Riconciliarsi col passato, raccontandolo

Daniel Mendelshon, Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea, Einaudi 2018 (pp. 312, euro 20)

 “La nostra Odissea l’avevamo vissuta – per la durata di un semestre avevamo navigato insieme, per così dire attraverso quel testo, un testo che a me, seduto lì a osservare la figura di mio padre, sembrava sempre più relativo al presente che al passato”.

L’incontro tra un figlio e un padre, un incontro a lungo rimandato, che poi si realizza in circostanze imprevedibili per entrambi. Un corso universitario e poi una crociera.
Quanti romanzi sono usciti su questo tema in questi ultimi tempi, tempi di “evaporazione” del padre? (Giusto la scorsa settimana si parlava in questi Appunti di quello di Lewis). Qui però non sono state solo le inevitabili complicazione che attraversano ogni famiglia a dividere il genitore dal figlio, ma anche il fatto di essersi entrambi arroccati in punti di vista sul mondo molto diversi, ricercatore scientifico uno, scrittore e professore di letteratura l’altro. Ma è proprio un’opera letteraria il luogo dell’incontro. Jay Mendelshon, ormai ottantunenne, decide di frequentare il seminario che Daniel terrà sull’Odissea. Se l’autore avesse voluto far filtrare per allusioni e metafore l’analogia fra la loro vicenda e quella di Telemaco con Odisseo, e di quest’ultimo con il vecchio padre Laerte, il risultato non sarebbe probabilmente stato così convincente, e coinvolgente. Mendelshon sottolinea invece, esplicitamente, il parallelismo tra la vita sua e della sua famiglia e quella raccontata nel poema omerico, ci torna sopra ad ogni passo della narrazione, stimolato dalle osservazioni degli studenti e da quelle, spesso beffarde, del padre (poco propenso a vedere in Odisseo il grande eroe che si dice), in un andirivieni che mima la circolarità che governa l’esistenza umana ma anche il racconto. Entrambi dominati da un “andamento ad anello” che si realizza nei ritorni che le età della vita comportano e la memoria ordinariamente impone così come nei flashback e nei flashforward, nelle riprese di fatti passati e nell’anticipazione di altri non ancora avvenuti che l’arte del racconto contempla: “giunta esattamente a metà, l’Odissea compie un maestoso giro di trecentosessanta gradi su se stessa e, dopo tutto quel viaggiare, torna al suo punto di partenza”; da poco superati i cinquant’anni, l’autore recupera l’infanzia propria e insieme la giovinezza del padre.

Ma non solo: è l’intero romanzo – uno di quei romanzi che sono anche saggio –a seguire lo stesso modo di procedere offrendo un esempio concreto di “quella straordinaria tecnica narrativa capace di intrecciare presente e passato dilatando un episodio specifico nella vita di un personaggio fino ad abbracciare la sua intera esistenza”. Tecnica narrativa, ma anche arte del vivere: quel che l’Odissea ci dice è che “per poter avanzare nel futuro, bisogna prima riconciliarsi col passato”, ed è utile allora ricorrere alle storie, al racconto, perché “abbiamo tutti bisogno della narrazione per dare un senso al mondo.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Scrivere contro il tempo

Phillip Lewis, La montagna del padre, Bompiani 2018 (pp. 384, euro 19)

Una passione divorante di scrivere, in una famiglia in cui si pensa che non è quello il modo per guadagnarsi da vivere, in una cittadina in cui il pastore e i suoi parrocchiani bruciano i romanzi di Faulkner.

Eppure scrivere, di sé, della propria famiglia, cercando l’approvazione della madre, morta la quale scrivere non ha più senso. E’ la depressione, l’alcoolismo: lo spettacolo di “un’esistenza mancata offerto alla moglie e ai due figli soprattutto. Henry – lo stesso nome del padre – e la minore, Threnody, che ricevono dal genitore un’eredità fatta di centinaia di libri, che amano e leggono insieme, ma anche un sentimento angoscioso della caducità: “guardi all’indietro – scriveva il padre – e ti rendi conto all’istante di tutto quello che hai perso e non è altro che tempo e il tempo è vita. Ci sono ancora dei giorni che ti aspettano. Ti riprometti di fare un miglior uso di quelli che restano. E’ una bugia.”

Il racconto non segue linearmente lo scorrere del tempo: anche dopo che ha abbandonato la lugubre casa sulla montagna fuori dall’abitato, l’immagine del padre si ripresenta, le sue parole continuano a risuonare. Il tempo fugge e “ti ruba l’anima”, ma non impedisce al passato che si è vissuto di non passare più: la volontà di Henry di riscattarsi e vivere la propria vita, lontano, con la donna che ha incontrato, è l’altra faccia del lancinante senso di abbandono in cui la sorella passa dall’infanzia alla giovinezza. Torna, il protagonista, a rassicurare Threnody con la sua presenza, con le sue promesse di portarla via, dove vuole. Non fosse che lei – lo  riconosce – non ha mai saputo dove andare. Rimettere in sesto quella casa maledetta piena di ricordi brucianti allora, e poi venderla, ossia: far ordine nel passato familiare, e poi disfarsene. Henry ci prova, e non sappiamo se ci riuscirà.

Non sappiamo se il suo destino sarà lo stesso di alcuni che “vivono la loro vita morendo poco a poco, a volte così piano che quasi nessuno se ne accorge a parte loro”, o se invece sarà fra coloro che “cadono in quell’oscurità impossibile che è la morte senza neanche il beneficio di una fioritura”. In ogni caso – e sono le parole che chiudono il romanzo – “tutti viviamo le nostre vite come se fossimo sicuri del domani”. Tutti eccetto lui, il padre del protagonista, autore, se non di libri fortunati, delle parole che ha voluto sulla propria tomba: “Straniero a questo mondo, il tempo non se ne accorse. Non omnis moriar.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il prima e il dopo che segna le vite

Roberto Alajmo, L’estate del ’78, Sellerio 2018 (pp. 173, euro 15)

In tutte le vite c’è un prima e un dopo. Un giorno, una stagione, un anno che hanno fatto da spartiacque. Ma devono essere passati perché la loro crucialità risulti evidente.

L’estate attorno alla quale gravita il racconto di Alajmo è quella in cui ha visto per l’ultima volta la  madre, e che fosse l’ultima non lo sapeva. Sarebbe stata diversa, si sarebbe comportato in un altro modo… Ma non affoga nel rimpianto o, peggio, nel rimorso, Roberto: racconta, invece, il prima e il dopo di quell’estate. E non ci sono né colpe da espiare né risarcimenti possibili; né buoni né cattivi, e il disamore arriva com’era arrivato l’amore, “la felicità non si cerca né si trova: la si incrocia”. Tutti hanno fatto quel che han saputo fare. Nella sua come in tutte le famiglie. Avrebbero potuto fare diversamente? Certo, se non fossero stati dentro il momento che stavano vivendo, se avessero potuto vedere il loro presente come fosse già passato e fosse stato loro possibile riconoscere in un gesto quotidiano l’evento che segnava irreversibilmente il cambiamento.
Era e continua ad essere così. Ora che è adulto e ha un figlio, Roberto lo confessa: non si è reso conto del “lungo smottamento impercettibile durate il quale lui cresceva e io invecchiavo”,  una trasformazione silenziosa – direbbe François Jullien –  di cui l’evento non è che lo sbocco. C’è stata l’ultima sera in cui ha accompagnato in camera sua il figlio, ma non ha saputo accorgersi che quel momento portava “ognuno su un binario diverso”.

E’ una riflessione dolente sulla vita, sul tempo che la attraversa e travolge quadri famigliari che erano sembrati destinati a durare in eterno, ma il tono non è quello del lamento, tantomeno dell’angoscia: non pacificato ma neanche assillato dalla caducità delle persone e dei loro affetti, il racconto richiama la schietta, empatica curiosità per la vita dei genitori che avevamo trovato nel Ford di Tra loro, ma ancor più  l’atmosfera di Lessico famigliare, in cui lo sguardo bonariamente ironico che sottolinea le idiosincrasie dei personaggi ne restituisce l’ irripetibile unicità.Che cosa avrebbe “pensato –  lei , la madre, finita tragicamente nel gorgo della depressione e della dipendenza dai farmaci – della mia vita, delle scelte che ho fatto, delle donne che ho amato, dei libri che ho scritto”, si chiede l’autore nelle ultime pagine: che cosa avrebbe pensato “di questo libro. Le sarebbe sembrato troppo duro?”

Domande senza risposta: scrivere dei morti serve a noi, non a loro.
“Il tempo dei posteri prosegue, scavalcando ogni dolore”.

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Il ’68 e la sua eredità ambigua, e necessaria

Paolo Pombeni, Che cosa resta del ’68, Il Mulino 2018 (pp. 128, euro 12)

Paolo Pombeni, storico, politologo, tenta un bilancio del’68: vent’anni in quell’anno; settanta oggi che ne scrive.

