L’anno più caldo di sempre

Richard Flanagan, Il vivo mare dei sogni a occhi aperti, Bompiani 2022 (pp. 245, euro 18)

“(…) stava per finire l’anno più caldo di sempre”: incendi durati mesi, intere zone evacuate e divenute inabitabili, città soffocate dal fumo e a rischio di rimanere senz’acqua; incertezza – su quanto avvenuto, su quanto potrebbe avvenire – resa con l’immediatezza di un pensiero disorientato e angosciato che cerca di inquadrare la situazione. L’esperienza vissuta nell’estate di quest’anno avvicina il racconto di quella del 2019 in Australia, che l’autore inquadra nel più generale sconvolgimento indotto dal cambiamento climatico costellando la sua narrazione di riferimenti alla dimensione planetaria del fenomeno: “(…) intanto metà della calotta glaciale della Groenlandia si scioglieva, in Francia si registrava il giorno più caldo di sempre, un piccolo topo marsupiale australiano era la prima specie a essere spazzata via dal cambiamento climatico e gli ultimi rinoceronti di Sumatra morivano”.

Ma tutto questo è lo sfondo sul quale si proietta una vicenda familiare dominata dalla malattia terminale di una ultraottantenne e dagli atteggiamenti che, rispetto alle scelte che i medici prospettano, via via i suoi figli assumono. Due maschi, Tommy e Terzo, e una femmina, Anna: tutti segnati dal suicidio di un fratello minore, avvenuto anni prima a seguito di vicende di abuso vissute nel collegio di religiosi che anche gli altri due fratelli avevano frequentato, elaborando poi quelle stesse vicende in modi diversi. Dominante appare comunque Terzo, uomo di successo nel mondo della finanza: è a lui innanzitutto che si deve l’accanimento terapeutico di cui la madre sarà vittima, e le pagine in cui lo si descrive sono fra le più crude e insieme commoventi del libro.

La Storia e una storia, dunque, in questo come in molti altri romanzi? Anche qui l’esercizio con cui spesso la letteratura si cimenta innestando una vicenda particolare su quella generale?

Non pare si possa applicare questo schema interpretativo al romanzo dello scrittore australiano: il disastro ambientale e l’offuscamento degli scopi della cura non sono che due aspetti di una crisi più vasta. Una crisi di civiltà che si manifesta in un generale, pervasivo processo di perdita: della socialità, dell’amore, del rapporto con la natura e, soprattutto, della capacità di rendersene conto. O meglio, della disponibilità a parlarne: “Paradossalmente, peggio di quando il mondo non se ne rendeva conto, era quando la cosa accadeva, pensava Anna, e le sparizioni diventavano una storiella sepolta in qualche sito di controinformazione, come se si trattasse, nel migliore dei casi, di roba da pazzoidi o di complotti da social media, e nel peggiore di notizia non degna di nota”. Ma di quali sparizioni parla Anna? Qui sta l’azzardo del romanzo: la perdita generalizzata dei valori e dei comportamenti alla base della riproduzione sociale si metaforizza nella scomparsa progressiva di parti del corpo, a partire da un dito della mano di Anna. Un fenomeno privo di cause comprensibili, di fatti che lo possano spiegare: di colpo, al posto del dito, una sfocatura, come quella ottenuta con photoshop nell’immagine di volti che si vogliono rendere irriconoscibili. Nessuna ferita, niente dolore, ma le sparizioni di dita, orecchie, nasi, braccia, fino all’intera persona, dilaga. E nessuno dice niente: “Per un po’ Anna cercò di parlarne, ma il fatto era che più continuava a tirare fuori il discorso più gli altri si lasciavano distrarre da altri argomenti. (…) Parlava di occhi mancanti e loro parlavano del primo ministro. Parlava di figli che scomparivano e loro parlavano di stress da mutuo”.

Una situazione da romanzo distopico, se non fosse ribadita la dimensione metaforica di queste sparizioni: “più il mondo essenziale spariva, più la gente aveva bisogno di fissarsi sul mondo inessenziale (…) certo la gente parlava ancora, eppure (…) non si trattava affatto di conversazioni in senso proprio, ma di non-conversazioni in cui ognuno s’incaponiva ostinatamente a parlare per scongiurare la possibilità che una conversazione avesse luogo”.

Debordante nella massa di contenuti proposti e nelle diramazioni dell’intreccio, a volte enfatico nella lingua e nello stile narrativo, infarcito di intermezzi visionari richiamati del resto fin dal titolo, quello di Flanagan va tuttavia assunto come un tentativo coerente e per certi aspetti geniale di produrre un romanzo all’altezza del cambiamento in corso, di raccontare una storia che sappia parlare di ciò che si sa ma si finge di non sapere o si impedisce di far decantare in comportamenti concreti: una risposta alla grande cecità della letteratura di fronte a un mutamento senza precedenti.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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