Un incontro tra colleghi

Un uomo aveva suonato il campanello ed era entrato nella semioscurità del mio studio. Ne scorgevo solo il braccio teso che mi porgeva una busta sgualcita e il bianco degli occhi. Lo invitai ad avvicinarsi; avanzò con la testa china, infossata nelle spalle per la timidezza e il timore. Era meravigliato da tutto quello che vedeva e gli occhi roteavano svelti a destra e sinistra. Ora vedevo bene la sua figura: sui trent’anni, alto, una bella figura e nero, nero come l’inchiostro. Nel ’90 i migranti erano ancora merce rara, ne avevo visti pochi e facevano, per lo più, folklore. Sorrise. Abbassò lo sguardo, venne ancora più vicino e iniziò a togliere fogli e documenti dalla busta, con umiltà, diligenza e rassegnazione. Sembrava un cafone di Silone, se non fosse stato per il colore così scuro della pelle. Voleva dimostrami di non essere un clandestino esibendomi subito i documenti e le referenze. Nigeriano di nome Blixen, non una parola d’italiano, solo l’inglese, ma con una pronuncia così stretta che non capivo niente. Del resto il mio inglese non è buono neanche per i ristoranti e, al massimo, ne farfuglio qualche parola sui set di moda con i modelli americani. Piero, il mio assistente, aveva studiato in Inghilterra e fece da interprete. Cercava lavoro, un lavoro qualsiasi, e intanto continuava a sgranare gli occhi scrutando flash, stativi, fondali e tutto quello che lo circondava, come un bambino in un negozio di giocattoli o come mia nonna diabetica in pasticceria, inventariando i motivi di nuovi desideri e pronto a covare altre frustrazioni.
-Sono un fotografo, non saprei cosa farti fare, mi spiace…- dissi fissandolo negli occhi. Il suo volto s’illuminò e furbo rispose:- Ah… anch’io! Siamo colleghi – ed esitando – e… potrei esserti di grande aiuto.- Disse queste ultime parole con un sorriso largo, ruffiano. I denti immacolati e il bianco degli occhi erano come fari accesi, che comunque non riuscivano a illuminare quella faccia dalla sconfinata negritudine. Contagiato da quel sorriso scaltro, risi di cuore e decisi di mostrargli lo studio. Gli descrissi le attrezzature e gli presentai alcuni ritratti che avevo scattato a dei musicisti jazz, mentre lo osservavo per capire se mi stesse raccontando delle balle. Ci volle poco per dire che Blixen non aveva mai avuto nulla a che fare con la fotografia, se non per quella segnaletica sul passaporto. Non avevo bisogno di lui, cercai di convincerlo nella maniera più garbata possibile, con il tono di voce gentile e altrettanto dolcemente Piero gli tradusse tutto, ma poiché eravamo colleghi, gli proposi, poteva aiutarmi a organizzare un progetto di ritratti del “black people” per una rivista patinata, retribuito naturalmente. Piero traduceva e Blixen era sempre più sconcertato e smarrito, a ogni frase scuoteva la testa.
Provai il suo stesso disagio per quella balorda richiesta. Sgomento, si girò indietro per guardare la porta da dove era entrato, poi di scatto si volse verso di me e mestamente implorò:- Oh… capataz, preferirei poter lavare i pavimenti. Costo poco… Mi vergogno a chiedere ai miei amici di fare la foto. Non è buono per me.-
-Blixen, ma che razza di fotografo eri in Niger? Non capisco!- Commento inutile.
Ma,.. riconoscendogli un piccolo compenso, riuscii  faticosamente ad accordarmi su una via di mezzo: se mi avesse presentato i suoi amici neri, solo io avrei chiesto loro di posare per il ritratto e non lui. Così il suo onore sarebbe stato salvo, le foto scattate e il compenso intascato. Semplice no?
Mi faceva pena ma lo sfruttavo.
Fissammo l’appuntamento per il venerdì, ma non si presentò. Rimasi in studio tutto il giorno ad aspettarlo con Piero, ma non venne; del resto non ci avevo contato minimamente e i soldi li avevo dati per persi nello stesso momento in cui glieli avevo messi in mano.
