al lettore è una poetica, e insieme una filosofia della vita che traveste la sua serietà sotto i panni di un periodare lieve, scanzonato, autoironico, cui in definitiva dobbiamo il piacere che si prova leggendo Stefánsson. Anche perché l’autore ci sa trasmettere il divertimento con il quale sembra seguire l’andirivieni dei suoi personaggi, le loro gioie e il loro dolori, le loro speranza e le loro delusioni, seguendoli fino a che se ne vanno da questo mondo, fino all’ultimo portatori di una loro cifra individuale, irripetibile: “dobbiamo accettare le differenze”, ci vien fatto notare, e apprezzarle, perché “l’inferno è il posto in cui tutti si comportano nello stesso modo”. Non così sulla Terra, dove ognuno appare fatto di quel che l’ha preceduto: “È una legge di natura. I geni trasportano le sensazioni, i ricordi, le esperienze e i traumi da una vita all’altra, e in questo modo alcuni di noi esistono ben oltre la loro dipartita, ben dopo essere stati dimenticati del tutto. Il passato, pertanto, ce lo portiamo costantemente dentro”. Ma non per questo siamo esonerati dalle scelte, spesso angoscianti, che si pongono ad esempio quando l’amore, fonte di senso per la vita, si divide drammaticamente fra sentimento della fedeltà e desiderio nuovo, “indomabile per sua natura” e capace di “distruggere se non lo si contiene”. Ma, è inevitabile chiedersi, “cos’è più virtuoso, soffocare le voci del cuore nella speranza che il mondo continui inalterato, oppure aggrapparsi ai sentimenti, affidarsi al loro potere”? L’essenziale, che si tratti di un innamoramento o del richiamo di una vocazione nativa, è ascoltare il proprio demone, cogliere “l’opportunità di costruire da sol(i) il proprio destino”, senza per questo cadere nell’errore di “chi recide le proprie radici” e così facendo “fugge dal proprio passato”.

È un vitalismo disincantato quello che percorre la narrativa di Stefánsson, innamorato delle esistenze e mai dimentico della loro fine, ben consapevole che “abbiamo i nostri momenti in cui la felicità ci benedice, poi passano, si trasformano in passato, e il passato non ritorna mai più. La malinconia è il nostro ricordo di una felicità trascorsa”. “Perfino le luci più fulgide – infatti – si spengono. Perché è così; muori e la vita continua il suo corso senza intoppi. Si comporta come se tu non fossi mai esistito (…) lei continua inarrestabile, perfettamente indifferente, e noi siamo costretti a seguirla. Siamo costretti a lasciarci dietro chi è caduto, lo abbandoniamo”. “La vita – è la conclusione inevitabile – è sempre in fuga costante dalla morte, eppure è una fuga che porta comunque verso la sua direzione”, confinandoci in una condizione paradossale della quale non possiamo pensare di venire a capo: “Chi sa tutto perde la capacità di vivere, perché è l’incertezza che spinge l’essere umano ad andare avanti. L’incertezza, la paura, la solitudine, il desiderio”. Ma ecco un altro lato del paradosso: “Tu non sai un granché, questo è vero, ma quando scrivi vedi attraverso i muri (…), senti le parole d’amore sussurrate all’altro capo del paese (…). Senti il pianto del mondo. (…) Scrivi, e non dimenticheremo. Scrivi. E non saremo dimenticati. Scrivi. Perché la morte è solo un altro nome dell’oblio”.

Lo avevamo già letto, del resto, ciò che qui Stefánsson ribadisce: “la vita cresce dalle parole, la morte dimora nel silenzio. Per questo dobbiamo continuare a scrivere, a raccontare, a mormorare versi di poesie e imprecazioni e così tenere lontana la morte, per un po’.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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