Indossare la propria vita come un vestito

Georges Simenon, Il dottor Bergelon, Adelphi 2022 (pp. 195, euro 18)

Lui, Bergelon, medico condotto, moglie e due figli, vita modesta, lavoro e casa; l’altro, Mandalin, padrone di una clinica, piccola ma remunerativa (nella misura in cui medici come Bergelon gli mandano i propri malati), vita brillante, ricevimenti e cene, come quella cui invita anche il collega che alla fine si è lasciato convincere e ha fatto ricoverare alla clinica una donna alla vigilia del parto. Stanno esagerando nel bere, sia il padrone di casa che l’ospite, quando non possono esimersi dal soccorrere la partoriente, ma sono ubriachi… Risultato: durante la notte, muoiono sia il bambino che la madre, e il marito, e mancato padre, comincia a perseguitarli, a minacciare soprattutto Bergelon, che sente più simile a sé e proprio per questo imperdonabile. Senonché, il dottore nasconde nella sua normalità, nel decoro della sua vita, nella routine della sua professione un’anima inquieta. Né felice né infelice: potrebbe continuare fino agli ultimi giorni la stessa vita se non fosse intervenuto quell’episodio, in sé privo di conseguenze per la sua figura pubblica ma capace di far deflagrare la sua intima insoddisfazione. O meglio: il suo non aver saputo mai aderire alla propria vita, l’aver sempre sentito di indossarla, ogni giorno, come un vestito, sotto il quale non c’è un Io pronto a manifestarsi, a realizzarsi magari, ma solo una vaga aspirazione a cercare altro, un’altra donna, un altro luogo, un altro mestiere forse. Non si spiegherebbe altrimenti la strana attrazione che il giovane medico prova per il vedovo che lo minaccia di morte e pure percepisce a sua volta una vicinanza con la sua vittima potenziale.

Non si pensi a un personaggio tormentato: la crescente irrequietezza che Bergelon avverte gli risulta “piacevole”, gli fa desiderare un cambiamento in cui si mescolano il bisogno di dare sfogo al proprio, per altro labile, rimorso; la voglia di non accodarsi al perbenismo cinico del collega più intraprendente; la sensazione che sia venuto il momento di provare a vivere una vita diversa. “Se non ci fosse stata quella notte, l’infame notte del parto, lui sarebbe andato ugualmente in crisi? Avrebbe provato lo stesso lancinante bisogno di cambiamento? Aveva davvero accettato il suo destino una volta per tutte? E se la sua leggerezza fosse derivata proprio dal fatto di non averci creduto fino in fondo?”

Precede la famiglia nelle vacanze al mare, incontro una donna con cui intreccia una relazione del tutto superficiale, fugge prima che la moglie la scopra e vaga da una città all’altra – Le Havre, Anversa, Parigi –, ma lo sa bene: “Avrebbe potuto benissimo andarsene sei mesi o due anni prima”.

Certo, da solo in città che non sono la sua lo spaesamento si fa avvertire, ma “Quello che lo angosciava un po’ – no, angosciare era troppo, diciamo quello che gli dava un senso di apprensione, di vertigine – è che tutto questo non gli sembrava abbastanza reale”: quell’inveterata incapacità di aderire alla (propria) vita che l’aveva fatto scappare si ripresenta anche nei luoghi in cui aveva creduto di desiderare di vivere. Non ci resterà, così come all’ultimo momento rinuncerà a sparire imbarcandosi come medico su una nave da trasporto.

Tornerà a casa invece, alla sua cittadina di provincia, alla sua condotta medica: “dove era andato in fin dei conti? Non era andato da nessuna parte! Aveva tracciato in largo semicerchio intorno a Bugle”, la cittadina dove è sempre vissuto.

Diversamente che per altri personaggi di Simenon, travolti dalla propria normalità, il dottor Bergelon tornerà a trovarvi rifugio. Né felice né infelice.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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