Invece fu una sorpresa vederlo arrivare il martedì della settimana dopo, con un’aria pimpante e allegra, vestito come il solito: una striminzita giacca a vento, jeans sdruciti e una maglietta, ma stavolta portava con sé anche un borsone gonfio. Gli chiesi se sentiva freddo, viste le temperature di quei giorni, scosse la testa, scoppiò in una sonora risata e bofonchiò qualcosa del tipo:-… in Italia non fa mai freddo, da noi in Niger invece…- e continuò:-…sono qui per le foto, io sono pronto e tu sei pronto?-
Insomma, non dovevo fotografare altri neri, ma solo lui, Blixen. Chiesi a Piero di spiegargli che il nostro accordo era diverso, l’avevo pagato solo perché volevo che mi presentasse i suoi compatrioti e amici, perché volevo sentire le loro storie e conoscere il loro mondo, vedere i loro oggetti, le loro case, sapere del loro lavoro e delle loro aspirazioni. Ero seccato.
Blixen, con l’aria di un imbonitore da fiera di paese, spiegò che non avevo capito niente, che gli altri neri erano selvaggi e brutti, non in grado di posare per le fotografie di una rivista. Mentre lui, Blixen, si che era un nero molto bello, istruito e intelligente. Era anche elegante, disse, togliendo dal borsone un vestito e mostrandomelo, era il possessore di un raffinato abito italiano, un doppiopetto blu con tanto di camicia bianca. Peccato avesse dimenticato la cravatta, e poi le scarpe, vere scarpe da sera. Non c’erano dubbi: l’unico nero degno di essere ritratto era lui.
Capivo, ma io mi aspettavo qualcosa di diverso, volevo incontrare tanti africani per farmi un’idea di quel mondo esotico e remoto. Era sorpreso e gli parevo un marziano, ribadì di essere un uomo moderno, di conoscere la cultura dei bianchi, perché la società tribale non valeva la pena di conoscerla, era inutile, non serviva a nulla: il mondo era solo dei bianchi e non capiva la mia curiosità. Detto ciò, indossò rapidamente il vestito, la camicia e le sue fantastiche scarpe da sera e si avviò, come un alieno, sul fondale fotografico. Rassegnato e divertito, impugnai la mia Hasselblad, Piero caricò due magazzini con la mia pellicola preferita per i ritratti en format carré, la Tri-X e cominciai a scattare. Blixen si muoveva sul set con insospettabile disinvoltura, sembrava un modello consumato, con pose energiche, ma ogni tanto la sua ingenuità emergeva e lo tradiva. A tratti guardava un immaginario orizzonte lontano, poi fissava con determinazione l’obiettivo, mostrava i pugni o sorrideva quasi sereno, toglieva la giacca e la rimetteva, con le mani in tasca o con le dita davanti alla faccia scimmiottando il gesto dello scatto fotografico.
La sua migliore immagine di sé era stata lì, mi era passata davanti, su quel fondale me l’aveva donata e sentivo l’immane fatica che gli costava sostenere quella parte. Gli chiesi se voleva di posare a torso nudo, ma il mio ben riscaldato studio, per lui divenne immediatamente gelido: impossibile spogliarsi, troppo freddo. La paura comparve sul suo volto brufoloso, la fierezza scomparì, l’imbarazzo lo invase e il suo sguardo triste si rifugiò di nuovo verso l’angolo buio; chissà a cosa pensava, forse a casa sua, all’Africa.
La pellicola era finita, ero certo di avere già l’immagine latente della sua anima in quei due rulli, avevo avuto ventiquattro occasioni per catturare tutta la sua essenza vitale e ne era valsa la pena. Vedendomi che toglievo la fotocamera dal treppiede e spegnevo i flash, si sentì sollevato, sospirò e tornò il vivace Blixen di prima.
Guardò con un’espressione competente la fotocamera e raccontò che in Niger ne possedeva una uguale perché era un bravissimo fotografo, ma poi gliela avevano rubata o forse l’aveva persa, non ricordava più bene, del resto era trascorso molto tempo. In fondo ero stato molto fortunato a incontrarlo, sostenne, e se avessi voluto, avrebbe potuto essermi molto utile, insegnarmi un sacco di trucchi e consigli sulla tecnica di ripresa. Altre bugie, si accorse che stava esagerando. Il suo sguardo assente vagò tra il soffitto e l’angolo buio, di certo non si sentiva a casa e forse non capiva neppure dov’era.
