Futuro

Non ti muovi nemmeno.
Stai seduta ferma sul sedile scomodo del treno. Hai guardato scomparire la città, mentre il finestrino si allagava di una pianura distesa come un corpo senza speranza, arresa all’enormità del cielo che la sovrasta.
A rincorrere il treno, il giallo e il rosso delle foglie illuminate dal sole ormai radente. Seminano una misticanza dorata che pare la stella cometa.
Speri forse che ti guidi il cammino, quella scia d’albicocca.
Non ti muovi. Pensieri in rincorsa come il paesaggio che ti scorre accanto s’affrettano verso la bocca dello stomaco; disordinati si calpestano, si sovrappongono, formano una folla sguaiata che grava sul diaframma e ti mozza il respiro.
Stai ferma, come se ti sentissi male.
Respira. Inspira profondamente e soffia fuori l’aria. Forte.
Uno-due-tre, devi riuscire a calmarti.


Ho le mani fredde e la bocca riarsa, intorno agli occhi la sensazione gelida di non essere padrona delle mie reazioni.
Non mi era mai capitato di sentirmi così, ma forse una cosa come questa non l’avevo mai fatta.
Certo che sono abituata a contare su di me. E su chi se no? Sono avvezza a guadagnarmi da vivere vendendo attenzioni, effusioni, parti del mio corpo; figuriamoci.
Ma quello è diverso. Per come ci faceva lavorare la Gegia, me e le altre dell’agenzia, alla fine era un po’ come recitare. Indossavo gli abiti di scena, mi facevo bella, e poi si trattava di interpretare la parte che via via costruivo a seconda dei desideri dell’uomo con cui Gegia mi aveva fissato l’appuntamento. Ero brava. Mi bastavano poche frasi per inquadrare il tipo che avevo davanti.
Malizioso? Allora era tutto un gioco di ammicchi sottili in equilibrio sulla punta della lingua che di tanto in tanto facevo balenare fra i denti, ad umettare le labbra. Bisognoso di coccole? Nessun problema. Ho un repertorio vasto di paroline e giochetti da mettere in scena per compiacere il mio acquirente. E al bisogno posso essere autoritaria, materna, turbata come una ragazzina al primo appuntamento o provocante, sguaiata, volgare.
Sono chi vuoi, questo era il motto dell’agenzia, e a questo ci addestrava la Gegia.
Nessuno sa lavorare come le mie ragazze, siamo le più brave… quante volte gliel’ho sentito ripetere.
Questo qui ad esempio, che mi sta controllando il biglietto, cerca il mio sguardo. E’ il tipo che va incoraggiato. Non fa mai il primo passo. In servizio, poi!  Ma se da parte mia gli arrivasse un segnale, ah beh, mica potrebbe tirarsi indietro, ne andrebbe del suo prestigio di maschio!
Nessuna colpa, dopo, nessuna responsabilità.  Avresti dovuta vederla – avrebbe raccontato ai suoi amici con finta modestia –  mica avrei potuto non approfittare …
E con la moglie nessun rimorso…  Mica me la sono cercata…
Chiaro che non lo degno di uno sguardo, ma è ovvio, basta una mini un po’ azzardata e si fa presto ad essere qualificata… Però, ora che ci penso, per quello che vado a fare forse non avrei dovuto vestirmi così.  Magari sarebbe stato più adatto un paio di jeans, o un tailleur semplicino semplicino…
Ma che ne so. In fondo l’impresario che mi aspetta mica cerca una suora, no? Eppoi anche la Gegia lo ha detto: vedrai Fiamma, con il fisico che ti ritrovi non ci vorrà nulla a convincere Betticaini.
E comunque. Quando voglio fare bella figura, io mi vesto così.
Certo, non quando vado agli incontri con Diego, ci mancherebbe. In quei casi lì volo basso… niente trucco, capelli raccolti in una coda alla base della nuca, tuta sportiva ampia e scarpe da ginnastica.
Il mio Diego, il mio cuore, la mia gioia. E’ anche per lui che ho preso questa decisione.
Ho avuto così paura quando me lo hanno portato via. Ho temuto di perderlo per sempre.
Lo lasciavo alla Gegia mentre lavoravo, come avrei potuto fare? Ero sola in città, le mie sorelle vivono giù al paese e comunque non le vedo da anni. Mi vergogno troppo. Quando guadagno molto gli faccio arrivare qualche bel regalo, ma finisce lì. Sarebbe troppo complicato raccontare tutto. Per loro sono quella che ce l’ha fatta, trasferita in una grande città del nord per studiare canto e diventata ricca come organizzatrice di eventi…  Quando ci parliamo al telefono, la sento la loro gelosia. Non mi sono saputa accontentare della vita che mi era stata preparata; loro non me lo hanno mai perdonato del tutto e io ho pagato cara la decisione di andarmene.
Se sapessero quanto sono stanca. Basta con gli appuntamenti che mi procura la Gegia. Non ho più l’età, e gli uomini non sono più quelli di una volta. Gliel’ho detto chiaro: Gegia, io in camera da sola non ci torno più. Mi sono spaventata a morte quando l’ingegnere, così si faceva chiamare, aveva estratto dal taschino un coltello a serramanico.
E’ uno per bene, mi aveva detto la Gegia, pieno di soldi, se lo accontenti vedrai che si saprà sdebitare.
Uno per bene. Ho dovuto prenderlo a calci in mezzo alle gambe per sfuggire alla sua presa, e mentre lottavo per liberarmi lui ha fatto in tempo a ferirmi. Non ci devo pensare, mi vengono i brividi, ancora la sento la lama che mi penetra nella carne.
Basta, è al futuro che voglio pensare. Ho commesso tanti errori, è vero. Diego aveva bisogno di orari ordinati, della mamma che ogni sera lo accompagnasse nel suo lettino, e l’agenzia della Gegia non era certo il posto adatto per un bambino. Quando andavo via mi guardava con gli occhi pieni di stupore, come se non potesse credere che proprio io, la sua mamma, gli procurassi un dispiacere del genere. Sul serio mi lasci qui? Sembrava che me lo dicesse, anche se era ancora troppo piccolo per domandarmelo davvero. Per questo vive in un’altra famiglia. Niente da dire, lo hanno cresciuto bene. E lui è meraviglioso. Studia già al liceo e di sicuro si iscriverà all’Università. Lo incontro una volta al mese alla presenza di un educatore, sarà così fino a quando diventerà maggiorenne. Quando lo vedo, Dio, mi si spalanca il cuore. Penso: ti ho fatto io, roba da non credere, guarda che capolavoro sono stata capace di mettere al mondo.  Lui non è stato un errore. Arrivato chissà da dove, l’ho voluto tenere ad ogni costo, e ho fatto bene.
Adesso che ho deciso di smettere con l’agenzia, posso ricominciare a sperare. Non ci sarebbe niente di male a guadagnarsi da vivere cantando in un locale, e lui ormai è grande, la legge lo lascerà libero di decidere, e ora può rimanere solo a casa, la sera. Devo farmi aiutare dall’impresario a trovare un appartamento carino con due camere, così finalmente… Basta, basta, sto correndo troppo. Sono quasi arrivata, e devo essere pronta, voglio fare una bella impressione, come ha detto la Gegia: qualche passerella per cominciare e poi, vedrai, con il fisico che ti ritrovi non ci vorrà niente ad ottenere serate tutte per te.
Dico la verità, sono terrorizzata. Se mi va male, questa volta finisco sul marciapiede.
Del resto, che altro potrei fare? Non avevo ancora vent’anni quando sono partita dal paese convinta che sarei diventata una vera, grande cantante. Ma le lezioni di canto e la città costavano care.
Quando incontrai la Gegia pensai che non ci sarebbe stato nulla di male a fare un po’ di soldi in cambio di compagnia a ricchi uomini d’affari.
Si tratta di uscire a cena, compiacerli un po’, sai come sono fatti gli uomini. Li facciamo tornare a casa convinti di essere dei conquistatori… mi aveva detto così la Gegia, ma non posso certo darle la colpa. Non mi ci era voluto molto a capire come funzionassero, quelle cene…
La colpa è mia. Pensavo che lo avrei fatto solo qualche volta, per mettere da parte un po’ di soldi, ma poi gli anni sono passati, ed ecco, il tempo è volato via.
Stiamo arrivando. Cavolo se ho paura, mi sembra di tremare.  E se Betticaini non volesse farmi cantare, se fosse solo un pretesto per arricchire il suo locale di una prestigiosa entreneuse?
E poi guarda che posto, ma davvero alla mia età penso di trovare una condizione di vita migliore lasciando la città per cominciare tutto da capo in un paese così simile a quello da cui sono partita tanti anni fa?
Madonna, mi sono lasciata portare via dai pensieri, neanche il tempo di ritoccarmi il trucco.
Ma ammesso che non sia tutto un equivoco, che la Gegia mi abbia detto la verità, che l’impresario esista davvero e che sia disposto a prendermi, io… saprò davvero cantare, io?

