Lividino

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I Corni rossi stanno sullo sfondo del paese. Ci sali per una fila di posti di caccia sopra S. Bartolomeo: radure dove ho fatto l’amore, una volta, con Marisa, nascosti dai cespugli. Un cane in cerca, ce n’eravamo andati da poco, muti lo guardammo impazzire ai nostri odori, dove ci eravamo abbracciati nell’erba.
Sopra i Corni rossi c’è la conca di Lividino con la malga. Sotto, le rocce a strapiombo dei Corni e, sopra, quel pascolo verde celato alla valle. A Lividino ci sali da Caregno per una strada ghiaiosa e ripida che quasi metti le ginocchia in bocca. La dolomia si sfalda in pietre bianche e asciutte, perfino polverose, e in settembre ci brillano le bacche del sorbo e l’argento di foglie accartocciate. Il sorbo di monte qui prende un portamento da principe, con piume di sangue e metallo.
Salendo non fai che guardare il sentiero a una spanna dal naso, però quando al passo si arriva si apre, di là ci sorprende il più lieve declivio, e senti quasi il desiderio di qualche bracciata, come in un lago di aria distesa. Allora, ti dico, guarda a sud il crinale nel sole e dimmi se non pare un’immobile onda sospesa quella cresta oltre la quale percepisci il dirupo. Puoi sentire la forza che spinse in alto quel lungo spruzzo di pietra?
Se vuoi salire in vetta al Guglielmo da qui vedi bene il percorso che resta, ma non sai dire se sia vicina, la meta, o lontana.
Da questo cielo di Lividino scendevano in picchiata gli aerei durante l’ultima guerra, per bombardare il paese. Le prime volte risalivano la valle da sud, ma la vicina parete dei Corni rossi li costringeva a mantenersi in quota. Quella volta che non volli andare a scuola e salii di nascosto a S. Bartolomeo, invece, mentre guardavo sul fondovalle il paese me li trovai alle spalle che scendevano bassi sopra di me. Dal Lividino scendevano rasenti i Corni rossi, passavano sopra S. Bartolomeo e si calavano diretti sulle fabbriche d’armi, col loro sibilo pauroso.
E io allora giù a correre perché nelle fabbriche ci lavoravano le mie sorelle e il papà e mia mamma era a casa; e io, bambino, a correre giù per la scarpata con quegli aquiloni bestiali sopra di me.
Dal passo del Lividino si può scendere alla malga per i morbidi dossi ammirando, mi raccomando, l’antico circolo di pietre del bàrec, evocazione di ancestrali raduni di vacche per la mungitura, coll’accompagnamento di suoni e richiami: Sà, sà! Uéssa, uéssa!
Un fremito, però, lo si prova oltre il limite della conca, sopra il dirupo e a picco sulla massa compatta di edifici e traffico che in basso fanno ormai città la nostra valle. Un incerto sentiero ci porta a traboccare tra le rocce scoscese superando un arco di pietra fino ad un giardino incastonato nella rupe, un anfratto colmo di muschio perenne, titillato da perle trasudate dalla volta. Sempre, in estate e in inverno, nell’arido e nella neve, quel guscio di dolomia, quella grotterella discreta offre tepida umidità al minuscolo giardino, un metro quadro, allo smeralo vulvare, conservato all’insaputa dei più, nel corpo della montagna.

(2016)

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