“Per la mia generazione – riconosce – quell’anno è stato una specie di battesimo collettivo, il rito di passaggio da un mondo a un altro.” Fra i tanti libri usciti per l’anniversario, che spesso raccolgono i “ricordi proposti dai reduci, a volte celebrativi, altre volte dominati da un desiderio di autoflagellazione”, questo vuole offrire “una modesta riflessione che viene da chi partecipò sia pure in quinta fila, a quegli eventi, ma nei cinquant’anni seguenti per varie vicende ha dovuto misurarsi con l’eredità di quella fase.”
Prima di tutto, che cosa è stato il ’68? “Molte cose, ma senz’altro in gran parte un’operazione intellettuale”, compiuta, e vissuta, da studenti universitari, cresciuti in un paese  che si era rapidamente modernizzato ma nondimeno propensi a sentirsi “defraudati della speranza di entrare con coraggio in quella che appariva la modernità”. Destinati comunque a subire – spesso cedendovi – le lusinghe di “alleati subdoli”, dall’industria culturale al mercato, così come il fascino di “cattivi maestri”. Risultato: l’abbandono del prosaico, “faticoso e impegnativo riformismo di cui aveva bisogno l’Italia”, e il prevalere della critica dell’esistente, della pars destruens, senza che venissero riservati pari entusiasmo e intelligenza alla pars costruens.

Non ci sono motivi per essere trionfalisti ma neanche per sentirsi sconsolati nel ripensare quel “momento storico”, perché tale è stato il ’68, non si può non ammetterlo: “Ci fu allora un impegno alla riflessione che, pur con tante ingenuità, non fu più rinnovato”.
Detto ciò, l’autore passa in rassegna i campi su cui questa riflessione si concentrò, le argomentazioni che elaborò, le speranze che concepì, ma analizza, anche, l’eredità non di rado “ambigua” che da quel fermento ci è giunta: la critico al sistema educativo, pur non misconoscendo il valore del patrimonio culturale in esso sedimentato, si è di fatto risolta nella “trappola del soggettivismo” in cui oggi ci dibattiamo, fra genitori avvocati dei loro fogli e insegnanti di nuovo autoritari, gli uni e gli altri – ma si tratta di atteggiamenti che vanno ben oltre la scuola – arroccati sulle loro posizioni e ostili ad ogni coinvolgimento dialettico.
Dall’operaismo, altro tratto decisivo della cultura del ’68, e dall’incontro operai-studenti – più episodico e transitorio di quel che apparve in quegli anni – si è giunti alla “chiusura dei sindacati verso le esigenze delle nuove generazioni”; la critica radicale al capitalismo e al consumismo non ha impedito che molti dei protagonisti delle lotte di quei giorni si siano acclimatati nel mondo accademico, economico, politico-parlamentare, così come il rinnovamento del mondo cattolico ha lasciato il campo a una religione intesa come “scelta personale”.
Come da tempo e da più parti riconosciuto, sono il femminismo, la ridefinizione del ruolo della donna con le sue conseguenze su quella del ruolo maschile, ad aver registrato un “successo duraturo”, mentre la contrapposizione al mondo della politica dei partiti non ha costituito un baluardo, a partire dai primi anni ’80, contro il venir meno di una “cultura riformista e riformatrice”, sfociando in alcuni casi in una critica radicale priva di orizzonti che non fossero millenaristici. E involuzione non dissimile ha subito il “comunitarismo”, la logica accogliente dei “gruppi spontanei”, altro aspetto che ha marcato il ’68, molto presto inquinati dallo spirito settario.
Eppure: il comunitarismo stesso, come il femminismo di cui si diceva, e l’idea di un’Italia “paese sbagliato” perché privo di una rivoluzione che abbia segnato una cesura nella sua storia, ma anche la distanza critica dal consumismo o l’attenzione alla dimensione internazionale sono tutti aspetti che hanno lasciato “ un’impronta profonda nella psicologia sociale”, nell’immaginario collettivo degli italiani  “per lunghi decenni”. Decenni che si sono conclusi? è lecito chiedersi, perché a questo servono gli anniversari: a cercar di capire a che punto si è riflettendo dove si era, o si credeva di essere. Nel caso concreto, a riconoscere che quella del ’68 è “un’eredità in cui sopravvivono più gli elementi utopici nell’immaginare il nostro futuro, che le componenti razionali utili a circoscrivere i problemi per provare a risolverli”. Si può essere d’accordo, a patto di ammettere anche che di “elementi utopici” abbiamo bisogno. Oggi, in Italia, più che mai.
E’ alle giovani generazioni – conclude Pombeni – che spetta il compito di raccoglierli, e calarli nel mondo globalizzato dei nostri giorni. Così dando conferma – chissà… – che quello del ’68 “non era che l’inizio”.

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L’avventura colta e avvincente di un linguista

Andrea Moro, Il segreto di Pietramala, La nave di Teseo 2018 (pp. 380, euro 18)

Vivo e vegeto nonostante tutto, il romanzo non ha smesso di assumere forme diverse.

Uno storico della letteratura, Stefano Ercolino, ci ha spiegato che esiste ad esempio, nel panorama intricato della letteratura postmoderna,  il romanzo massimalista (Bompiani 2015), tipo  Infinite Jest di Wallace, Underworld di DeLillo, Le correzioni di Franzen: tutti poderosi (e ponderosi) tentativi di disciplinare la complessità del mondo attraverso la narrazione.
Ma prima, tra fine ’800 e prima metà del ’900 c’è stato il romanzo saggio (Bompiani 2017), quello del Doktor Faustus di Thomas Mann e dell’ Uomo senza qualità di Robert Musil, che cercava di far fronte alla crisi che da tempo minava l’apparato simbolico della modernità e si era fatta cataclisma con le due guerre mondiali, e dunque un romanzo in cui la narrazione si contaminava con l’argomentazione, l’intreccio con il ragionamento, le vicende con le nozioni.

Ecco, se lo si dovesse collocare, quello di Moro lo potremmo considerare un “romanzo saggio”, racconto di una vicenda condita di avventura e di suspense ma infarcita di considerazioni scientifiche che solo un linguista, qual è l’autore, avrebbe potuto seminare di pagina in pagina. Sino a farci arrivare, alla fine, alla incontestabile verità che, se mai avessimo pensato il contrario, “le lingue umane sono oggetti naturali e non convenzioni culturali di natura arbitraria, progettabili a tavolino” come vorrebbe l’avversario del protagonista, Elia Rameau (un linguista, ovviamente). Ma per arrivarci occorre – a Elia, e al lettore – aggirarsi prima fra le case abbandonate del paese fantasma di Pietramala, in Corsica, e le vie trafficate di New York, inseguendo e poi cercando di sfuggire al professor Shannon, velleitario e maniacale ideatore di lingue e leader di un’organizzazione misteriosa – il Giardino degli Equivalenti – che ricorda un po’ la Spectre.

Trama e teoria dunque. Dalle parti del Pendolo di Foucault di Eco, per intenderci. Con la linguistica al posto delle teorie del complotto.

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Emilia, elefante spaesato e gentile

Arto Paasilinna, Emilia l’elefante, Iperborea 2018 (pp. 252, euro 17)

“L’elefante è un miracolo di intelligenza e un mostro di materia”, ma non solo. A sorprendere, in questo essere contraddittorio, è anche la sensibilità:

“Il suo odorato è squisito e ama con passione i profumi di tutti i tipi e soprattutto i fiori fragranti; li raccoglie, li coglie uno ad uno, ne fa mazzetti e dopo averne assaporato il profumo li porta alla bocca e sembra godere del loro gusto”.
La simpatia che Buffon mostra nei confronti di questo bestione, a prima vista temibile quando non sovranamente  indifferente a ciò che gli sta intorno, si ritrova nel romanzo di Paasilinna: Emilia non perde occasione di manifestare la sua “animale amicizia” cingendo con la proboscide e sollevando a un paio di metri da terra chi le si è dimostrato amico, e il suo sguardo, con quelle morbide e lunghe ciglia, ha un’“aria dolce e commovente”.

Ma quello di Paasilinna richiama anche altri pachidermi costretti a viaggi interminabili, in terre a loro estranee: sono spaesati i protagonisti dei testi raccolti in i Morte di un elefante a Venezia (Canova 2004), dell’Elefante di Napoleone di Paolo Mazzarello (Bompiani 2017), e soprattutto quello che incontriamo nel Viaggio dell’elefante di José Saramago (Einaudi 2010). Il peregrinare di Emilia non  si deve tuttavia al fatto di essere stata spedita in dono da un sovrano all’altro, come avveniva in passato: lei è un’elefantina da circo che si esibisce lungo la Transiberiana prima di finire in Finlandia, esule ma sempre accudita con amore da Lucia, sollecita e affettuosa con il suo animale anche più del cornac dell’elefante di Saramago. Non solo custode del suo benessere ma anche mediatrice tra il suo buonsenso animale e la follia, l’ipocrisia, l’avidità degli uomini. Mai condannati però, dall’autore, che come sa restituirci la saggezza intelligente dell’elefante così guarda agli umani con l’ironia bonaria e lo humor che gli sono propri, segno di un piacere di raccontare – senza fretta, indugiando su particolari e cedendo a digressioni – che comunica quel senso di leggerezza, scherzosa ma non del tutto, che con i suoi romanzi ci regala da più di vent’anni (risale al 1994 la pubblicazione in Italia dell’Anno della lepre, con Iperborea).
Attenzione però: bonario sì, ma anche pungente, e apertamente critico, quando se la prende con il formalismo protocollare della UE che non sa tener conto della specificità locale dei problemi, o con il gruppo di verdi che col “Movimento di difesa dell’elefante” si rivelano più interessati alla loro visibilità mediatica che alla difesa della salute di Emilia, senza riuscire tuttavia a impedirle di raggiungere alla fine un parco nazionale del Sud Africa dove “gli elefanti e gli altri animali selvatici possono muoversi liberi, mentre i turisti sono sprangati nei loro campi base da cui possono uscire a vedere la fauna solo in macchina, accompagnati da guide professioniste”.

