Pensiero del Presente / Alcune considerazioni sull’invidia di genere

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Abstract: Sempre più spesso nelle sedute di psicoterapia viene portata, soprattutto dai giovani, la difficoltà a trovare una personale identità di genere che rappresenti con forza e stabilità il personale progetto e la personale fecondità psichica. Sarebbe un errore considerare questo come espressione di un disagio individuale: è piuttosto espressione di una incapacità collettiva a trovare un nuovo lessico e una nuova semantica per dare nome agli assetti libidici, declinati nella liquidità della società attuale. Il perturbante tema della differenza, fondamento della costruzione dell’identità del soggetto, richiede di superare le modalità orali di relazione, oscillanti tra avidità e invidia, che si agitano non solo sulla scena della psiche individuale, ma su quella culturale e politica.

In questo nostro tempo, dove la liquidità dei nuovi assetti economici diventa fondamento di una nuova complessità sociale, mi chiedo se alcuni temi, sempre più spesso portati nelle psicoterapie, possano essere stimolo per una rilettura di alcuni passaggi della teoria psicoanalitica. Mi riferisco in particolare al tema dell’invidia di genere le cui vicissitudini, sia sul piano teorico sia su quello clinico, sembrano esprimere con efficacia la storia della difficile relazione tra i sessi.
Se consideriamo l’invidia del pene come unica via d’accesso all’identità femminile, attraverso l’accettazione della castrazione, potremmo essere d’accordo con chi ha letto tale teoria come espressione della cultura androcentrica dell’epoca. Se, però, consideriamo i contributi successivi dati dalle psicoanaliste che hanno proseguito questo filone di ricerca, possiamo dire che l’invidia del pene è solo l’espressione, sul versante femminile, di un’invidia più generale per il sesso dell’altro, il cui corrispettivo maschile è l’invidia per il genitale femminile.
Potremmo considerare l’invidia di genere come passaggio obbligato verso l’organizzazione dello sgomento di fronte all’alterità, tappa per la costruzione della propria identità sessuale, ma non solo. La differenza di genere, paradigma di tutte le differenze, angoscia poiché obbliga a riconoscere lo “straniero” e a riformulare la propria mitologia interpretativa della realtà interna ed esterna, individuale e storica.
Credo che solo partendo da questa ipotesi si possa comprendere il disorientamento di tanti pazienti di fronte ad una identità sessuale che faticano ad organizzare in una relazione progettuale e feconda. Sembra che il passaggio alla genitalità sia ostacolato dal sempre più difficile riconoscimento che l’incontro è possibile solo dopo aver rinunciato all’illusione onnipotente di poter avere ed essere tutto, come una cultura bulimica e confusiva suggerisce attraverso modelli culturali che anche la politica ha fatto propri.
Per entrare nello specifico dell’argomento vorrei portare un caso clinico. Si tratta di un maschio trentenne che si era rivolto a me per il ripetersi di attacchi di panico: da anni compromettevano la sua vita sociale e lavorativa e le precedenti terapie, anche farmacologiche, non avevano sortito alcun risultato. Quando la terapia con me era già avviata, il giovane aveva iniziato una relazione d’amore con una coetanea. Relazione molto complicata, che veniva frequentemente portata in seduta per i suoi complessi contenuti. Sembrava che la coppia avesse messo come posta in gioco non la ricerca del reciproco piacere e di un progetto condiviso, ma quella di capire come funzionasse la spartizione del potere. Non era certo una coppia tradizionalista e, anche dal punto di vista sessuale, non erano per nulla legati a stereotipi sociali. Avevano una buona consapevolezza che la parità nella coppia era un valore, come spesso accade alle coppie giovani e di buona cultura, tuttavia, nonostante questi presupposti più che apprezzabili, entravano in continuo conflitto su temi che riguardavano il reciproco riconoscimento sia come persone separate, sia come persone ciascuna portatrice di un genere sessuale, come se il superamento culturale delle tematiche relative ai ruoli tradizionali femminili e maschili avesse portato alla luce una originaria difficoltà a districarsi nelle differenze. Lei proveniva da precedenti relazioni esclusivamente omosessuali ed era la prima volta che aveva una relazione eterosessuale. Lui aveva avuto altre donne, ma con questa aveva provato per la prima volta una grande attrazione anche sul piano intellettuale. Si erano incontrati “alla pari”, ma proprio questo apriva a più profonde domande su cosa significhi essere femmina ed essere maschio e, ancor più, cosa significhi incontrarsi.
Sembrava che i ruoli, stereotipicamente distribuiti in attivi e passivi, maschili e femminili, si mescolassero in modo confusivo, creando frequenti occasioni d’attrito, poiché nessuno dei due si sentiva pienamente riconosciuto dall’altro nella propria parte desiderante, espressa da un’appartenenza di genere cui faticavano a dare forma. Questo ricadeva spesso nello spazio dell’intimità sessuale, dove compariva un disorientamento riguardo all’immagine di sé che, nella coppia, spesso riverberava in forme incomplete, deformate, spezzettate.

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