Sulla manica della giacca aveva ancora il cartellino del negozio e non ci fu verso di farglielo togliere, perché gli altri dovevano sapere quanto fosse prezioso quel vestito e il cartellino, disse, lo certificava. Piero insinuò che se lo fosse fatto prestare o preso a nolo, lui si schernì. Pensai che quel vestito fosse il disperato investimento nella speranza di una vita dignitosa ed essere parte della nostra società occidentale.
Si lamentò del compenso che gli avevo offerto, favoleggiò d’iperbolici guadagni che avrei ottenuto vendendo il suo ritratto alle riviste, ma la richiesta fu poco convinta e durò solo il tempo necessario a riporre con estrema cura il vestito nel borsone, senza arrivare a una richiesta concreta. Salutò e se ne andò con la mia promessa che l’avrei chiamato appena pronte le stampe per regalargliene una. Piero dovette rincorrerlo per chiedergli un recapito, ci diede il numero di un bar in paese. Stampai le foto qualche giorno dopo e il mattino seguente, prima ancora che lo avessi avvisato, Blixen già mi aspettava appoggiato alla porta dello studio. Guardò le stampe su carta baritata e fu grande il suo scoramento; cominciò a imprecare, alzare gli occhi al cielo con le mani sulla faccia. Piero fece fatica a tradurre quel che diceva. Sosteneva di non essere lui nella foto, perché lui non era così ed io non ero un buon fotografo, altrimenti si sarebbe riconosciuto. Era furioso, se la fosse fatta da sé la foto, si sarebbe riconosciuto di certo, perché lui si sentiva molto più bravo di me e sarebbe riuscito a non far vedere i foruncoli sulle gote e sulla fronte, e poi anche il vestito si sarebbe visto che era prezioso, cosa che in quelle foto non si capiva. Inoltre, lui era molto più bello che in quella stampa e non così nero. Ribattei che le foto erano belle, ero fiero di quel lavoro e lo avrei difeso in eterno, ma quella era la sua faccia e non ci potevo fare nulla. Se non si riconosceva, era perché non si conosceva.
-Non è vero- ringhiò, e gettò a terra la stampa che gli volevo donare: non la voleva, non era lui. Aveva trovato lavoro in un cantiere, disse andandosene deluso, quindi era posto e non gli serviva più niente.
Blixen non si era riconosciuto, l’immagine che avevo prodotto era solo la mia e non la sua.

Una vacanza al lago

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Mi piace guardare i libri, averli vicino. Lo sguardo scorre sugli scaffali come su un paesaggio lontano, l’occhio si rilassa, si cheta. Li sento dentro i libri, e ho l’impressione che la loro semplice presenza mi arricchisca comunque, come per osmosi, compresi quelli che non ho mai letto, ma che sono lì e mi guardano, mi aspettano e un giorno leggerò spero.  Alcuni sono veramente vecchi, al punto che le copertine delle edizioni lussuose hanno ormai perso l’odore di pelle e l’oro dei caratteri è diventato color rame. Quando li prendo in mano cavandoli dallo scaffale osservo lo stato di consunzione delle confezioni, i piccoli segni di biro, le macchie di chissà che cosa, le piccole notazioni a matita. Le pagine non sono tutte intonse, c’è qualche piccola orecchia o piegatura accidentale, ma in sostanza tutto denuncia una cura attenta dei volumi, anche se non maniacale. L’Ulisse, pressato dagli altri volumi della mia libreria, che ho letto alla carlona, spesso senza finirli, denuncia un’usura particolare, che evoca ricordi, che racconta quanto è stato stretto dalle mie mani e quanto ha viaggiato nella mia borsa. Lo prendo e ora che ce l’ho in mano, vedo  che ha gli angoli della copertina di pelle scoloriti e piegati verso l’interno del volume, come le valve di un’ostrica che non vuole aprirsi. E invece è stato aperto moltissimo, e letto e riletto. Da quell’estate del ’71 me lo porto dappertutto; è un rituale, apro il libro, dove capita e leggo, rileggo, penso, guardo il soffitto e torno a leggere l’Ulisse. E’ domenica pomeriggio, nella vivida luce del sole d’inverno che entra dalla finestra, apro il libro a caso, a pagina 35 e leggo:
non pianger più, dolente pastore,non pianger più
Ché Lycidas, tuo duolo, non è morto,
Benchè sia sprofondato sotto l
’equoreo piano….