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Nati per guardare e ascoltare il mondo

Durian Sukegawa, Le ricette della signora Tokue, Einaudi 2018 (pp. 184, euro 18)

Per fare i dorayaki, dolci tradizionali giapponesi a base di pandispagna e marmellata di fagioli, occorre sentimento: a Sentarō, il pasticcere,  sembra una stravaganza della vecchia Tokue – aiutante che da subito si rivela maestra –  quello stare a guardare i fagioli da vicino; a osservarli uno ad uno, come se volesse sentirne la voce, o sperasse comunque di sentirla.

Ma capirà: il libro è tutto qui. Nel percorso di un uomo che si lasciava vivere, oppresso dai dolori del  passato e dai debiti nel presente, e che poco a poco comprende che la via per imparare a vivere sta lì: nel cercar di “sentire la voce di ciò che non ha voce”, nell’imparare ad “essere all’ascolto”. Non è una cosa facile: Tokue è sessant’anni che si esercita, ma si può cominciare a qualsiasi età, anche se si è adolescenti come la studentessa golosa di dorayaki.  Perché la differenza di età non impedisce che l’esperienza, fatta di una ricerca ininterrotta, si possa trasmettere: il tempo della vita non è poi tanto importante rispetto a quello delle stagioni che donano aspetti differenti al ciliegio che sta davanti al negozio di Sentarō e fiorisce, mette foglie, le perde, resta spoglio, rigermoglia, torna a rifiorire.

In questo, come in molta letteratura giapponese, la vicenda è tramite di un messaggio che, proprio perché originato dai fatti e aderente alla vita dei personaggi, non suona teorico, ed è quindi tanto più in grado di raggiungerci: nulla di ciò che facciamo – che cuciniamo dolci o scriviamo libri – si esaurisce nella sua strumentalità, nell’efficacia del procedimento, nella bontà del risultato, ma può esprimere – se si è all’ascolto – un irripetibile modo di rapportarsi a se stessi, e al mondo, e dunque essere la traccia che ognuno lascia del proprio passaggio sulla terra. Perché “siamo nati per guardare e ascoltare il mondo. E il mondo non desidera altro. Perciò – conclude Tokue, non con l’aria di chi sostiene una tesi ma di chi fa una semplice constatazione – il mio essere venuta al mondo ha un senso”.

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La Storia e le storie, le vite e il romanzo

Marco Balzano, Resto qui, Einaudi 2018 (pp. 192, euro 18)

La “marcia su Bolzano” nel ’22, con incendi di edifici pubblici, pestaggi, e i carabinieri che restano a guardare. La città ne esce cambiata: “ancora oggi camminare per Bolzano mi scombussola.

Tutto mi sembra ostile. I segni del ventennio sono tanti”. E dalla città alle valli, ai paesi: “Mussolini ha fatto ribattezzare strade, ruscelli, montagne”, “hanno italianizzato i nostri nomi, sostituito le insegne dei negozi. Ci hanno proibito di indossare i nostri vestiti”. E l’italiano, “una lingua esotica” per chi viveva in “Alto Adige”, è l’unica lingua ammessa: la protagonista, se vuole insegnare, deve farlo nelle “catacombe”, fare la “maestra clandestina”, sotto la minaccia dell’olio di ricino o, peggio, del confino.
Qualcosa sapevamo (i cartelli bilingui, con quelle italianizzazioni spesso fantasiose, a volte grottesche…), ma non altrettanto si sa di quel che il fascismo ha seminato fra i monti del Sud Tirolo: “Sperare in Adolf  Hitler era la ribellione più vera”. Essere antifascisti e filonazisti. E quando, nell’estate del ’39, “i tedeschi di Hitler vennero ad annunciare che, se lo volevamo, potevamo entrare nel Reich e lasciare l’Italia”, dividersi: fra “optanti” e “restanti”, fra chi accetta l’opzione e se ne va in Germania con la speranza di farsi una nuova vita e chi decide di restare perché il posto in cui è nato ha un significato, le strade e le montagne gli appartengono come lui appartiene ad esse.
Ma oltre al fascismo e all’opzione offerta dai nazisti, oltre alla guerra e alla vita alla macchia, alla fuga continua e alle morti di chi ci si era trovati vicino, oltre a tutto questo c’è il progetto della diga, i lavori che si era sperato la guerra fermasse e che riprenderanno invece, costringendo di nuovo alla scelta. Erich, protagonista del romanzo, insieme alla moglie Trina, la voce narrante, non ha dubbi: lui resta. “Perché qui ci sono nato, ci sei nata tu, ci sono nati i miei figli. Se ce ne andremo avranno vinto loro.”

“Le industrie – scrive Trina: per nessuno, per se stessa – stavano trattando Curon e la valle come fossero un posto senza storia. Invece noi avevamo un’agricoltura e allevamenti e prima che arrivasse quell’esercito di cafoni e quella marmaglia di ingegneri regnava l’armonia tra i masi e il bosco, tra i prati e i sentieri. Era una terra ricca e piena di pace, la nostra. Sacrificare tutto questo per una diga era semplicemente selvaggio. Una diga si può costruire altrove, un paesaggio una volta devastato non può rinascere più. Non si può rimediare né replicare, un paesaggio”.
Ma paesaggio è anche quello della Val Venosta di oggi per i turisti che si fermano e si fotografano davanti a quel campanile che spunta dalle acque del lago artificiale, che nel 1950 ha sommerso il paese, “come se sotto l’acqua non ci fossero le radici dei vecchi larici, le fondamenta delle nostre case, la piazza dove ci radunavamo. Come se la storia non fosse esistita.”
La storia è esistita invece, ma se si è fatta romanzo e proprio per questo è riuscita a raggiungerci è perché l’autore ha saputo intravederci le vite, irripetibili come sono le vite, di donne e uomini in carne ed ossa: “Se la storia di quella terra e della diga non mi fossero parse capaci di ospitare una storia più intima e
personale – scrive infatti in una  “nota” conclusiva – attraverso cui filtrare la storia con la s maiuscola, se non mi fossero immediatamente sembrate di valore generale per parlare di incuria, di confini, di violenza del potere, dell’importanza e dell’impotenza della parola, non avrei, nonostante il fascino che questa realtà esercita su di me, trovato interesse sufficiente per studiare quelle vicende e scrivere un romanzo».

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Il suicida riluttante

Auður Ava Ólafsdóttir, Hotel silence, Einaudi 2018 (pp. 188, euro 18,50)

“Devo spararmi in sala o impiccarmi in camera da letto, il gancio del lampadario della cucina oppure quello del bagno? Cosa sarebbe più appropriato, il pigiama, un vestito elegante o i vestiti di tutti i giorni, con le scarpe o solo coi calzini?”

Il tono è questo: dire che questo romanzo tratta, dall’inizio alla fine, di un proposito di suicidio potrebbe fuorviare se non ci fossero questi incisi, queste perplessità irrisolvibili che possono a volte richiamare i tratti dello Zeno Cosini di Svevo.
Certo, ragioni ne ha: la madre non si sa quando c’è con la testa; la moglie se n’è andata; la figlia non è davvero figlia sua. Ed è anche lucidamente realista : “Mi rimpiangerà il mondo? No. Il mondo sarà più povero, senza di me? No. Il mondo se la caverà senza di me? Sì.”
E dunque, perché continuare a vivere, a sopportare una solitudine inattaccabile? Persino il vicino, che pure  cerca la sua compagnia “non dialoga, monologa”, e non c’è da far conto – come i padroni di cani, forse, o gli appassionati di whalewatching – neanche su una possibile un’empatia tra uomo e animale, tra lui e una foca ad esempio: “I loro sguardi si sono incrociati, uomo e animale, nient’altro da dire, nessun significato più profondo”. Quanto a conforti che possano venire dall’Alto, non c’è da farci conto: “non credo più in Dio e ho paura che Lui non creda più in me” – (potrebbe essere una battuta di Woody Allen).
No: l’unica cosa di cui si può esser certi è la morte, la propria morte. Lo sapeva già quando trent’anni prima, quando nei suoi diari di ventenne scriveva che  “La gente muore. Gli altri. Si muore. Con «si» intendo me stesso – (altro che Woody Allen: qui siamo a Heidegger) – . Io muoio. Se avrò dei figli anche loro moriranno. Quando succederà, io non sarò con i miei figli…”.

