“La maledizione di dover raccontare”

Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere, Einaudi 2018 (pp. 195, euro 17,50 )

“Concepire racconti dove il piano della realtà si confonde con quello della finzione è un gioco molto rischioso”, osserva l’autore, ammettendo che si tratta di “un pericolo che conosc(e) fin troppo bene”. Ma, del resto, attenersi ai fatti non è una soluzione, perché “quando indaghiamo un fatto lo troviamo già aggiustato” e “a noi non resta che fare i conti con qualcosa già diventato memoria, verità plasmata, aggiustata”. Il che non impedisce, anzi: comporta necessariamente, che l’autore si comprometta con ciò che vorrebbe narrare: “Il problema – tuttavia – non è la compromissione in sé, che è inevitabile e per molti versi irrinunciabile e fruttuosa. Il problema sono la natura e il livello di questa compromissione, ovvero se siamo in grado di gestirla, di evitare che ci travolga e che prevalga in noi lo spirito di vendetta”, dal momento che “qualunque racconto implica anche un intento vendicativo di qualche tipo o almeno risarcitorio.” Di qui, la “maledizione di dover raccontare”, una maledizione che non colpisce solo l’autore o, più in generale, gli scrittori, ma ha assunto il carattere di una malattia epidemica, la “malattia del nostro tempo: tutto viene convertito in racconto o comunque pensato in termini narrativi, anche fuori dalla letteratura (…). Nel parlare corrente narrazione è diventato ormai sinonimo di dire.”

La riflessione sulla scrittura, su quella romanzesca in particolare, percorre il racconto che, nonostante la dichiarata consapevolezza della rischiosità del gioco della finzione sembra davvero travolgere l’autore. E non importa quanto lui ne sembri soddisfatto. La messa in scena dell’autore da parte dell’autore stesso, il fare del gioco della scrittura l’oggetto della scrittura stessa non sono di per sé stucchevoli, ma forse occorre aver la leggerezza, il sorvegliatissimo senso della misura del calviniano viaggiatore di una notte d’inverno…  La leggerezza e la misura necessarie per farsi seguire dal lettore, per contagiarlo del piacere che l’esperimento offre allo scrittore, e non ci sono scorciatoie in questo: non basta, all’inizio di un nuovo capitolo, a metà del romanzo, avvertire chi legge che “Semmai non fosse ancora evidente, la voce di questo libro non è più la stessa”, e di affiancare al personaggio alter ego dell’autore l’autore stesso intrecciandone vicenda e discorsi con la storia di Michelangelo Merisi. Nulla da obiettare alla forma del romanzo-saggio, ma qui il romanzo e il saggio sembra, soprattutto nell’ultima parte, che se ne vadano ognuno per la sua strada, proponendo una giustapposizione più che un intreccio, un continuo cambio di registro più che una commistione suggestiva dei piani del discorso. È il postmoderno, bellezza, qualcuno potrebbe obiettare – Tommaso Pincio è pseudonimo ricalcato, non a caso, sul nome di uno degli alfieri del postmoderno, Thomas Pinchon –, ma la constatazione sarebbe lontana dal richiamare motivi di un piacere della lettura che fosse prima sfuggito.

Eppure.

Eppure, arrivato alla fine del romanzo, alcuni tratti dei personaggi restano in mente: dalla malinconia, il cui marchio si riassume nello scoprirsi sempre, fatalmente, spettatori di se stessi, alla connessa mancanza del  “dono di saper vivere”, del non sapersi muovere nella vita come pesci nell’acqua, tendendo invece a osservarsi, senza mai coincidere con la vita.
La vita. La vita e la sua “architettura” che “si fonda sulle attese”: “Il sipario si alza sui beati anni in cui ti balocchi con quel che farai da grande. Poi, a questa prima e dolcemente tragica fase – perché non c’è infanzia, credo, che non riveli in sé un che di tragico  – subentra la seconda, in cui, non più bambino ma comunque giovane, non smetti di crogiolarti, convinto che il meglio debba ancora venire. Infine (…) la fase nella quale, scoperto che il momento in cui diventare grandi è trascorso da un pezzo e non si ha più niente da attendere, si depongono le armi e l’eventualità della morte appare non dico gradita ma almeno una crudeltà non così priva di giustificazioni”.
Passaggio come questo non riscattano forse l’intero romanzo, ma impediscono di abbandonarne la lettura, e la perseveranza è premiata con altre pagine che viene voglia di trascrivere, come quella sul “tempo in cui viviamo”, cui si attribuisce “la semplice forma di una linea retta lungo la quale lo scorrere degli attimi si muove senza inversioni o tentennamenti in un’unica direzione, dal passato verso il futuro”, con la conseguenza che “la forma del presente sarà sempre un punto, una circonferenza di colore nero e dimensioni astratte, un pallino ideale e assoluto simile a quelli che poniamo al termine di ogni frase. È mai possibile?, dico io. Una dimensione misteriosissima qual è il tempo ridotta a una sequela di insulsi pallini che procedono in fila come stupidi indiani?” No, non è, non può essere così: “il tempo, questo  sconosciuto” è una y. “Ogni attimo, ogni singolo istante della vostra esistenza ha questa forma, che è poi la forma di un bivio, di una via che si divide in due (…). Uno dei due bracci, non importa quale, tende al buio, a ciò che in un dato momento non è. L’altro conduce (…) dove lo stesso momento di cui sopra si distende per rischiararsi di luce propria, illuminandosi per quel che è, per come accade. (…) Una cosa o accade o non accade. Unite l’accadimento e il suo contrario all’incertezza che li precede e avrete i tre segmenti di cui è composto ogni singolo attimo. Il tempo non è che l’eterno perpetuarsi di un bivio; unite gli attimi di cui è composta la vita di una persona e avrete la forma del suo destino, una specie di filo che varierà da individuo a individuo, secondo le infinite possibilità dell’esistere, ma che manterrà l’aspetto di un filo spinato, là dove per spine devono intendersi le deviazioni non prese, le possibilità abortite, ciò che poteva essere e non è stato”.

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