L’altra figlia di Annie Ernaux

Annie Ernaux, L’altra figlia, L’orma editore, 2016, pp. 88, euro 8,50

Chi segue questa autrice non troverà nulla di propriamente inedito in questo libro solo ora tradotto, ma non fosse che per questa pagina

“Racconta che oltre a me hanno avuto un’altra figlia e che è morta di difterite a sei anni”: “mio marito è diventato matto” quando ha trovato la figlioletta morta tornando dal lavoro.
Lo racconta a una vicina, la madre, e lei, bambina di dieci anni, è lì accanto: sente e finge di non sentire, anche quando la madre si riferisce a lei (“lei non sa niente, non abbiamo voluto rattristarla”), e conclude: “era più buona di quella lì.”
Questo il fatto: “quella lì, sono io”, ed è quella lì adesso, Annie, a raccontare: “non rimprovero loro niente. I genitori di un figlio morto non sanno ciò che il loro dolore fa a quello vivo”.
Un fatto che ha segnato la vita della scrittrice, non esclusa la sua vocazione letteraria, apprendiamo. Ma pu sempre un fatto privato, un pezzo di storia della sua famiglia, anche se la morte di una bambina non doveva certo essere un evento eccezionale quando il vaccino antidifterico non era ancora pratica diffusa. Sennonché il fatto non sta in quella morte, ma nel modo in cui se ne ha avuto notizia, e qui ritroviamo l’arte di Annie Ernaux di dare consistenza a ciò che è accaduto, a ricordi, a immagini del passato, facendone occasione per ricostruire un contesto sociale, una memoria collettiva, una mentalità diffusa; per continuare nell’opera di scrivere quell’ “autobiografia impersonale” di cui abbiamo letto nel suo Gli anni (del 2008, e dunque precedente questo racconto, scritto in forma di lettera alla sorellina mai conosciuta, uscito nel 2011).

Da: Annie Ernaux, L’altra figlia

“(… ) a fissarsi nella mia memoria è quel racconto che non avrei dovuto sentire, non destinato a me, indirizzato a quella giovane donna elegante che probabilmente lo ascoltava subendo il fascino delle disgrazie che si teme possano accadere a se stessi. (…) Il racconto che proferisce la verità e mi esclude.
A ripensarci, com’è possibile che, pur consapevole della mia presenza al punto da indicarmi, si sia lasciata andare a parlare di te? La spiegazione psicanalitica – grazie a uno stratagemma dell’inconscio mia madre avrebbe trovato il modo di rivelarmi il segreto della sua esistenza, e dunque sarei stata proprio io l’autentica destinataria del racconto – è, come al solito, allettante. E ignora la storia delle mentalità. Negli anni Cinquanta gli adulti consideravano noi, i bambini, come creature dalle orecchie trascurabili, davanti alle quali si poteva dire di tutto senza conseguenze a eccezione di ciò che riguardava il sesso, a cui si poteva soltanto alludere. E poi c’è un’altra cosa, della quale sono certa perché ho ascoltato spesso, in seguito, racconti luttuosi confidati da donna a donna, in treno, dal parrucchiere o in cucina davanti a una tazza di caffè, come memento mori in cui si sfoga tutto il dolore condividendolo nei dettagli, descrivendo con precisione le circostanze: una volta iniziato a parlare di te non poteva più fermarsi, non poteva non andare fino in fondo. Narrando della tua scomparsa a quella giovane madre, che l’ascoltava per la prima volta, trovava il conforto di una forma di resurrezione.”

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