Senonché: se proprio lo si è deciso, meglio morire lontano, non lasciare a nessuno – tanto meno alla figlia – il compito di occuparsi di quel che lasci… E dunque via: biglietto di sola andata. Per dove? “Navigo in rete alla ricerca della meta più adatta e focalizzo l’attenzione a latitudini di guerra.” E difatti è in un luogo devastato da eccidi e bombardamenti che va – per suicidarsi, naturalmente – nella cornice di  un paesaggio speculare a quello interiore: “la devastazione è ovunque”.
Senonché: all’Hotel silence scopre che qualcuno, di cui non sospettava l’esistenza, qualcuno che per lui era nessuno, ha bisogno di lui.
E’ là che la voce della madre lo raggiunge, in sogno. Lui non se ne rende conto, al momento, ma quella che ha ricevuto è una specie di rivelazione: “Anziché smettere di esistere, non puoi smettere di essere tu, e diventare un altro?”
Grandi domande sulle cose essenziali della vita, e poche risposte, e se non quelle racchiuse nelle vicende che la vita stessa propone e il racconto sembra limitarsi a riferire. Si direbbe, questo, l’orizzonte in  cui si muovono i personaggi di molti scrittori islandesi di oggi.

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Il popolo nella rete

Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Cortina 2018 (pp. 169, euro 14)

Populismo perché i leader pretendono di agire in base al mandato diretto del popolo; digitale perché la nuova relazione tra leader e popolo avviene soprattutto nell’acquario del web.”

Tutto qui. E non è poco: il popolo “nella realtà materiale non esiste – lo dimostra la rapida ricostruzione che l’autore fa dei significati via via attribuiti al termine – se non nelle convenzioni o nelle finzioni della democrazia rappresentativa”. Ma ecco la novità: quello stesso popolo “si è ora ricostituito in rete”. Le promesse di democrazia diretta che la rete – o meglio, i suoi più o meno consapevoli e interessati cantori – ha diffuso, hanno creato il terreno entro cui è rigermogliata l’idea, o la pretesa, di “un popolo che sopprima le differenze di ceto, religione, educazione”. Idea suggestiva ma equivoca: “oggi, dopo l’esaurimento dei grandi movimenti sociali del XX secolo”, ristrette élite sono tornate ad attribuirsi “il compito di guidare il popolo verso la realizzazione della sua natura più profonda” (quella appunto in cui non esisterebbero né differenze di classe  né appartenenze  religiose diverse e dislivelli di natura culturale). Senonché, data la crisi delle istituzioni democratiche, “ora si suppone che il popolo parli e decida direttamente per sé”. E qui sta il punto: la rete e i social oscurano il dato reale, ossia che l’essenza del populismo continua ad essere rappresentata dal fatto che qualcuno parla per conto di “un popolo che non c’è”.
Analisi convincenti del dilagare di questo populismo condotto con altri mezzi dagli Stati Uniti alla Russia si accompagnano a quelle rivolte a casa nostra: Berlusconi, certo, ma il M5S soprattutto. Non tanto perché sia il nemico principale (qui non si gioca, come prima del 4 marzo, al gioco del peggio Berlusconi o peggio Grillo, anzi: Di Maio), ma perché rappresenta “un esperimento politico che non ha precedenti al mondo”, configurandosi come “un sistema multi-aziendale capace di integrare attivismo di base, azione parlamentare e uso sapiente di Internet”; governato, nella sostanza, da un blog controllato da una società di consulenza aziendale.

Demonizzazione della rete, dunque, vista come origine della degenerazione politica attuale? No. L’incapacità della Sinistra – finiti i tempi in cui si poteva ancora parlare di “ritardo”… – di comprendere il carattere epocale dei cambiamenti economici e sociali degli ultimi decenni è un fatto, così come è lì da vedere la maggiore abilità della Destra di sfruttare le potenzialità della rete. Ci sono responsabilità più definite tuttavia, nell’affermazione del M5S: “L’elettorato tradizionalmente progressista e radicale si è sentito senz’altro abbandonato a se stesso sia dal decisionismo presuntuoso di Renzi – cui del resto pulsioni populiste sono tutt’altro che estranee –  sia dalla scomparsa di qualsiasi opzione di sinistra”. Ma c’è stato dell’altro: l’iniziale “illusione di tanti intellettuali e artisti – ma anche politici: D’Alema e Bersani, ad esempio – e cioè delle élite per lo più di sinistra, delle virtù taumaturgiche di Grillo”.
E comunque: non è un pamphlet, un esercizio pur legittimo di indignazione, il libro di Dal Lago. Piuttosto l’offerta di spunti per una considerazione pacata del cambiamento profondo in atto, che non si misura solo nella politica e nell’informazione, ma nella rivoluzione del vissuto dello spazio e del tempo che il digitale determina, e nella connessa perdita di terreno del pubblico rispetto al privato. Un privato esibito continuamente ma non per questo paragonabile al confronto, allo scambio che solo il contatto faccia a faccia permette.
Una considerazione pacata perché “non ha senso esecrare questi sviluppi. Ma è necessario comprenderli”. Consolatorio forse, ma inutile – si potrebbe concludere – cimentarsi in critiche sempre più dettagliate e risentite degli errori e delle derive culturali della Sinistra o della malafede cinica della Destra: occorre capire che cosa è successo e soprattutto che cosa succederà, consci tuttavia del fatto che “la prevalenza della politica digitale su quella reale – una prevalenza che fa rima con quella osservabile nell’economia… – non permette di fare previsioni a lungo termine.” Neanche a breve: leggere questo libro prima del voto del 4 marzo poteva essere utile. Ancor più utile è tornarci a riflettere adesso, guadagnando  la pratica di un’analisi attenta, sempre aggiornata. Perché “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”: Gramsci – non a caso citato in esergo – l’aveva capito.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Storia di banana: giallo fuori e bianco dentro

Shi Yang Shi, Cuore di seta. La mia storia italiana made in China, Mondadori 2017 (pp. 166, euro 17)

Made in China, nel titolo in copertina, è scritto come il timbro impresso sui prodotti commerciali: la storia di cui si racconta si svolge in Italia, ma il suo marchio d’origine è là, in Cina.

Perché è quello che è avvenuto là a spiegare le ragioni dell’emigrazione: l’essersi resi conto, al tempo della Rivoluzione culturale, che “la libertà non era qualcosa di cui si potesse disporre in Cina. Ma soprattutto che l’essere umano aveva un lato oscuro che può concretizzarsi in crudeltà” inimmaginabili. E dunque decidere che il destino del proprio figlio è in gioco, anche se ha appena sette anni, e l’unica via, per “garantire alla propria discendenza un’istruzione e una vita migliori” è separarsene, e mandarlo insieme alla madre nel “Bel Paese, l’Yìdàlì”.
Di qui comincia la “storia italiana” di Shi, il cui primo impatto è con “stranieri” che gli “occhi grandi e i nasi grossi” rendono del tutto simili, indistinguibili: un po’ come i cinesi per noi…

Il fatto è che, una volta partito, non potrai decidere che era meglio prima, e tornare a casa, perché “quando lasci il tuo villaggio per emigrare, ci ritorni solo con l’abito di seta. In altre parole: se non ce l’hai fatta, ti conviene restare dove te ne sei andato. Finisci incastrato in un meccanismo”, fatto di lavori dequalificati, pesanti, sottopagati, di sistemazioni al limite della vivibilità, di rapporti difficili anche con i connazionali. Quelli che Shi e la madre incontrano sono infatti i cosiddetti “ebrei della Cina”,  “dediti al commercio e dotati di un sistema creditizio basato sull’etica del lavoro”, chiusi in “una comunità a sé”, che parla un dialetto incomprensibile.
Né cinese né italiano”, finisce per diventare il protagonista, lontano da una “Cina che continuava a cambiare velocissimamente, senza di noi”, ma straniero anche in Cina quando vi farà ritorno e sarà considerato un “banana: giallo fuori e bianco dentro”.
Eppure, è una storia di emancipazione – umana, culturale, sociale – quella che si racconta in questo libro. Un libro che fa un po’ di luce su donne e uomini che incontriamo ogni giorno, e abbiamo l’impressione di non conoscere.

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Giallo montagna

Ilaria Tuti, Fiori sopra l’inferno, Longanesi 2018 (pp. 366, euro 16,90)

Nella migrazione del giallo verso la montagna, fra l’agente Vogel di Donato Carrisi (La ragazza nella nebbia, Longanesi 2917)  e il Jeremiah Salinger di Luca D’Andrea (La sostanza del male, Einaudi 2016, seguito l’anno scorso da Lissy) fa la sua apparizione Teresa Battaglia, un commissario che anche con il Rocco Schiavone di Manzini ha parecchio in comune.