Mi accorgo che ci sono dei piccoli rigonfiamenti su tutta la pagina. Non delle pieghe, ma dei rigonfiamenti grinzosi, circolari, di vari diametri. Ne scorro con le dita la superficie e sento distintamente queste vascolarizzazioni anomale della carta, che osservate in controluce, descrivono una serie di bugne come dune, con piccole grinze a raggiera e sotto i polpastrelli diventano un Braille che racconta solo per me. Solo delle gocce d’acqua abbattutesi sulla pagina, possono produrre questo effetto. E’ indiscutibile: la pagina si è bagnata. Guardo anche le pagine successive e ci sono sempre gli stessi segni, via via meno evidenti che scompaiono del tutto a pagina trentanove, dove la carta ha di nuovo la sua perfetta planarietà e leggo:
Amor matris: genitivo soggettivo e oggettivo. Col suo sangue debole e il suo latte sieroso l’aveva nutrito e aveva nascosto agli  altri le sue facce. –
L’acqua è penetrata per alcune pagine, ma non ha rovinato il testo e pur rimanendo compresse tra gli altri libri, esse non sono tornate perfettamente lisce, ma conservano queste cicatrici. La pagina trentacinque parla di un annegato e la trentanove di latte, sangue e inquietante amore materno, e queste pagine, proprio queste, si sono bagnate.

Ora ricordo.
Era il settembre ’71, eravamo in vacanza a Idro, un piccolo lago alpino, freddo e tetro, meta di villeggiatura di olandesi e tedeschi, per loro quello era già un paesaggio mediterraneo. Mio padre si era invaghito di una signora olandese che qui gestiva una locanda e così aveva temerariamente portato tutta la famiglia, moglie compresa, in vacanza su questo lago. Lui scompariva continuamente, – Va dalla vacca olandese – diceva mia madre schiumando rabbia. Aspettavamo tutti in questo piccolo paesino, senza auto, né telefono, né una bicicletta, il ritorno di mio padre dalle sue escursioni erotiche. Gironzolando per i vicoli e prendendo il sole sull’unico pontile del paese, conobbi dei ragazzi, un olandese, due tedesche, un’italiana figlia del barista e una ragazza inglese lentigginosa e in sovrappeso. Facevamo il bagno e poi sul pontile stesi sugli asciugamani a fantasticare e tentare i primi approcci amorosi. L’inglese era la più disinvolta, ma non mi piaceva, troppo in carne, mentre la figlia della barista, era carina e minuta, era italiana e amava la poesia. Le ragazze tedesche, spilungone e bionde, avevano occhi solo per l’olandese, anche lui sedicenne, ma molto più alto di me e con quell’aria vissuta di chi ha già provato gli eccessi della beat-generation, il che mi annichiliva. Unica consolazione: io mi tuffavo e nuotavo meglio di lui.
