Un laboratorio di cultura militante

Piergiorgio Bellocchio, Un seme di umanità. Note di letteratura, Quodlibet 2020 (pp. 263, euro 19)

Come può accadere, quando si alzano gli occhi sulla libreria di casa e si scorrono i dorsi dei volumi lentamente accumulati nel corso degli anni, la prima impressione è quella di una congerie stratificata a secondo delle epoche, o delle nazionalità degli autori o anche degli editori che hanno pubblicato quei libri. L’arte di disporre secondo un ordine i propri libri è varia, e anche il lasciarli accostati in una sequenza casuale è pur sempre una scelta. Tra tutti spiccano in ogni caso alcuni titoli, alcuni scrittori che sembrano rivelare tra loro un nesso, sia pure indefinibile. Qualcosa del genere capita all’autore di questa raccolta di Note di letteratura, in gioventù soprattutto divoratore di romanzi: fra le tante sue letture, in molti casi “caotiche”, deve prender atto che “la parzialità delle (sue) scelte non è stata del tutto casuale” ma “indica piuttosto “reali preferenze”, che hanno via via privilegiato “quegli autori e quei libri con cui sentiv(a) di avere una particolare sintonia”. La propria biblioteca come diario del proprio cammino culturale, per certi versi esistenziale, quindi. Un cammino che, nel caso di Bellocchio, ha portato a un’impostazione saggistica “sempre piuttosto didascalica”, “a me congeniale oltre che – sottolinea – doverosa”: notazione tanto più apprezzabile in tempi nei quali recensioni e schede librarie oscillano fra il prevalere esclusivo del gusto soggettivo, che di fatto non dà un’idea del contenuto del libro, e l’intento scopertamente promozionale, che puntualmente vi individua un capolavoro. Decisamente altro l’orientamento che preliminarmente Bellocchio dichiara – lui che nei suoi “Quaderni piacentini” aveva per un certo periodo tenuto una rubrica in cui segnalava i “libri da non leggere” (a costo di prendere cantonate di cui poi pentirsi, del tipo includere fra i libri da evitare Lolita di Nabokov).

Sono queste le avvertenze che leggiamo nella breve Premessa e che ci avviano alla lettura di saggi capaci di delineare in pochi tratti il personaggio in questione: Giacomo Casanova, ad esempio, si riassume nella figura di un uomo il cui “talento teatrale” fu “esercitato nella vita anziché sulle scene”, a ciò portato, forse, anche dalla sua “origine bastarda” e dall’”abbandono dei genitori”, circostanze che contribuirono di certo a segnare il suo “destino di sradicato”, segnato da quelle “lacune” originarie che lui per altro “non sentì mai alcun bisogno di compensare, refrattario sempre a ogni legame stabile e legittimo”. Fino a ritrovarsi vecchio, solo e povero: “Unica proprietà il suo passato”, che gli dà l’opportunità di “rivivere la sua vita scrivendola”, nelle Memorie (a lungo lette con superficialità da molti, non escluso Fellini).

Analogamente, la figura di Flaubert emerge con nettezza dal ritratto che ne traccia Bellocchio: una “dedizione assoluta alla scrittura” come “suo peculiare modo di osservare la borghese religione del lavoro”, una religione tuttavia “eretica”, segnata sempre da un “odio del borghese” che non si trova neanche nella “coeva letteratura anarchica e socialista”. Diverso il modi di porsi di Dickens, tormentato dal “bisogno morboso di essere sempre a contatto con il suo pubblico”, un bisogno nel quale occorre d’altro canto riconoscere il segno del suo “rifiuto dell’integrazione”, e dunque la vicinanza ad un pubblico “affamato di libri che, dopo gli sconvolgimenti di un mondo pieno di fermenti rivoluzionari e di delusioni, cerca nel mondo fittizio dei romanzi un surrogato della realtà, una guida nel caos della vita, e un conforto per le illusioni perdute”.

E infine, per fare un altro esempio, più vicino ai giorni nostri, la breve notazione dedicata all’uomo, prima che allo scrittore, Fenoglio: una passione e una fermezza, le sue, che “richiamano il concetto di religione”, ma coerentemente rifiutano non solo il cattolicesimo ma anche “il carattere confessionale e chiesastico” del comunismo, in favore se mai di una “religione del dovere, dell’impegno, della fedeltà fino alla morte”.

In passaggi simili, ricorrenti in queste pagine, risulta evidente il carattere di una critica letteraria intesa, anche, come laboratorio di una cultura politica militante, che simpatizza naturalmente con autori come Čechov, alieno dalle “speranze in un avvenire migliore” e che dunque “non avrebbe mai approvato le teorie leniniste”, ma – con il suo Reparto n. 6 – non poteva trovare un lettore più intelligente e reattivo di Lenin”. O come Orwell, spesso travisato e mal interpretato, ma del quale non si può passare sotto silenzio l’errore decisivo ci credere “che occorresse un apparato di polizia mostruosamente esteso e perfezionato per mantenere il popolo nell’obbedienza”.

Non solo gli autori, tuttavia, vengono riletti criticamente, anche intere stagioni culturali come quella del ’68, quando “Alcuni dei più celebrati profeti del movimento, da Mao a Marcuse, furono in realtà pochissimo letti e men che meno meditati (la sinistra dei padri aveva letto molto di più, anche se in una sola direzione)”. Ma si badi – leggiamo in una nota di uno dei saggi dedicati a Böll – “bisogna affermare che il ’68 è stato un evento di eccezionale portata”, e nonostante “errori e equivoci” che l’hanno attraversato, occorre riconoscere che “Tutti i maggiori problemi che le lotte di quel periodo avevano posto all’ordine del giorno sono rimasti inevasi e anzi si sono aggravati”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

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