La normalità del male

Pierre Lemaitre, Tre giorni una vita, Mondadori 2016, pp. 228, euro 18

Non tutti conoscevano il bambino scomparso nel bosco, probabilmente assassinato, ma “la sensazione era che fosse il fratello minore di ogni ragazzino come era già diventato il figlio di ogni adulto”: immedesimazione con la vittima? solidarietà con i genitori?

No, solo il piacere inconfessabile di poter godere di un diversivo, di una rottura della monotonia della vita che si conduce a Beauval, una cittadina francese come tante, dell’eccitazione diffusa da voci che in men che non si dica si rivelano del tutto infondate: perché “le dicerie sono una salsa complicata, o viene o non viene”; dipende più dalla considerazione di cui è circondato chi le sparge che dal loro contenuto di verità. Quello che conta, nella cittadina, è poter “pregustare di ritrovarsi unita nel dolore”.
Ma il lettore lo sa, il nome del colpevole, fin dall’inizio: un altro bambino. Non un mostro. Un bambino che non voleva fare quel che ha fatto: è la sua, la voce narrante, è attraverso i suoi occhi che vediamo i fatti. La sua paura di essere scoperto, con i momenti bui della disperazione e le schiarite inaspettate quanto effimere di speranza, sono la costante che ci rende partecipi della vicenda e ci fa proseguire la lettura. E via via conosciamo gli altri personaggi, a partire dalla madre, “cresciuta e vissuta in una cittadina di vedute ristrette dove si osserva e si viene osservati nello stesso tempo, dove l’opinione degli altri è un peso schiacciante”.
Come in certi film, la storia è segnata da una cesura netta: gli anni sono passati, il protagonista ha fatto a tempo a diventar grande, senza che nulla sia trapelato: “ora che era adulto il carcere non lo spaventava più, il suo terrore era il clamore mediatico”, “tutti avrebbero adorato quel fatto di cronaca perché ognuno, in confronto a lui, si sarebbe sentito meravigliosamente normale”.
Sarà questo che accadrà? o nessuno mai scoprirà la verità e lui la farà franca? Né l’una né l’altra… Ma, giunti alla fine, si ha l’impressione che la verità, nella sua sostanza, si fosse già rivelata: in quella meravigliosa normalità.

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