Quasi tutti i giorni, istigato da mia madre, passavo davanti alla locanda della signora olandese per sbirciare dentro il suo ufficio e vedere se ci fosse mio padre, ma non lo beccai mai da quella “puttana“, e poi giù al pontile con gli altri. Lui, l’olandese, ostentava il vinile di “In a gadda da vida degli Iron Butterfly “, riviste beat olandesi, illeggibili per me, e misteriosi rotolini di stagnola che promettevano viaggi allucinogeni, scatenando i lascivi gridolini delle ragazze. Volevo che mi notassero e tentai l’ostensione del quotidiano “Lotta continua” e dell’Ulisse di Joyce, che suscitarono la morbosa e pressante curiosità solo della grassottella inglese e la completa indifferenza delle ragazze, ma anche uno sguardo di riprovazione della figlia del barista: da quelle parti i comunisti non sono mai stati popolari. L’olandese stava sdraiato sulla schiena, gli occhi piantati sulle tette della tedesca inginocchiata al suo fianco che si spazzolava i capelli, l’inglese mi sorrideva ammiccante, mentre l’unica che volevo mi guardasse se ne stava lontano a leggere “Ciao 2001”. Dovevo fare qualcosa per attirare la sua attenzione, quindi saltai in piedi e con un balzo, arrivai al bordo del pontile esibendomi nel tuffo più plastico di cui ero capace. L’entrata in acqua perfetta; mentre riemergevo, mi aspettavo di vedere tutte le ragazze sporgersi dal pontile per sorridere al miglior tuffatore del paese, ne ero certo, invece solo l’olandese si sporse per lamentarsi che gli schizzi d’acqua l’avevano molestato mentre rollava la sua canna. Risalito, grondante e deluso, sul pontile mi gettai sul mio asciugamano, sul quale era appoggiato l’Ulisse aperto a pagina 35. Ero talmente avvilito che non mi curai delle gocce che colavano dai miei capelli sulla pagina. Pagina 34 si salvò perché protetta da un volantino di Lotta continua piegato in due che usavo come qualificante segnalibro. Subito asciugai l’acqua tra mille imprecazioni e l’indifferenza di tutti, tranne che dell’inglese che mi offrì un “ kleenex” come disse lei. L’acqua però aveva già fatto il suo percorso ed era penetrata fino a pagina trentanove.

Il giorno dopo l’olandese, che parlava un italiano discreto, veniva a Idro fin da bambino, mi disse: – Che ne dici se dopo la nuotata andiamo a casa mia, ti voglio far vedere i miei dischi, così ci togliamo dalle palle ‘ste befane. – M’invitava a sentire i suoi dischi, il tuffo aveva avuto un esito, anche se non quello sperato.

Con Joyce avvolto nell’asciugamano, lo seguii fino a casa sua: era la locanda della signora olandese. Entrai con meraviglia e un fondo di vergogna e il senso di colpa per tutte le volte che avevo sbirciato dentro. La signora olandese mi venne incontro sorridente, radiosa, il mio nuovo amico era suo figlio e mi vergognai ancora di più. Era molto gentile e feci la fantasia che lo fosse perché sapeva che ero il figlio del suo amante. Mi guardava con dolcezza, mi mise la sua lunga e morbida mano sulla guancia per una carezza leggera, sorrise con i suoi grandi occhi azzurri e m’indicò la scala per salire di sopra, nel loro appartamento, dove il mio amico teneva lo stereo e i dischi. Frastornato, mi guardavo attorno, ero imbarazzato e spaventato, temevo che mio padre potesse sbucare da qualche angolo riempiendomi di ceffoni per essermi intrufolato lì. Certamente avrebbe pensato che mi fossi messo a disposizione di mia madre per pedinarlo e che avessi fatto amicizia col figlio della sua amante solo per stanarlo. Ero terrorizzato. Entrai in camera, avevo di fronte un poster del Festival dell’Isola di Wight e sulla parete di lato un altro, con una ragazza a gambe incrociate che si accendeva una canna. I dischi sparsi sul letto e impilati sulla scrivania, e uno stereo bellissimo mi fecero morire d’invidia. Chiuse la porta, si rollò una sigaretta e senza guardarmi chiese:
-Tu conosci I Doors?- e senza aspettare risposta, era scontata, e sempre senza guardarmi – Ho il disco, me l’ha portato mio padre da Amsterdam. E tre mesi fa ho visto il loro concerto, una bomba.- E mise il disco a volume folle, si lasciò cadere in estasi sul tappeto fumando a occhi chiusi.
– Ma tua madre ti lascia fumare e tenere la musica a questo volume senza incazzarsi? non ci posso credere. –
– Mia madre si fa le sue cose, io non le rompo le palle e lei non le rompe a me, in Olanda è così. Tieni, vuoi un tiro? –
Mi porse la sigaretta, era umida della sua saliva ed io avevo un po‘ schifo, inoltre non fumavo ma, quel giorno, cominciai. Ero felice, musica da sballo, il brivido della prima sigaretta e stare lì, con l’amico così sicuro di sé e disinvolto come avrei voluto essere io, ma allo stesso tempo non vedevo l’ora di andarmene.