Ruvida, burbera ai limiti della decenza con i suoi, ma capace di muoversi in un ambiente che pure non è il suo, e di cogliere, “nonostante i panorami annichilenti, l’aspetto fiabesco e i silenzi delle vette”, i “segreti inconfessabili” che si nascondono nelle case di quelli che lì hanno sempre vissuto, “uniti contro il mondo esterno e ciechi, per comodità, verso le proprie colpe”. Perché lei – malata nel corpo, e dunque fragile e sempre in bilico, ma anche nell’anima, di un dolore che non sa passare – non ha molto da perdere: in questo, paradossalmente vicina al serial killer, di cui sa cogliere la destrezza e insieme la ferocia (“ma c’è davvero differenza fra le due cose? E’ forse bravo il lupo che divora la preda o è semplicemente se stesso?”). Ma non si ferma qui: il mostro è stato un bambino, ha una storia (e che storia…), per cui è uno di quelli che “vedono l’inferno che abbiamo sotto i piedi, mentre noi contempliamo i fiori che crescono sul terreno”.

Marini, il suo collaboratore nelle indagini, la segue sollecito, ne sopporta i modi rudi e i sarcasmi senza smettere di cercarne l’approvazione. Ottenendola, di fatto, quando intuisce la cifra che contraddistingue l’assassino, il quale mutila le sue vittime perché “ruba i sensi”, cavando gli occhi per appropriarsi della vista, o dell’olfatto e dell’udito privandole di naso e orecchie (secondo procedure che non possono non evocare Hannibal the cannibal).
Il montaggio dei piani temporali (le due vicende, passata e presente, che crescono in parallelo per poi convergere), ma soprattutto la velocità dello sviluppo tengono stretto il lettore fino alla fine, lasciandogli un’impressione simile a quella che resta dopo essersi bevuti uno dei molti film ad alto tasso adrenalinico che la TV ci serve ogni sera: che l’immaginario del cinema abbia ormai permeato, dopo esserne stato attraversato, quello letterario è un fatto. Nient’affatto deprecabile. Ma qui, si direbbe che il respiro della storia sia piuttosto quello televisivo, se la distinzione ha un senso: un aspetto su cui riflettere…

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La promessa dei pesci

David Vann, Aquarium, La nave di Teseo 2017 (pp. 277, euro 20)

“Non avevano mai sentito il vento. Non avevano mai patito il freddo, né visto la neve. Però dovevano aspettare. E cosa vedevano nel vetro? Vedevano noi, o solo il proprio riflesso, una casa di specchi?”

Caitlin, dodici anni, all’acquario passa ore, aspettando a sua volta: finita la scuola va lì e aspetta. Aspetta che venga a prenderla sua madre, che finisce più tardi la sua giornata di lavoro, operaia a un terminal di container, a Seattle.
La bambina non ha dubbi: “Da grande sarei diventata un’ittiologa. Avrei vissuto in Australia o Indonesia, in Belize o sul Mar Rosso e avrei passato gran parte della giornata immersa in quella stessa acqua tiepida. Una vasca che si estendeva per migliaia di chilometri. Il difetto dell’acquario era che non potevamo nuotare insieme a loro.”
I pesci dei mari tropicali saranno il suo futuro, “emissari mandati da un mondo più vasto. Erano una possibilità, una specie di promessa”. Intanto sono il suo presente, e l’acquario è sinonimo di protezione: “l’appartamento – dove la sera sta con la madre – era il nostro acquario”. Fuori di lì, solo i pesci, e una compagna di scuola che le fa scoprire un genere diverso di amicizia: l’amore.

Un mondo piccolo, armonioso, non fosse per il vecchio che comincia un giorno a incontrare all’acquario. Gentile, curioso: l’unico che sappia guardare i pesci come fa lei.
Chi è? perché sembra aspettare Caitlin come se non desiderasse altro che stare in sua compagnia?
La madre lo sa bene, e quando lo scopre il suo passato irrompe a sconvolgere la sua vita, e la vita di Caitlin, che non sa ma intuisce la presenza del “peso terribile di un debito inestinguibile” e si chiede che cosa dobbiamo a chi è venuto prima di noi”, a chi ci ha messo al mondo e ha a sua volta conti in sospeso con i suoi genitori: “non permetterti mai di darti la colpa per i miei problemi”, la avverte la madre. Ma non basta: “a dodici anni non conoscevo le parole per questo, solo il peso. E ci penso ancora oggi. Quella sensazione che la mia vita sarebbe rimasta in scacco finché mia madre e sua madre non fossero state risarcite.”

A muovere il racconto verso la sua conclusione sono la dolce, ferma determinazione del misterioso anziano amico della bambina a riparare al male fatto; il sofferto cammino della madre per lasciare finalmente che il passato passi e la rabbia lasci spazio al perdono; la conquista del proprio spazio e della libertà di essere chi si sente di essere da parte di Caitlin: “come se da qualche parte ci fosse la forma della mia vita, e avessi avuto la scelta tra alcune variazioni, ma non troppo distanti dal modello”. Perché, lei ne resta convinta, non siamo tanto diversi dai pesci, che lei non si è stancata di osservare ,“ognuno leggermente diverso pur seguendo un qualche modello”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Uomini e cani

André Alexis, Quindici cani. Un apologo, Einaudi 2017 (pp. 201, euro 18,50)

Un “apologo”: è l’autore stesso a definire in questo modo il suo romanzo. Ma Esopo non c’entra, per due ragioni: questi cani non insegnano nulla agli uomini.

Sono loro piuttosto, gli animali, a imparare qualcosa dovendo trarre conclusioni non lusinghiere per gli esseri con cui si trovano a convivere. E poi questi cani restano cani: possono compiacere l’umano guardando con lui un film in televisione, ma non si capacitano della sua soddisfazione: come si può godere di qualcosa che non ha odori?
Neanche Orwell e la sua fattoria sono riferimenti pertinenti, anche se sembrano evocati dalla lotta intestina che divide anche i cani di Alexis. Senonché non si tratta, qui, di una pura lotta di potere: a dividerli in due fazioni è il diverso giudizio sulle conseguenze nate dalla scommessa fatta niente meno che da Apollo ed Ermes (in Alexis il deus ex machina non risolve, non conclude, ma innesca il racconto e lo complica via via). Perché di questo si tratta: i due dei fanno l’esperimento di dare l’intelligenza degli umani – e quindi ciò che la contraddistingue, il linguaggio – ai cani di una clinica veterinaria e, appunto, scommettono: secondo Apollo – che sembra pensarla un po’ come il pastore errante dell’Asia – diventeranno infelici quanto gli uomini; secondo Ermes no: ci guadagneranno. Se uno solo degli animali morirà felice, dunque, il primo sarà smentito e il secondo vincerà.
Ma la faccenda non è così semplice: il pensiero “ci impedisce di essere cani e ci allontana da ciò che è giusto per noi”, pensano alcuni. “Ma sappiamo cose che gli altri non sanno”, pensano altri, primo fra tutti Prince , che si dà alle composizioni poetiche. È la “caninità” a rendere gli uni nemici degli altri: è un conflitto identitario a scatenare la lotta fratricida.

Peripezie e avventure, incontri minacciosi e nuove amicizie: la storia si svolge fra strade e parchi di Toronto, richiamando a volte scenari da Lilli e il vagabondo, soprattutto quando uno dei cani si accasa e stringe amicizia con la padrona. Spaventata dapprima dalle facoltà che scopre nel barbone che ha adottato, e poi via via incuriosita e sempre più amica dell’animale, al punto da porgli domande che non farebbe al marito. Tipo: che cosa pensi dell’amore? E qui la comprensione reciproca si incaglia. Non basta una lingua comune: le visioni del mondo e il modo di starci sono irrimediabilmente diversi. “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo”, diceva Wittgenstein, e difatti al cane non vengono in mente che possibilità canine: fedeltà, sottomissione. E del resto, montare ed esser montati non hanno proprio nulla a che fare con sentimenti reciproci. Ma le tiene per sé  queste riflessioni, perché lo sente: la padrona non lo capirebbe…
E dunque?  Procedendo, la lettura sembra dare ragione ad Apollo: non appaiono portatori di felicità l’accorgersi che si sta per morire, e l’aver coscienza del passare del tempo anche quando la morte è ancora lontana; lo sperimentare il sentimento della la noia; il rischiare di assumere, insieme al linguaggio, la triste capacità di ferire mentre si intende confortare; l’acquisire quell’altra, pure infida, di comprendere anche chi è folle, col risultato di diventare folli a propria volta. Vincerà Apollo dunque?
Andrebbe a finire così se il rimpianto che la morte della padrona suscita nel suo cane non facesse balenare a quest’ultimo un’idea di che cosa sia l’amore, e l’immortalità della poesia non desse in extremis una speranza all’altro cane, il poeta.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Storia di Osac, cane turbato

Romana Petri, Il mio cane del Klondike, Neri Pozza 2017 (pp. 205, euro 16)

Umanizzare il proprio cane, o saperne riconoscere l’alterità animale, anche quando è diventato uno di famiglia: chiunque ne abbia o ne abbia avuto uno sa che non è un’alternativa, e la strada che si percorre è sempre oscillante – comunque la si pensi, quali che siano i propositi che si fanno e le convinzioni che si crede di avere.

