Pasqua. Duemilaventi

▸ dai giorni del coronavirus

Uno

Gli occhi sono rimasti sbarrati, anche quando il petto ha ripreso – irregolarmente, quasi impercettibilmente – ad alzarsi e abbassarsi. È restato anche il terrore, in questi occhi.
Un terrore da cui non è scomparsa del tutto l’espressione che doveva averlo preceduto: di incredulità – sta succedendo a me? è così che accade, è così che si muore?
Domande che lo sguardo, non la voce, non ha cessato di fare.
Non esce suono dalla bocca aperta quanto può a gridare la sua fame d’aria.
È muto l’urlo che la vita oppone alla morte, fino all’ultimo, quando ha sconfinato ormai nel silenzio definitivo.
Mi guardano senza vedermi, i suoi occhi. Si aggrappano a me, perché le mani non possono smettere di annaspare, come a ghermirla quell’aria che incredibilmente si è fatta più in là, oltre un muro che nessuno vede. Là, dove stanno gli altri, che non sanno di respirare.
Solo un gorgoglio profondo si intende ancora, a tratti. È liquido, non aereo, il fluido che non ha abbandonato i recessi di questi polmoni che non vogliono interrompere il movimento imparato dall’aria nel primo incontro con il mondo di fuori, in un tempo che la memoria non sa.
Un ritmo che il corpo non aveva mai più dimenticato e credeva suo per sempre. E dunque non ha potuto, non può immaginare di restarne privo.
Non sa nulla del cadavere, il corpo.

Ma dov’è adesso, lui? La coscienza sta tornando al cervello come l’aria ai polmoni? Se n’era andata da quegli occhi arrovesciati, poi chiusi: è tornata in questi che mi fissano?
Il suo cuore ha ripreso a correre rapido, come aveva certamente fatto prima di rallentare fin quasi a battere ogni volta come fosse l’ultima.
La prima parola, finalmente. O qualcosa di simile a una parola. Che non capisco: non conosco la sua lingua. Chiamo Cristelle, che prima di imbarcarsi con noi è stata a lungo in Africa: gli dice qualcosa.
Per la prima volta da quando siamo riusciti a tirarlo a bordo i suoi occhi guardano di lato, cercano il volto di chi gli ha parlato.
Alzo gli occhi al mare. Al sole.
Potrebbe essere estate.
È il giorno di Pasqua.

Due

Aveva perso la vista, è riuscita a dirmi. E adesso invece mi vedeva bene, e le ha attraversato il volto l’ombra di un sorriso a un certo punto: era riuscita a deglutire e sembrava volesse condividere con me la soddisfazione. Perché le si era chiusa la gola quando i suoi polmoni erano sembrati ricorrere a quell’estrema difesa contro l’ostruzione dei loro alveoli allagati, ma adesso: …cata …elli, ripeteva, sorridendomi apertamente. Ripescata per i capelli: dovevano essere state le prime parole che era riuscita a discernere fra quelle che dicevamo e a lungo lei non doveva aver percepito, se non forse come un ronzio indistinto, lontano. Una mano alla gola ancora dolorante, come a proteggerla dall’artiglio che aveva sentito stringerla; l’altra, appena sotto, aperta, le dita divaricate a difendere il petto dal macigno che aveva sentito schiacciarla.
Nel pomeriggio, nonostante le dicessi di non sforzarsi, che capivo lo stesso, Rosaria ha voluto raccontarmi. Parlava in modo intelligibile ormai, per me almeno.
Anna, volontaria giovanissima, con qualche nozione di infermieristica, unitasi a noi solo da un paio di settimane, mi guardava stupita dei cenni di assenso che intervallavano il mio ascolto. Doveva dubitare che li facessi solo per rassicurare questa donna florida dai capelli neri, la pelle scura tornata ora liscia e luminosa dall’opacità che l’aveva raggrinzita. 
Da piccola, bambina ancora, Rosaria andava giù al mare con i genitori – stavano in un paese sulla collina, a un paio di chilometri dalla costa – e il fratello, più grande di lei. La madre restava a parlare con le altre donne sulla spiaggia, mentre il padre, che aveva la passione della pesca ed era pratico del mare, li seguiva al bagno e senza mai buttarsi in acqua li teneva d’occhio dalla barchetta che aveva preso con un amico, anche lui pescatore appassionato.
Invidiosa delle prodezze del fratello, non osava imitarlo nei tuffi che quello faceva, inorgogliendo il padre, ma in una almeno aveva deciso di provarsi anche lei: inabissarsi e, nuotando sott’acqua, passare sotto la chiglia e riemergere dall’altra lato della barca. Aveva scelto il momento, quel giorno, e si era spinta sotto, ma aveva avuto paura: vedere la pancia scura della barca, poggiata su quello specchio lucente che divideva il mondo di sotto, che finora lei aveva solo sbirciato nuotando, da quello di sopra dov’era stata fino a pochi attimi prima, l’aveva spaventata. Ma voleva far quello che faceva il fratello, e dunque aveva riprovato: a occhi chiusi stavolta, per non vedere l’altro mondo che sta sotto lo specchio, per non lasciarsene impressionare.
Aveva nuotato sott’acqua, muovendo veloce le gambe, sentendo che avanzava, ma era bastato poco perché le sembrasse di essere là sotto ormai da tanto tempo da non farcela più a trattenere il respiro, e allora era risalita.
Il rumore, prima del dolore, l’aveva atterrita: era venuta su troppo presto, era ancora sotto la barca e nel tornare a galla aveva picchiato la testa contro il legno. Ecco: lei sapeva com’era sentire che si sta per morire proprio perché aveva fatto quel gioco. Aveva aperto la bocca per gridare e l’acqua le aveva riempito la gola, e gli occhi vedevano solo buio. 
Sua madre la guardava sorridendole, le accarezzava i capelli fradici, le diceva parole che non capiva ma la consolavano. Quando aveva girato la testa aveva visto gli occhi pieni di lacrime di suo padre. E suo fratello, lì accanto, che la guardava come non l’avesse mai vista.
Ecco perché lo sapeva lei, cosa succedeva: aveva già provato ad annegare.
La mattina Anna mi ha aiutato come sempre nella vestizione. Era rimasta in reparto la notte e smontava adesso: non ce l’abbiamo fatta, mi ha detto nel passarmi il casco, Rosaria… alle tre. Una crisi respiratoria violenta… dormiva tranquilla: ero due letti più in là, l’ho vista tendere le braccia, fare un movimento improvviso come per togliersi di dosso la mano di qualcuno, e scappare. Le ho tolto la maschera facciale, Giovanni ha deciso che andava intubata. Ma è andata, ancora brancolando… Forse aveva già perso conoscenza, spero…
È già stata avvertito il marito?
No… L’ultima telefonata che le avevo fatto fare è di un mese fa, poi l’altro ieri gli avevamo fatto sapere che andava bene, che se andava avanti così oggi o domani l’avrebbe risentita…
Va bene, faccio io, dico ad Anna: dopo telefono, vai a casa adesso. Sta piangendo: non ce la faccio più, non si può andare avanti così… Io…
Anche Anna, anche Giovanni, che mi aveva sostituito per la notte, per questa notte di Pasqua, si erano affezionati in modo particolare a questa cinquantenne pugliese, venuta al nord vent’anni fa al seguito del marito muratore. Con un sacco di storie che finché aveva potuto non aveva perso occasione di raccontare.
Rosaria.  
Sono entrato in reparto, ho guardato al suo letto. Ci stava un vecchio adesso, gli occhi chiusi, la bocca aperta.
Lei non c’era più.
Rosaria.
Annegata nell’aria, come i pesci che suo padre pescava.

Un commento su “Pasqua. Duemilaventi”

  1. ho visto qualche mese fa mio padre 94enne con una forte crisi respiratoria ed è un esperienza terribile vedere la fame d’aria quando nell’aria sei immerso!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *