La ragioni del padre

Franco Ferrarotti, L’uomo di carta. Archeologia di un padre, Marietti 1820, 2019 (pp. 168, euro 14)

Passa attraverso l’evocazione del rapporto con il proprio padre il bilancio che della propria vita e del lavoro culturale più in generale l’autore ci propone in questa archeologia di un padre. Un racconto che – come la Geologia di un padre di Valerio Magrelli –  si staglia sullo sfondo della scomparsa che questa figura ha registrato negli ultimi decenni, come sostenuto da più parti (nei saggi di Massimo Recalcati in primo luogo).

“Non sarai mai niente. Non diventerai niente. Sarai solo un uomo di carta”: il pronostico, severo quanto sconfortato, del padre si direbbe contraddetto dalla strada percorsa dal figlio, giunto – dopo gli anni di formazione, anni che sembrano echeggiare lo “studio matto e disperatissimo” di altri grandi italiani – ad essere riconosciuto come “il padre della sociologia italiana” (“Ma tutti sanno – aggiunge con un tocco di autoironia Ferrarotti – che «mater semper certa est, pater numquam»).

E invece no, quella previsione non era campata in aria: “Ora che la mia corsa è finita e che mi capita, più spesso del previsto, di avvertire sulla nuca l’alito freddo della morte (…) devo riconoscere, per quanto a malincuore, che mio padre aveva ragione. Toglietemi di torno le carte, i libri, gli opuscoli, i ritagli di giornale e non resta più nulla”. Ma non è solo un riconoscimento a posteriori quello tributato al padre, bensì il frutto di una comprensione inevitabilmente tardiva: “Mio padre credeva unicamente alla conoscenza attraverso l’esperienza personale, diretta” ed era quindi, per il figlioletto, gracile e inadatto al lavoro dei campi, un padre “lontano”. Un uomo la cui individualità solo adesso che non c’è più si può mettere a fuoco: attento ai “valori  qualitativi” quanto la moglie a quelli “quantitativi” e “Io – sottolinea l’autore – ero dalla parte di mia madre”, del suo “sovrano controllo razionale”, senza avere “gli elementi per comprendere le “frustrazioni”, le “sconfitte” del padre, uomo immerso nei tempi lenti delle stagioni, in quella civiltà che Ferrarotti sa evocare in pochi tratti – in ciò richiamando i mémoires  di Enzo Bianchi –, uomo consapevole “di essere ormai alla fine, superato, obsoleto. Estraneo alla società”. Ecco il punto: si comprende una persona quando se ne vede la fragilità, e la si sa interpretare come un segno dei tempi che ha vissuto, e questo vale tanto più quando è con i propri genitori che avviene il confronto. Un confronto che si fa via via più lucido in queste pagine, approdando a sintesi suggestive: “mio padre ha rappresentato per me la natura, mentre mia madre è stata la cultura”.  A conti fatti, conclude l’ormai ultra novantenne sociologo, morirò in compagnia dei miei libri. Saranno la mia estrema unzione” (e qui è un altro autore, per altro richiamato in queste stesse pagine, Sartre, il Sartre delle Parole a risuonare: “Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la terminerò: tra i libri”). I libri e insieme i ricordi, la cultura, la memoria, perché “Siamo ciò che ricordiamo, e ricordiamo ciò che abbiamo vissuto e ancor più vividamente ciò che abbiamo letto”.

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