Il viaggio

▸ dai giorni del coronavirus

La valigia era pronta, pesata più volte per non eccedere il peso consentito per il trasporto in aereo. Con Sonia, mia figlia, avevo parlato più volte. Mi aveva precisato l’elenco delle cose che avrei dovuto portarle perché introvabili in Palestina. Con lei e Fabian ci eravamo scambiati impressioni su quanto stava avvenendo in Cina dove l’epidemia investiva migliaia di persone. Il contagio in Italia si stava manifestando. Il mondo ci guardava preoccupato grazie anche al diffondersi di notizie dal tono allarmistico. I provvedimenti del Governo nazionale si alternavano. Ora vertevano sull’introduzione di restrizioni e divieti al movimento delle persone, ora facevano passi indietro rassicuranti. Il tutto accompagnato da polemiche propagandistiche da parte di governi regionali. Principalmente della Lombardia che già allora sembrava essere, con il Veneto, fra le regioni più colpite.

Dal Giappone, dove il contagio sembrava non essere da meno che in Italia, l’azienda per la quale lavora mio nipote Nicola aveva chiuso la sede italiana e inviato per i dipendenti e i loro familiari mascherine e detergenti. Io restavo attenta, ma la comprensione di quel che stava capitando mi lasciava incredula e disorientata.

La valutazione condivisa con mia figlia era che, la mia salute permettendo e se non sorgevano impedimenti, sarei partita. Temevo l’annullamento del volo per Tel Aviv. Israele rumoreggiava su possibili chiusure ai voli provenienti dall’Italia, ma il fatto che fosse uno Stato sotto elezioni e da sempre militarizzato mi impediva di valutare la fondatezza di quella intenzione. Così, giorno dopo giorno restavo in paziente attesa. Fino a due giorni prima della partenza, quando la compagnia aerea mi avvertì con un sms della cancellazione del volo. La mia delusione fu enorme. Acuto esplodeva come un urlo troppo a lungo trattenuto il desiderio di esserci, di essere là dove il mio nipotino Rami di pochi mesi, stava crescendo e scoprendo il mondo intorno. Che perdita!

Infranto il desiderio, al suo posto si è insinuata una tristezza sottile che si rinnova ogni volta che il mio sguardo cade sulla valigia rimasta lì, pronta, mai disfatta, in bella vista nella casa: un richiamo alla consapevolezza di quanto sia illusorio pianificare il proprio tempo. Non che prima lo ignorassi, ma mai come ora mi è sembrato così vero che l’unico tempo possibile è questo presente dove tutto il tempo, passato e futuro, si è riversato. Insieme a tutto il mio essere, a quel che sono e sono stata. Reclusa dentro le pareti della casa. Pochi metri che si allargano per mia fortuna al giardino. Una boccata d’aria in mezzo ai fiori. Una boccata d’aria alla faccia di quel parassita che insidia la vita di ciascuno, di ciascuna, dispensando morte. Alimentando quel mare di sofferenza umana le cui diverse origini mi arrivano senza confondermi. Guerre, occupazioni, distruzioni, embarghi e naufragi premeditati.

Così mi capita di pensare che la paura del contagio rappresenti l’opportunità per lo stato di Israele di liberarsi dei testimoni internazionali per espandere indisturbato la colonizzazione della Palestina. Quale altro motivo se non questo per affidare la gestione dell’emergenza virus al suo potente servizio segreto, per chiudere i palestinesi nei territori occupati schierando l’esercito sui confini?

Sento che tutto questo sta avvenendo in un mondo distratto dal virus, e che quest’ultimo fa meno notizia in alcuni paesi, in particolare quelli più poveri sui quali è caduto un silenzio assordante, e più in altri dove il tono guerresco dell’informazione arriva al punto da deformare la realtà. Le ultime notizie arrivate dall’Italia in Giappone devono aver trasmesso l’idea di un paese ridotto alla fame, se dai dirigenti aziendali di quel paese sono arrivati per i loro dipendenti italiani chili di riso. Certo la situazione per molte persone è davvero difficile, ma descrivendola più grave di quel che è non si favorisce l’individuazione dei provvedimenti necessari, al massimo si alimentano misure propagandistiche – distribuzioni di sostegni in denaro o buoni pasto a pioggia – e si attivano furbizie. O si occulta la realtà, come successo nel dibattito fabbriche aperte/fabbriche chiuse, in cui la condizione di chi lavora in attività essenziali e le necessità di un’economia tesa a garantire un vivere dignitoso non trovano più spazio. Per non dire delle reali condizioni della sanità italiana.

Dal turbamento che mi lascia pensare tutto questo trovo sollievo soltanto quando dipingo e lo sguardo si concentra sulle forme che l’acqua, i colori, i gesti lasciano sul foglio bianco. Mi immergo corpo e spirito ritrovando quella quiete che ben oltre le pareti della stanza ricollega il senso di me, della mia vita all’insieme dei legami che l’accompagnano e la rendono quel che è.

Così scopro che se il tempo si è tutto rattrappito nel presente chiuso delle mie stanze, al contrario lo spazio si è allargato. Da qui, accolgo ogni mattina il mio nipotino. Lo osservo dal video, stupita io stessa di potermi avvalere della potenza di questi mezzi. Leggo le lettere delle amiche vicine e lontane, nel silenzio mi confronto con le loro riflessioni mentre riordino la casa, mi invento lavori di cucito. Sperimento ricette felice di farne un regalo. Rispondo all’invito di condividere nella distanza delle proprie rispettive case esercizi di shodo, con l’inchiostro. Preparo quaderni con gli scritti delle amiche del Cerchio della scrittura, biglietti per gli auguri di compleanno con disegnate le stagioni e i loro fiori. E resto curiosa e fiduciosa di quel che di buono questa primavera ci sta riservando.

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