Abbiamo sotto gli occhi la signora che veste di cappottini colorati la propria bestiola già ai primi freddi ed è fra le prime a portarla alla pasticceria appena aperta per lei (la bestiola), così come conosciamo quello che lui animali in casa non se ne parla e il cane lo lascia fuori anche in inverno che si deve abituare. La padrona del cane di questo romanzo non si può identificare né nell’una né nell’altra posizione: Osac l’ha trovato ferito e moribondo, e non ha avuto cuore di lasciarlo lì, senza sapere che si stava portando in casa un selvaggio che sembra arrivato dal Klondike di Jack London. Eppure fra i due nasce l’amore, un amore esclusivo, per cui, quando nasce un bambino (lei è una ragazza madre, senza rimpianto di mariti, ma quella che racconta è la storia del cane, non la sua, lo ripete ogni volta che rischia digressioni autobiografiche e taglia corto) Osac è geloso, un pericolo per il piccolo. Lo deve lasciare alla madre, in campagna, e lui, il cane, sprofonda nella disperazione dell’abbandono e torna ad essere, dopo la parentesi domestica che è coincisa con l’amore per la padrona, il barbaro che non aveva smesso di essere: non è una selvatichezza ancestrale che torna a imporsi, ma una storia, la sua storia di cane abbandonato, un storia oscura, irraccontabile (solo gli umani raccontano la loro vita, o quella che credono tale).

Dopo pagine divertenti, piene delle bravate di Osac e della cocciuta e sempre ironica sopportazione della sua padrona, arriva la riflessione sulla vicenda, a dirci dell’ambivalenza che ogni rapporto con un animale (come tutti i rapporti importanti?) porta in sé e dei rimorsi che si lascia dietro: “Era un cane turbato”, “nessuno conosceva come me l’animo suo sempre in bilico, lì oscurità che o perseguitava (…) Un cane che viveva per lo più dentro il suo inferno, che lì si dibatteva, che da lì era in parte uscito quando ce ne vivevamo a Roma insieme, quando aveva creduto nelle promesse della vita nuova. E chi gliele aveva fatte ero stata io”.
Pagine che divertono. Commuovono a tratti, e si fanno struggenti, alla fine. Non riservate comunque solo ai cinofili, l’autrice ne è certa: hai probabilmente un cane “se ancora sei qui”, a leggermi – dice verso la fine rivolgendosi al lettore, “ma è altrettanto possibile che possano intenderci anche persone che di cani non ne hanno mai avuti, pur desiderandoli. Quelle persone che non hanno mai trovato le giuste condizioni: genitori compiacenti da piccoli, una moglie o un marito che compensassero da adulti. Anche queste persone, cui l’incontro vero è mancato, proprio per questo (…) dei cani degli altri, che vedono per strada, fanno un po’ di romanzo (…). Ce n’è di gente che sogna come sarebbe la sua vita se avesse un cane. E hanno poco da sognare, perché per quanto un cane la possa peggiorare, con un cane la vita è sempre un po’ meglio di cos’è senza.”

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Scrivere per tenere lontana la morte, per un po’

Jón Kalman Stefànsson, Luce d’estate ed è subito notte, Paradiso e inferno, La tristezza degli angeli, Il cuore dell’uomo, I pesci non hanno gambe, Grande come l’universo (Iperborea 2011-2016)

Racconta di donne e uomini comuni, donne che guardano il mare in attesa dei loro uomini, pescatori,  e di villaggi sperduti fra ghiacci e nevi, “agli estremi confini del mondo”, in quel “paese inospitale”, in quella “grande isola solitaria” che è l’Islanda.

Eppure, lo sentiamo fin dalle prime pagine: parla anche di noi, Jón Kalman Stefànsson, perché sa, e non smette di dircelo, che le cose della vita, quelle che davvero contano, non sono poi molte e soprattutto non cambiano. Non che la storia non conti –  “non siamo indipendenti da ciò che ci circonda e da coloro che in realtà controllano tutto: le forze della finanza, gli interessi delle società, l’incantesimo meraviglioso del capitalismo” – ma alla fin fine le questioni sono quelle: la vita e la morte, così vicine fra loro; la domanda insopprimibile di un senso dell’esistenza, che il “pantano della quotidianità” offusca ma non può cancellare; lo spazio delle donne in un mondo in cui la verità è maschile. E la solitudine, che “è come un uccello che torna sempre a posarsi sul cuore”; il silenzio che erige muri fra padre e figlio, fra marito e moglie; una Natura – non solo l’ambiente, ma anche il corpo, che di colpo invecchia – estranea e impassibile, spesso ostile.
Può accadere, leggendo i romanzi di Stefànsson, di veder poco a poco delinearsi un volto che ci è familiare, quello di Leopardi, e non è solo l’ovvio ricordo dell’Islandese delle Operette morali a  richiamarlo, ma anche lo sguardo che lo scrittore posa sugli animali che “non pensano alla morte” perché “credono che la vita sia eterna” e non sono afflitti, come gli uomini, dal sentimento della caducità (“chi piange a un funerale, piange nondimeno la propria morte e quella del mondo, perché tutto muore e alla fine non resta niente”), non soffrono di quell’infelicità che solo la prerogativa dell’essere umano di “illudere se stessi” può alleviare.  Ma d’altra parte “chi non sfrutta le proprie capacità non potrà  mai essere felice, piuttosto vivrà nell’ombra della persona che non è mai diventato ma sarebbe potuto diventare”: seguire il proprio desiderio dunque, e affidarsi a quella che è la “sostanza della vita”, non temere il rischio dell’amore, “l’unica risposta verosimile alla morte”. Sono pieni di storie d’amore e disamore, di abbracci di corpi e di separazioni laceranti questi romanzi, trascinati da una forza vitale che non risolve mai il fondo di angoscia che abita l’esistenza ma ha guadagnato la consapevolezza che pessimismo e ottimismo non sono poli opposti e irriducibili ma sfumature cangianti di uno stesso sguardo, modi di stare nel mondo che la vita combina incessantemente.

La suggestione e la densità di questi temi non raggiungerebbero il lettore se il racconto non lasciasse continuamente spazio a lampi di riflessione, e la scrittura narrativa non assumesse a volte il passo dell’epica, o ancora più spesso s’aprisse a momenti di liricità che testimoniano della vocazione dello scrittore, autore di raccolte di poesie prima che di romanzi. Da sempre convinto, comunque, che “il potere e la ricchezza non si accompagnano mai alla  letteratura e forse è per questo che rimane così incorrotta, a volte l’unica resistenza degna di questo nome”.  Anche di fronte al disgregarsi di quella socialità che abbiamo trovato nei romanzi ambientati in un’Islanda di fine ’800, con la trilogia aperta da Paradiso e inferno, e appare invece solo un ricordo nella saga familiare che – con Grande come l’universo – giunge agli anni recenti della crisi, quando “questa nazione che in pochissimo tempo era diventata un modello, un esempio per l’Europa, poco dopo si è rivelata campionessa dello scatto ma un totale fallimento nel fondo”, e nelle piccole comunità in cui, un tempo,  “la vita diventa(va) più grande”, manca l’aria,  al punto che “chi ama l’Islanda a volte deve allontanarsene”.

Oggi tanto più occorre allora non dimenticare che “la vita cresce dalle parole, la morte dimora nel silenzio. Per questo dobbiamo continuare a scrivere, a raccontare, a mormorare versi di poesie e imprecazioni e così tenere lontana la morte, per un po’.”

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Dal Giornale di Brescia del 24 febbraio 2018.
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Tempo e variazioni

Arnaldo Benini, Neurobiologia del tempo, Raffaello Cortina Editore 2017

Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi 2017

“Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so”.

Il dilemma di Agostino non trova soluzione nei libri degli scienziati che pure si interrogano sul tempo. È se mai la domanda a cambiare: non che cos’è il tempo? ma: esiste, il tempo?
Il neurobiologo ne è convinto, pur ammettendo la dimensione soggettiva del tempo: “ Il tempo non è un attributo dell’Universo che noi percepiamo, ma è in noi”, afferma Benini, fin qui nella scia di Agostino si potrebbe pensare. Senonché, prosegue, “ le neuroscienze lo hanno localizzato nel cervello”, e qui addio Agostino e il suo tempo come estensione dell’anima.
Quel che conta, comunque – sempre secondo il neurobiologo – è che, pur essendo prodotto della manipolazione continua che il cervello ne fa, il tempo “è reale”, non se ne puo’ dubitare: “dal momento che i sistemi nervosi che lo realizzano, nell’uomo e in molte specie animali, sono componenti dell’Universo”, “il tempo è una caratteristica reale dell’Universo”.

Ma ci sono i fisici per i quali, “da Einstein in poi, il tempo è un’illusione ostinata”. È con Rovelli in primo luogo che polemizza Benini, e lo cita esplicitamente: “Il tempo non esiste. È necessario imparare a pensare il mondo in termini non temporali, sebbene questo risulti difficile sul piano dell’intuizione”. Ma è possibile prescindere dall’intuizione? Dalla concreta esperienza vissuta? Il fisico sostiene appunto sia una necessità, se si vuol capire il mondo: “la distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente cocciuta illusione”, affermava già nella sesta delle sue Sette brevi lezioni sulla fisica (Adelphi 2014) lo stesso Rovelli, per  ribadire la convinzione, lasciandosi alle spalle anche Einstein, nel libro del 2017: “per descrivere il mondo non serve la variabile tempo”, nelle equazioni delle fisica attuale non compare il tempo. Ma questo, avverte Rovelli, non autorizza a sposare la tesi dei filosofi cosiddetti eternalisti – e viene in mente un celebrato pensatore bresciano – i quali sostengono che “fluire e cambiamento siano illusori”: all’opposto, occorre pensare che “la migliore grammatica per pensare il mondo sia quella del cambiamento, non quella della permanenza. Dell’accadere, non dell’essere”. Eraclito versus Parmenide, insomma (c’è chi, nota di passaggio Rovelli, ha pensato “che sia per sfuggire all’inquietudine che ci causa il tempo che Parmenide ha voluto negarne la realtà”). E dunque – ammette il fisico – “se per tempo intendiamo null’altro che l’accadere, allora ogni cosa è tempo: esiste solo ciò che è nel tempo”.
E qui ci ritroviamo, o almeno sentono di esser tornati a casa quanti non riescono a rinunciare a pensare che “la nostra vita si svolge, nasce e muore, nel tempo, e nulla si può capire della vita se non si abbiano presenti le esperienze del tempo che si snodano in essa senza fine” (Eugenio Borgna, Il tempo e la vita, Feltrinelli 2015). Il tempo come carattere inscindibile della vita dunque,  e il fisico sembra convenirne, in fondo: fatti salvi gli assunti della fisica, il tempo “è la sorgente della nostra identità. E del nostro dolore”. Ecco il punto: adeguarsi a pensare che il tempo non esiste ha il sentore di una rimozione, perché “il tempo è il nostro supplizio. L’uomo cerca solo di sfuggirvi, cioè cerca di sfuggire al passato e al futuro sprofondando nel presente, oppure di fabbricarsi un passato e un futuro a modo suo” (Simone Weil, Quaderni IV, Adelphi 1993).

Forse – ma sono gli scrittori, i letterati a dircelo – conviene credere che il tempo può smettere di perseguitarci se ci convinciamo che il tempo siamo noi, il suo trascorrere è il nostro stesso esistere. Si tratta allora, per ognuno di noi, di farcene una ragione: “per fermarmi nel tempo devo muovermi col tempo” (Italo Calvino, Ti con zero), perché “il tempo è la sostanza di cui son fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco.” (Jorge Luis Borges, Nuova confutazione del tempo, in Altre inquisizioni).

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Ora so di avere cominciato a vivere

Umberto Stefani, Prosa in pezzi. Microstorie, La Quadra 2017 (pp. 148, euro 15)

Il racconto gode di possibilità infinite, anche della possibilità di configurarsi come “prosa in pezzi”. 

Il romanzo invece, nella sua organica continuità, rischia di restare gravato da un approccio ottocentesco, dissonante con le trasformazioni radicali che la nostra vita, il nostro mondo hanno subito.
Questa nota, che l’autore premette ai suoi racconti,  torna alla mente a lettura ultimata, ma l’impressione è – nonostante la frammentarietà del discorso – di aver letto un’autobiografia per racconti e, insieme, un’autobiografia preterintenzionale: nonostante Umberto Stefani abbia scritto questi pezzi  in un arco di tempo che va dal 1983 alla fine del 2017, è la loro unità a imporsi, la loro sequenzialità: un senso complessivo che emerge solo a cose fatte, come avviene – qualcuno ha detto – per la vita, che lascia trasparire la sua trama solo quando la si è vissuta, e sono allora gli altri a potervela leggere. Ma attenzione, il libro si chiude con un’affermazione inequivocabile: “Ora so di avere cominciato a vivere”. Parole che non smettono di risuonare ora che Umberto ci ha lasciato.
Tanto più leggendoli ora, balza in primo piano la lucidità con la quale l’autore ha raccolto i pezzi che aveva scritto. Lucidità derivante dalla consapevolezza che proprio chi scrive di sé è “costretto a tradire intenzionalmente la veridicità dei fatti”: al di là dei propositi di attenersi alla più assoluta sincerità con cui iniziano autobiografie che hanno creato il genere, il racconto traccia poi la sua strada, non sempre coincidente con quella percorsa davvero. Così in questo libro: non perché l’autore ci racconta frottole, ma perché seleziona – drasticamente: proponendoci poco più di cento pagine – ciò che ha vissuto, come l’ha vissuto, non scegliendo momenti eccezionali, da proporre come memorabili per la loro esemplarità, ma  episodi e occasioni in cui sente essersi manifestata la pluralità degli Io che lo hanno abitato, che abitano ognuno di noi, i personaggi di cui siamo fatti, che mettono in scena le attitudini, i desideri che pur senza continuità ci hanno guidato e ci guidano.
Ecco allora il personaggio che guarda: l’eccentricità rivelatrice della vitalità visionaria di un vecchio; la singolarità irripetibile, non omologata e non omologabile, di una commessa di negozio straniera;
oppure le rondini, recuperando, in questo caso soprattutto, lo sguardo penetrante e insieme fantasioso del Palomar calviniano. Il personaggio che guarda non ha dismesso solo i suoi pregiudizi ma anche ogni volontà di spiegare: quello che gli sta a cuore è vedere ciò che la quotidianità piatta, la familiarità che acceca, il modo di pensare diffuso non lasciano distinguere. Non si tratta della rivelazione di significati nascosti tuttavia, ma della possibilità stessa di cogliere significati altri, ulteriori, in ciò che a prima vista sembra del tutto usuale.
Diverso, ma a suo modo legato al personaggio che guarda è quello che dice no, che si oppone, che oppone la propria diversità, e a Santo Domingo – che è come dire: a quel paese – ci manda l’avvocato avido e imbroglione che lo perseguitava e rischiava di costringerlo a una resa avvilente, ma soprattutto sa tenere invita quell’isola di resistenza che può essere (ed è stata) la piccola libreria che nei piccoli libri di piccoli editori sapeva vedere grandi autori: era la libreria del libraio lettore, l’Ulisse di Umberto Stefani, che se non poteva portarli dov’era lui, dov’eravamo noi, aveva il coraggio di andarli a trovare i suoi autori, il coraggio di non temere la delusione sempre possibile dell’incontro: andare da loro intanto che erano vivi, come Bohumil Hrabal nella sua birreria di Praga.
C’è anche il personaggio che non si limita a guardare e a defilarsi , ma passare dalle parole alle cose: sembra, perché i libri che custodisce nella sua casa sono essi stesse cose, con la loro inconfondibile materialità, e le cose via via raccolte – oggetti, immagini – e conservate sugli stessi scaffali su cui sono i libri, non sono a loro volta solo cose, perché sono “cariche di narrazione”: si badi, non narrazione di imprese compiute, ma di momenti di essere; testimoni di piccole epifanie che hanno saputo dare consistenza al presente intanto che era ancora tale, intanto non si era ancora fatto passato. E dunque non sono documenti di una propria eccezionalità da certificare, ma della propria umana unicità: da vivere, da continuare a vivere, appunto, grazie anche a quelle cose che si tengono lì, fra i libri.

Infine, incontriamo in queste pagine il personaggio che, cercando la solitudine non troppo rumorosa nella quale aveva sperimentato – nella prima giovinezza – la propria capacità di pensare, di meditare, come faceva Walser nelle sue passeggiate, adesso, ad anni di distanza, la vuole ritrovare, adesso che non vive più solo ma con una donna, e un bambino, e nel mentre vive lo smacco di non averlo ritrovato, quell’Io che bastava a stesso – o così aveva lasciato credere – scopre che non c’è Io che non sia fatto dell’altro. Sia questo altro la donna con cui si condivide la vita, sia il padre che non c’è più e continua ad esserci, come tutti i padri. Il padre che non sapeva riconoscere i proprio fantasmi ma avrebbe voluto aiutare lui, il figlio, a liberarsi dei suoi. Solo adesso lo si capisce, adesso che lui è morto. Solo adesso ci si può chiede re “perché è così difficile disfarsi della presunzione di credere che siamo noi gli artefici unici della nostra condizione”. Non è, questa, una domanda di quelle che trovano risposta, ma il solo porsela – ci aiuta a capire Umberto – può donare la sensazione di aver finalmente cominciato a vivere. Non a vivere nel senso di saper stare al mondo, come si dice, avendo finalmente dismesso la propria diversità, quella che – anche se è stata fonte di sconfitte e infelicità – ci ha permesso di avere un’idea di chi eravamo: a  vivere nel senso di “quel viaggiare alla ricerca di qualcosa di cui non si sappia il segno” ma che si sa coincidere con “la conoscenza di sé e l’incontro con l’altro”; quel vivere che non teme di concentrarsi nello  “sguardo lancinante sulla propria nascita e la magica possibilità di morire a se stessi per rinascere continuamente”.

“La libreria è stato il luogo della mia migliore sincerità” diceva Umberto aprendo il suo Dalla Mitteleuropa, pubblicato vent’anni fa: “Da allora – aggiungeva – qualcos’altro ho scritto, con l’unica motivazione della scrittura stessa. Di ciò a suo tempo”, concludeva.
Quel tempo è arrivato, alla fine: il tempo per dire, come leggiamo in uno dei racconti, che “la sincerità – quella con se stessi, in primo luogo, credo si possa aggiungere – è condizione prima i tutti i sentimenti”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il peso delle scelte non fatte

Piergiorgio Paterlini, Bambinate, Einaudi 2017 (pp. 140, euro 16,50)

Una storia di ordinario bullismo?  Bambinate – che l’autore presenterà in libreria venerdì prossimo –  è qualcosa di più, e di diverso.

Non solo perché la vicenda si svolge in un’epoca in cui il vocabolo bulli esisteva ma  i giornali non avevano ancora diffuso il suo derivato, ma anche perché la persecuzione da parte dei compagni delle elementari ai danni del più debole fra loro pone il problema non a caso richiamato dalle citazioni che aprono le parti di cui si compone il romanzo, a partire da quella di S. Agostino che afferma, molto prima di Freud, che l'”innocenza infantile” non esiste. Ma qui non si tratta solo di smentita del mito di quell’innocenza: la storia propone un esempio di cattiveria gratuita, di sadismo di branco. Partendo da quello, il romanzo si sviluppa attorno alla “cicatrice indelebile” che  il fatto lascia nell’anima del protagonista. Testimone dell’episodio, non partecipe attivo ma di fatto, nella sua inazione, complice, e per questo gravato da un senso di colpa che a lui, a differenza di quel che accade al più crudele dei compagni, il capobanda, non permette di dimenticare, tanto più di dimenticare di aver dimenticato: “odiavo soprattutto Ermes che ci aveva trascinati in quella ferocia e odiavo me stesso per non essermi ribellato” a quella “vigliaccheria” che “ormai mi aveva sporcato per sempre.”

Veder trasparire nello sguardo del proprio figlioletto lo stesso sguardo, incredulo prima che terrorizzato, della vittima di quel rito persecutorio rende impossibile ogni rimozione. E l’invito a partecipare a una cena di classe, e quindi a tornare al paese dopo cinquant’anni, suona come un richiamo ineludibile ad una resa dei conti troppo a lungo rimandata, e che si risolverà in un modo drastico, imprevedibile.
Non ci sono scorciatoie: né quella del pessimismo antropologico (il male è innato negli uomini, fin dalla più tenera età: che ci vuoi fare?) né quella del sociologismo facile (è la cattiveria della società che si esprime nei comportamenti devianti dei ragazzi). Le scelte, comprese quelle che non si è saputo fare, anche se risalgono all’infanzia impongono un prezzo. Il protagonista di Bambinate decide di pagarlo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

La vita che accade

Giorgio Montefoschi, Il corpo, Mondadori 2017 (pp. 221, euro 19)

La vita accade mentre si susseguono giorni fatti degli stessi gesti e delle stesse parole, degli stessi tragitti e degli stessi incontri.

Più che la monotonia sembrano essere la continuità, la familiarità dei volti e dei luoghi, il tratto predominante: c’è un che di rassicurante negli elenchi di vie e piazze di Roma che i personaggi percorrono. Una topografia, e una toponomastica, precise, puntigliose, come le puntuali descrizioni di quel che si beve e si mangia. Insieme, o da soli.
La vita accade al di sotto di questa continuità, ed emerge, nella sua realtà, solo quando una malattia seria interviene a turbarne il ritmo. L’imprevisto sembra tuttavia potersi riassorbire, lasciando che l’esistenza  riprenda a scorrere come sempre. L’infarto, a Giovanni – avvocato sessantenne, ammogliato, agiato – non cambia la vita. Eppure scava, impercettibilmente: gli sarebbe cresciuto dentro l’innamoramento per la compagna del fratello se non gli fosse capitato quell’accidente?
È Serena, la moglie, ad avvertire i cambiamenti che covano, e a dirne – con un tono  che appare coerente al nome che porta – al marito, il quale invece va avanti, adeguandosi al trantran quotidiano come alla fatalità – così sembra volerla interpretare – di un amore che ribalta la sua famiglia e quella del fratello.

È tutta qui la storia. Un adulterio. Come in tanti romanzi. Ma più della vicenda, è lo sguardo del narratore a farci proseguire nella lettura: non giudicante, descrittivo, divagante spesso, e pure capace di far risaltare il vuoto che si annida, e cresce, nelle vite. Non  enunciandolo, ma rendendolo percepibile nel fare di personaggi che sembrano sfuggire a se stessi, che sanno e non vogliono sapere, che agiscono come non sapessero.
Non c’è angoscia, ma un rattenuto – e non sappiamo fino a che punto consapevole – senso di liberazione nella constatazione che alla fine il protagonista – dopo un altro malore, in convalescenza nella località di montagna da sempre frequentata – non può non fare: “Si sta bene qui al Rid, mormora Giovanni. Ma lo sa che il tempo è finito”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

L’incapacità di stare nella vita

David Szalay, Tutto quello che è un uomo, Adelphi 2017 (pp. 402, euro 22)

Che siano giovani turisti o maturi professionisti, uomini affermati o pensionati più o meno agiati, i protagonisti delle nove storie che fanno questo libro non hanno comunque, o non vogliono, un luogo stabile nel quale stare.

Una condizione, la loro – non esclusi quelli che pure si trovano dalla parte dei “vincenti” – che appare metafora di una pervicace incapacità di stare nella vita. Che cerchino rifugio nella cultura, nel successo professionale, nel potere e nella ricchezza, o che vivano invece in posizioni marginali – per età, vicenda biografica, scelta deliberata – appaiono tutti afflitti da una sorta di inettitudine alla vita, e all’amore inteso come incontro che dia significato all’esistenza. Il  loro desiderio è il desiderio maschile per vie diverse vocato al fallimento e, sempre preoccupato di sfuggire a un vero coinvolgimento, alla frustrazione. Ma è la loro stessa vita, più in generale, a rivelarsi priva di senso quando all’improvviso si rendono possibili “passeggere immersioni nella trama dell’esistenza”, sporadici, folgoranti ma effimeri momenti di lucidità. Insensata o comunque sfuggente sempre, o sprecata addirittura, secondo l’età: vicina eppure come al di là di un vetro resistente, e sporco, reso opaco da giorni e anni passati in una non innocente e ostinata inconsapevolezza (“non capiamo la vita mentre accade”) e, ad un tempo, in un ininterrotto sforzo di fuggirne, come non fosse, quella che si è vissuta, che si vive, la vita vera. Hanno un bel dirsi, questi uomini,  che “è tutto qui. Non c’è nient’altro”, e “la vita non è un gioco”: è fatta delle cose che succedono qui, adesso”, e di quel che si sta vedendo, e può donare, sia pure fuggevolmente,  il “piacere di percepire le cose”. Non basta: anche quando la loro corsa lascia ormai intravedere l’approdo per tutti inevitabile non riescono a credere alla propria morte: scoprire di essere invecchiati è uno choc, fonte di rimpianto bruciante, di depressione, di un’esperienza vertiginosa di isolamento.
Dopo aver stentato, renitenti, a crescere, a diventare adulti, subito si ritrovano vecchi. E soli.

Affrontare la realtà del trascorrere del tempo e della caducità può tutt’al più suscitare il pensiero che proprio la transitorietà, di tutti e di tutto, l’impermanenza, sia l’unica realtà eterna. Non fosse che, anche questa intuizione, all’ultimo dei personaggi che incontriamo, il settantatreenne protagonista del nono racconto, non appare in fin dei conti niente di più che “qualcosa con cui alleviare l’incubo dell’invecchiamento e della morte”. Un espediente, dispensatore di un certo conforto magari, ma incapace di nascondere, in fondo, la propria strumentalità.   

Non viene esplicitato un nesso causale fra la dimensione esistenziale dei personaggi e il tramonto di un’Europa che, al di là della diversità dei luoghi in cui le storie sono ambientate, lascia trasparire l’inconsistenza di un esteso e pervasivo non luogo, ma alla fine si ha la sensazione che le storie che abbiamo letto – come fossero le varianti possibili ma sostanzialmente conseguenti dell’itinerario di un solo uomo – non potrebbero collocarsi che in una situazione qual è quella contemporanea del continente in cui viviamo.

Sensazione, niente di più. Perché Szalay non inclina all’argomentazione. Ha l’aria di raccontare quel che ha visto, che vede. Con una scrittura che dimostra di sapere il limite delle parole, e dunque rifugge da sottolineature e tentazioni di spiegazione, e per dire il di più per cui le parole appunto non basterebbero ricorre piuttosto, pur senza mai eccedere, ad espedienti visivi (a capo senza punteggiatura e disallineati, o addirittura pagine bianche).
Una scrittura facile verrebbe da dire, perché non sembra il frutto di successive reiterate limature e sottrazioni. Si direbbe nata così: da uno sguardo possibile solo da una posizione che sembra collocarsi al di là del disincanto, o della disperazione. Uno sguardo che ci si stupisce di dover attribuire a un quarantenne.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora