Desiderio di mondo

Oriella Savoldi, Costellazioni terrestri, GAM editrice 2020 (pp. 192, euro 15)

“(…) senza proteste per gli anni andati / dalla finestra osservi / le tracce del tuo passaggio”: lo spirito con cui guardare alla propria vita è dichiarato già nella prima pagina di questo libro, che come ogni libro ha avuto una storia, e si è prefisso degli obiettivi. Di questi leggiamo nel brano di apertura, un quadro esemplare – sul quale vale perciò la pena di soffermarsi – delle motivazioni e delle attese che la scrittura autobiografica sottende.

L’“urgenza di scrivere”, innanzitutto, fattasi indilazionabile nel passaggio decisivo che in un’esistenza rappresenta l’abbandono dell’attività lavorativa. Un’urgenza consapevole tuttavia di non potersi tradurre senza mediazioni in scrittura: quel che si è stati grava su quel che si è attraverso “richiami vischiosi”, immagini di sé parziali ma radicate, “sensi di perdita e di non ancora” che rischiano di cristallizzare lo sguardo sulla propria esperienza. Uno sguardo che si vuole nuovo, complessivo, all’altezza della nuova fase intrapresa e può nascere solo da uno “slancio” che si faccia determinazione coraggiosa a cercare “il filo della (propria) storia” senza pretendere di tracciarne a priori il disegno. Scoprendolo invece, “giorno dopo giorno”, nei “varchi” attraverso cui la memoria – secondo un ordine proprio, discontinuo, spesso divergente da quello cronologico quindi – lascia affiorare il ricordo di momenti che hanno segnato la quotidianità e non hanno cessato di stagliarvisi, conservando uno statuto di diversità dai fatti minuti che l’aver riempito i giorni non ha salvato dall’oblio.

È la memoria involontaria, dunque, ad essere chiamata in gioco? la sua casualità enigmatica?

Perché, in altri termini, nelle pagine che seguono leggeremo di un fatto piuttosto che di un altro? perché quell’episodio, quell’incontro invece che altri sono divenuti oggetto di scrittura? La risposta è già qui, nelle prime pagine: sono le “ombre”, i “nodi che hanno imbrigliato la scioltezza del filo” della propria esistenza a meritare uno spazio privilegiato nel racconto, ed è “l’impronta del bisogno che l’(ha) contraddistinta” a delimitarne il campo. L’esperienza sindacale e il femminismo, la dimensione pubblica e l’orizzonte politico, non devono impedire di risalire a quel bisogno fondamentale. È un punto decisivo, questo: la scrittura autobiografica può, deve, allargare lo sguardo oltre il che cosa si è stati – la professione svolta, i ruoli giocati, gli scopi dichiarati che hanno ispirato le scelte – per dar conto di chi si è stati, e si è. Il campo, in un primo momento coincidente con la vita adulta, chiede quindi di esser dilatato a comprendere l’infanzia, e a scoprirvi il segno dell’unicità – cosa diversa dall’eccezionalità – che contraddistingue ogni vita. E quel segno è identificabile, in questo caso, nel “bisogno di non perdere di vista la vita materiale delle persone, le cose, i luoghi”. Gli altri e le altre, dunque, ma entro i contesti e la concreta storicità che li ha visti disporsi in costellazioni via via concretamente intervenute nel corso della vita, animate da compagni e compagne di strada cui la scrittura consente di offrire il riconoscimento dovuto al di là del “riserbo” che troppo spesso ingabbia le nostre relazioni, le parole che ci scambiamo. È “riguardando il legame” con queste persone che diventa possibile “rivivere” le proprie esperienze fondamentali nei loro tratti caratterizzanti. La tendenza alla “fuga”, in primo luogo, sull’onda di un “desiderio di mondo” che porta a “non rimanere schiacciata dai legami famigliari”, a fuggire la “litigiosità quotidiana” e il “mare agitato del non detto” che dominavano i rapporti fra i genitori, a fuggire “per troppo amore. Per poter riconoscere le loro impronte nella donna che sono e sono stata”, ma anche “per amore della vita potente” del nipote da poco giunto, il figlio della figlia che forse troverà in queste pagine “segni del suo inizio”: è un ideale passaggio di testimone, da un’infanzia a un’altra, il fine ultimo di queste pagine di evocazioni e bilanci, riflessioni e speranze.

I capitoli si susseguono nella forma di racconti in sé conchiusi e tuttavia mai privi di rimandi reciproci, secondo una logica che sembra echeggiare quella visualizzata nella copertina: alle costellazioni dei nomi di chi ha lasciato un segno – non puramente ideale ma concretamente terrestre, appunto – nella propria esperienza corrisponde questa costellazione di “frammenti di vita”, disposti secondo la progressione degli anni ma ciascuno, al suo interno, capace di sovvertire il rapporto tra passato e presente: non un prima e un dopo linearmente in successione, ma un qui e ora che alimenta il desiderio di riandare ai fatti e alle figure che l’hanno generato, di portarli alla luce raccontando dell’io che si è stati, per restituire a quello che si è oggi quel di più di senso che la scrittura ha permesso di guadagnare.