BA STA ONE, fu la prima cosa che vide quando poggiò i tacchi delle décolleté viola similpelle sul marciapiede sporco di questa stazione di periferia. Il neon traballante dell’insegna rotta aveva richiamato subito la sua attenzione, rimandandole foschi pensieri.
Mi aspettavo di meglio. Non avrò fatto tutti questi chilometri per niente?
Sottopelle, un brivido deve averle segnalato il pericolo.
Mentre si incamminava verso l’uscita Fiamma vide la sua immagine riflessa sfilare sui vetri chiusi della biglietteria. Niente da dire, nonostante si stia avvicinando ai cinquanta, è proprio un gran bel pezzo di ragazza, e per venire a quell’appuntamento così importante aveva curato ogni dettaglio.
La mini leopardata aderiva perfettamente alle natiche rotonde e lasciava occhieggiare i gancetti della guepière, appena tesi a sostenere calze nere velatissime e con la riga dietro, a sottolineare il mistero di quelle cosce lunghe.
Lo scollo della t-shirt in lamé dorato metteva in risalto il solco dei seni e la bocca, oh, quella era il suo orgoglio. Le labbra larghe e carnose si stagliavano nette sul volto e, da sempre, erano un richiamo irrinunciabile per gli uomini.
Si soffermò un attimo davanti a quelle porte chiuse, si aggiustò il bavero del giubbotto nero in plastica lucida e si incamminò.

L’aspettavo davanti al Bar Impero, sul lato opposto all’ingresso della stazione.
La vidi affacciarsi sulla piazza come un’attrice che saluta il suo pubblico dal proscenio. Drizzare le spalle, scuotere la testa per recuperare l’intenzione dello sguardo e dare movimento alla piega dei capelli, colorati di fresco, e incamminarsi ancheggiando verso il suo futuro.
Sì, futuro, era questo che pensava – ne sono certa – mentre procedeva spedita, la mano destra appesa alla tracolla della borsa, viola come le scarpe, e l’altra infilata nella tasca del giubbotto.
Sapeva come attirare l’attenzione dei maschi. Quella sera, nella foschia infuocata dal crepuscolo, gli uomini assistettero al passaggio di una dea che metteva un passo avanti all’altro al ritmo cadenzato del dondolio dei fianchi.
Sembrava che l’aria le volteggiasse intorno, sospinta in alto dal basculare preciso di quel posteriore maculato e rilanciata in avanti dalle labbra e dalla lingua, che a tempo con le anche gonfiavano sfere rosate di un interminabile chewing gum.
In quel suo incedere sfrontato potevo distinguere la scorribanda di sensazioni contrastanti che la attraversavano.
La paura, certo, ma anche l’audacia del rischio.
Mentre mi veniva incontro, Fiamma pensava che avrebbe puntato tutto quello che aveva per sbancare. Voleva vincere tutto: il suo corpo, la sua vita, quel figlio visto diventare grande a distanza con il timore di sentirlo chiamare mamma la donna che lo aveva, di fatto, cresciuto in sua vece.
La vidi stringere più forte la tracolla della borsa.
Avrebbe azzardato la scommessa più ardita in una volta sola, mettendo la sua voce sul tavolo da gioco. Se avesse perso, avrebbe perso tutto.
Futuro sembrava ripetere dentro di sé. Ora o mai più.
Vedeva tutto il tempo trascorso, e tutto quello che adesso la aspettava in quella piazza, chiederle il conto delle scelte che aveva fatto. Scelte di cui non andava certo orgogliosa.
La guardavo camminare consapevole delle occhiate dei maschi riuniti in capannelli davanti ai due bar prospicienti la piazza.
Non la disturbavano gli sguardi degli uomini. Sapeva come fare ad attirarli e a tenerli a bada.
La vidi sostare spavalda sulla soglia del bar, mentre l’onda di un brivido le correva sulla pelle.
Ferma sulla porta del Bar Impero, si sente piena di speranza e allo stesso tempo molto impaurita.
Si fa scudo masticando a bocca aperta e a ritmo serrato il chewing gum. Muove le mandibole di traverso, lo sguardo rivolto dall’altra parte. Sposta il peso del corpo da una gamba all’altra, ostenta impazienza. Scuote ancora la testa, seminando intorno un’occhiata in bilico: cerca una via di fuga.
Cerca me.
Le mani sono arpionate alla tracolla, ora tutte e due, a denunciare tutta la sua titubanza.
Quando finalmente mi vede, quando riesce a decifrare la mia voce fra i richiami confusi che si affollano e le rimbombano nella testa, tutto il movimento scomposto del suo volto si blocca per lo stupore.
Fiamma? le chiedo sorridendo. Sono Betti Caini. Gegia dovrebbe averti parlato di me.

Betti Caini. Il viso di una donna segnato da un intreccio fitto di solchi. Ero convinta che la Gegia mi avrebbe mandata da un uomo, avevo creduto che si trattasse di un’unica parola, il cognome dell’impresario. Anch’io le sorrido.

Non ti muovi nemmeno.
Il controluce ti protegge, espone al pubblico solo la tua silhouette, contornata dall’alone della tua ombra.
Le luci di quinta intercettano il leggero vibrare della semplice tunica nera che poggia lieve sulle tue anche formose.
L’aria accumulata dentro di te trova un pertugio fra le labbra, piano piano acquista lo spessore di una corda percossa che sospende appena il tempo e poi dilaga, si diffonde, come se la volessi restituire in respiro, prima che il suono trasformi in cristallo il silenzio che ti avvolge.
La voce, ora liberata, esonda fra i tavoli del bar, senza argini si espande nella piazza, rimbalza sui marciapiedi e si infrange sul selciato che risuona, attraendo i pochi passeggeri in transito da questa stazione sperduta di periferia.
Ora ti illumina una luce di taglio che trattiene il contorno della tua ombra.
Quasi ti sovrasta. Ti esorta a raggiungere il futuro lì, proprio davanti a te.

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