Sono momenti indimenticabili perché mai scivolati nel passato, tracce di memoria per decenni custodite quelle che occupano i primi racconti, quei “ricordi ancora gracili dell’infanzia” – verrebbe da dire, con Walter Benjamin – con cui “la vita suole per lungo tempo condursi come una madre che accosti il neonato al suo petto senza svegliarlo”. Ed è la figura del padre a imporsi, il padre dal quale “devo aver mutuato quel passo a lato che sento dentro ogni qualvolta mi vien fatto un torto”, a meno che l’offesa non riguardi altri, perché allora è la voce della madre a risuonare perentoria – Non è giusto! È forse dall’interiorizzazione di questi opposti atteggiamenti che nascerà la scelta del “mestiere di sindacalista” da parte della figlia, mai pacificata tuttavia nel rapporto con la madre, l’una e l’altra impegnate in una lotta sotterranea per ottenere l’amore di lui, uomo segnato da un’infanzia di bambino non desiderato contro la quale ha opposto per una vita uno sforzo tenace di emancipazione, non solo economica, che ha forgiato la sua fiera ostinazione. Un carattere che non verrà incrinato neanche dalla vecchiaia e dalla malattia, e pure capace di riandare alla prima stagione della sua vita e riconoscerne – in un incontro che coinvolge e commuove la figlia – emblemi come il “vecchio ciliegio” che ormai ha cessato di dare frutti (e ritroviamo in uno degli acquerelli che corredano il testo).

Occorrerà non solo tempo ma un’esperienza del tutto inedita perché anche la figura della madre si apra alla comprensione della figlia, che solo quando deve affrontare una maternità vissuta nella contraddizione tra la donna che è e la madre che sta per divenire a sua volta, riesce a superare la propria “incapacità di vedere” nella sua, di madre, “la donna che (era) in un’epoca infelice per i destini femminili”. Diversa da quella che la protagonista del racconto vive, gli anni in cui “il femminismo era un’onda felice”, tale da indurla a ripromettersi con la figlia un rapporto diverso, ben presto gravato però dallo suo stesso “essere donna inquieta, alle prese con se stessa, con quanto andav(a) scoprendo e cercando per la (sua) vita”. Dopo quella con i genitori è la relazione con la figlia a balzare in primo piano, i “passaggi sofferti” che deve attraversare e sembrano ripercorrere, in tempi e contesti differenti, il travaglio del rapporto già vissuto con la propria madre – “Volevo che mia figlia mi vedesse per la donna che ero” – ma diversamente da quello destinato a tradursi in una consapevolezza nuova e rigenerante: “Cadde in me la pretesa e al suo posto trovò spazio la fiducia”. Momenti di presa di coscienza come questo costellano il racconto: il superamento della “solitudine” che a lungo accompagna l’esperienza nel sindacato, in primo luogo, dove sono “i legami con donne che mi hanno mantenuto radicata in me stessa” a far luce sulla possibilità “non di appartenere, ma di essere protagonista consapevole di un contesto troppo spesso ostile alla libertà femminile”.

Non c’è soluzione di continuità fra il vissuto delle proprie relazioni familiari e sentimentali e quello del proprio ruolo professionale e politico, e a garantire questa coerenza sostanziale è il tessuto delle relazioni, quelle di amicizia – l’amicizia femminile, altro da quella con gli uomini, cui tuttavia la voglia di capire la “differenza maschile” apre –; le relazioni d’amore, nelle quali si è fatta strada la convinzione che “amore per la libertà” e “libertà nell’amore” stanno insieme; le relazioni di solidarietà e impegno comune nelle fabbriche; le relazioni nate dalla condivisione di una politica delle donne orientata dal pensiero della differenza: “dalle relazioni è venuto quel di più di intelligenza che giova alla mia vita”, e anche le pratiche che l’hanno arricchita, dall’acquerello alla scrittura, di cui questo stesso libro con i suoi testi e le sue immagini è testimonianza.

È su questa base che gli anni accumulati non si fanno ostacolo alla ricerca da sempre nutrita e che si fa ora – ora che “la vita si infila nel suo tempo breve” – apertura al domani, capacità di evitare “il rischio di proiettare un senso cupo sul presente, a scapito del suo divenire”, fiducia nei giovani che “meno pervasi dall’idea di un futuro da costruire, costi quel che costi, com’era stato per la mia generazione e per quelle immediatamente precedenti”, possono “restare più concentrat(i) sulla vita che vanno facendo” e così “sottrarsi al fascino di dispositivi esterni, per quanto carichi di promesse di successi futuri”.

È la morte del padre a segnare una cesura decisiva, oltre la quale il racconto aderisce al presente fino a farsi addirittura diario, diario di luoghi e di sentimenti nei giorni che precedono – in Palestina, dove è andata a vivere con il marito nato in quella terra tormentata – il parto della figlia e la nascita di Rami, il bimbo cui il libro è dedicato, a cui parla la poesia che conclude queste pagine.

“Senza proteste per gli anni andati”, recitava l’incipit: scrivere di sé può essere un modo per fare pace con se stessi; una “forma di riparazione” che non prevede autoassoluzioni né è tentata di infliggersi condanne definitive.

Scrivere di sé non è fatalmente segno di ripiegamento, ma può rivelarsi occasione per riconoscere la centralità che le altre, gli altri hanno avuto e continuano ad avere nella propria vita. Occuparsi della propria storia può essere la via per allargare l’orizzonte del proprio sguardo a una Storia che ha bruciato speranze, ma non il proprio “desiderio di mondo”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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