Tornato a casa ripensai a mio padre, alla signora olandese e a mia madre che bruciava di gelosia. Erano due donne così diverse, da tutti i punti di vista, che mi piacevano e inquietavano, e per un attimo l’immagine di quei due universi femminili si sovrappose nella mia mente in un’unica immagine confusa e nebulosa. Ero disorientato, mamma era così poco attraente, mentre la signora olandese lo era, mi piaceva molto, anche fisicamente. Pensai come sarebbe stato averla come madre e senza accorgermene giustificai papà. Subito mi vergognai molto di quella fantasia.
Le mie sorelle giocavano sul balcone di casa, i pochi pescatori attraccavano le barche al pontile e mio padre uscì dal bar del paese barcollando, vistosamente ubriaco, tirando voluttuose boccate di fumo che poi faceva uscire dalle narici, con gli occhi arrossati e umidi, sembrava un drago. Lo vedevo venire verso casa, era stato al bar a giocarsi lo stipendio a carte e si era ubriacato: allora non era dall’olandese. Del resto, pensai, la signora olandese era troppo alta, lo sovrastava e lui, orgoglioso attaccabrighe proletario, non ci sarebbe mai stato con una così alta. Sorrisi e pensai che mamma forse sbagliava e con sollievo mi sentii esonerato dal compito di pedinatore, di delatore, di spia.
La mia famiglia aveva rotto tutte le relazioni con gli amici in modo turbolento per le scenate di gelosia di mia madre, o per quelle di qualche marito che accusava la propria moglie di farsela con mio padre.
Come mio papà mise piede in casa e si scatenò l’inferno. Mia madre l’aggredì e tentò di colpirlo con la paletta di ferro del camino, lui nonostante la sbronza schivò il colpo, aveva ancora tutti gli automatismi attivi, ma indietreggiando inciampò in uno sgabello e cadde a terra bestemmiando come solo lui sapeva. Mia madre imprecava pur senza bestemmiare, ma cominciava a comparire quel rantolo che sapevo, l’avrebbe portata a uno dei suoi svenimenti. Al culmine della rabbia impallidiva e uno spettrale suono gutturale le usciva dalle labbra e dalle narici, e poi grondando sudore gelido, stramazzava a terra, immobile, occhi chiusi, improvvisamente silente. Credevo sempre che fosse morta e mi disperavo. Poi, di solito dopo qualche minuto e con mio padre che le teneva la testa, intonava una nenia sommessa e malinconica, incomprensibile, così penosa che mi angosciava ancor più della paura che potesse essere morta. Non volevo godermi di nuovo quello spettacolo. Mi caricai in spalla la sorella piccola, presi per mano la grande e li lasciai ai loro rituali perversi, seguito dalle urla etiliche di mio padre e dai tetri rantoli di mia madre.
Girai un po’ per i vicoli, lungo la spiaggia e senza accorgermene mi trovai, con le mie sorelle, davanti alla locanda della signora olandese. Ci vide, si affacciò alla porta e c’invitò a entrare, diede delle bibite alle bambine e una sigaretta a me.
– Non fumo signora- ma lei, spingendo ancora di più il pacchetto aperto verso di me, insistette:- Ma va là, se sei amico di mio figlio fumi e non solo sigarette. Comunque qui puoi e rimarrà un segreto tra noi.-
Accendendo la sigaretta, guardai i suoi tratti signorili e gentili: provai un affetto intenso e languido, quasi filiale. Per un attimo dimenticai i due disperati che avevo lasciato a casa. Le mie sorelle giocavano con la signora olandese come fossero sempre state lì, sembrava tutto così normale. Tornai a casa e mia madre distrutta, piena di lacrime, mi disse: – Ti sembra questa l’ora di tornare? Cretino! Le tue sorelle non hanno ancora mangiato. –
Mio padre si era chiuso in bagno. Apparecchiai un tavolo striminzito, mia madre riempì tre piatti di minestra per noi e se ne andò sul balcone a piangere silenziosa. La guardai e non capii. Sapevo solo che non volevo essere lì, con quei due che avevo amato alla follia: lui con le sue auto sportive, gli amici piloti e play-boy, e lei con le sue storie di partigiani, di sindacalisti e di lotta contro la “razza padrona”. Volevo solo essere da un’altra parte, qualsiasi altra parte, purché non ci fossero loro.
Misi a letto le mie sorelle, tentai di leggere ma non ce la feci. Ero esausto, chiusi gli occhi e fantasticai di baciare la figlia del barista, era un desiderio dolcissimo e mi addormentai.
Nel cuore della notte, saranno state le tre del mattino, mia madre mi svegliò scrollandomi una spalla:
– Alzati e vieni in cucina, tuo padre deve parlarti. –
– Cazzo – pensai – neanche di notte questi due la piantano. Fanculo. – e mi alzai. In cucina sotto la fredda luce del neon, mio padre era seduto sulla sedia, vestito come se stesse per uscire, e fissava le due valigie posate davanti ai suoi piedi. Il viso contratto in uno spasmo di rabbia, non era più ubriaco ma rabbioso e affranto, impotente e sconsolato, incazzato e pieno di rancore, come fosse vittima di un grande torto. Mia madre aveva riacquistato energia e colore, gli occhi determinati e l’espressione altera di chi pensa di aver fatto suo il punto partita. Fu lei che parlò, non lui:
– Tuo padre voleva dirti che se ne va, perché non sa rinunciare alle sue puttane. Del resto se sta qui, rischia che una di queste notti io gli pianti un coltello in gola, per cui è meglio così.- Poi gli si avvicinò, guardandolo dall’alto in basso e spingendo col piede una valigia verso la scala continuò: – Le tue sorelle sono piccole, ma tu devi vedere e sapere perché io non lo voglio più. Deve andarsene! è un puttaniere drogato, non gliene frega niente della famiglia e preferisce scoparsi le altre donne, che comunque sono tutte puttane!- un’ultima spinta col piede e la valigia precipitò giù dalle scale, poi raccolse l’altra e la lanciò direttamente in strada. Mio padre si alzò, mi guardò con un’espressione mista di rabbia e di ricerca di compassione e sospirò: – Di a tua madre che da qui non me ne vado! Voi siete la mia famiglia e senza di voi muoio, mi ammazzo!-
Cristo, che pensare? Che fare? Cazzo stavolta facevano sul serio, lui se ne andava ed io che potevo fare? Mi sentii schiacciato, la gola secca e non riuscii a dire nemmeno una parola ma mia madre m’incalzò: – Diglielo che anche tu non lo vuoi più in casa un padre come lui, un traditore, un giocatore che si è fatto persino la moglie di suo fratello. Un pervertito, sporcaccione. Nemmeno i fratelli rispetta. Diglielo di andarsene. – Non sapevo più che fare, a sedici anni che cavolo c’entravo io: volevo solo essere un artista e un intellettuale, leggere Joyce e ascoltare i Doors. Dentro di me si affacciavano tutti i sentimenti, dalla codardia all’opportunismo, dalla rabbia al dolore, dalla paura alla disperazione e alla fine cedetti. Guardai mio padre che ormai piangeva a dirotto e lo implorai: – Per favore vattene papà, la mamma ha ragione. – Mi guardò stupito, pianse e sconsolato mi disse con enfasi: – Tu hai il coraggio di dire questo a tuo padre? Sei uno stronzo che non capisce niente. – Si alzò, gli occhi rossi e gonfi, varcò la porta e scomparve.
Mia madre si affacciò alla scala per essere sicura che se ne fosse andato, si girò verso di me e scoppiò in un pianto nervoso irrefrenabile, che aveva poco di liberatorio.
– Che fai ancora qui? Vai a letto.-
Mi sentii un vigliacco e pensai:-… forse sarà un bene tutto questo, avrò forse anche dei vantaggi materiali, magari un giorno potrò confessare che in quello schifoso giorno avevo cominciato a fumare e mia madre forse sarà comprensiva e, come la signora olandese, mi offrirà delle sigarette.-
Di mattino fui svegliato dai rumori della colazione in cucina e vidi mia madre radiosa che serviva il caffè a mio padre, suo marito. Le sorelle giocavano sul balcone ed io capii che la mia giornata sarebbe stata complicata, dolorosa e che mi avrebbe procurato comunque guai e sensi di colpa. Entrai in cucina, mi fissarono tutti e due e mia madre sorridendo disse:- Papà ha deciso di restare, non può rimanere senza di me e i suoi figli, ha capito quello che è giusto. Vieni che facciamo colazione.- Mi sedetti, lui sorrise nervoso senza guardarmi negli occhi, e lei, mia madre, si girò di scatto verso di me e mi fulminò: – E tu… che volevi cacciare tuo padre per fare i tuoi porci comodi signorino, ma stavolta ti è andata male e farai bene a rigare dritto, perché ormai ti ho sgamato.- Presi il caffè a testa bassa, più in fretta possibile e scappai al pontile, ma a quell’ora c’è solo qualche pescatore: ero solo.
Dopo alcuni giorni arrivò il fratello di mio padre, il professore, confabularono sul balcone, lo zio gli diede un plico, salutò frettolosamente noi figli, salutò freddamente, molto freddamente mia madre e con aria di sconsolato rimprovero suo fratello, mio padre.

Gli incontri per sentire i Doors e i Led Zeppelin a casa dell’olandese erano diventati un’abitudine quotidiana, ma quel pomeriggio non ci andai, dovetti stare con mio padre, era molto agitato, il plico conteneva una convocazione in Questura per il giorno dopo e lui era spaventato. Mia madre pretese che stessi con lui e che il giorno dopo lo accompagnassi perché non facesse il viaggio da solo in quelle condizioni di nervosismo. Tutto sommato mi faceva comodo, mentre lui era in Questura potevo andare in libreria e all’edicola a comprare Lotta Continua che a Idro non arrivava. Il viaggio fu silenzioso. Mio padre guidava con lo sguardo fisso e perso davanti a sé, senza guardarmi in silenzio, quando si accorse che lo stavo osservando si infilò gli occhiali da sole e accelerò. Arrivati in Questura mi chiese di rimanere in macchina e di non andare nemmeno in edicola. Attesi più di un’ora e quando uscì ripartimmo a tutta velocità per Idro. Era allucinato, livido, non parlava, gli chiesi di fermarci a prendere il giornale, ma non rispose e si continuò a guidare come un pazzo. Prima di Idro c’è una località con un nome che mi ha sempre colpito: Ponte Re. Ecco proprio al cartello Ponte Re la strada fa una curva secca, a novanta gradi, s’infila nel ponte che attraversa il Chiese. Ebbene, mentre ci avvicinavamo ad alta velocità alla curva, osservavo mio padre e capii che non stava guardando la strada, era totalmente assente e non avrebbe frenato, non avrebbe fatto la curva e ci saremmo schiantati contro le rocce del greto del fiume. Lo guardavo e nulla faceva trasparire un briciolo di consapevolezza. Cosa aveva in mente? La curva era ormai vicina, puntai i piedi, mi aggrappai alla maniglia della portiera e urlai: – Papà la curva!- si scosse dal suo torpore, per fortuna guidava da dio, frenò, scalò le marce, il motore s’imballò, lo stridere delle gomme bloccate divenne assordante, ma la curva era ormai troppo vicina, impossibile percorrerla. Con sangue freddo e mia meraviglia, non fece la curva, ma riuscì ad imboccare il viottolo di campagna davanti a noi, ad evitare le rocce del greto e in una nuvola di polvere e un gran fragore la macchina si fermò. Eravamo in un prato, sul limitare del fiume, il cielo terso e le nuvole bianche e due mucche pascolavano davanti a noi, mentre un contadino ci guardava toccandosi ripetutamente la tempia con l’indice a significare:- Siete matti!- Mio padre impassibile si girò verso di me come non fosse successo nulla:
Grazie, non avevo visto la curva. Ti sei spaventato?- Feci di no col capo e tornammo a casa, era ormai la fine di Settembre. Mia madre, alcuni mesi dopo, mi confidò che era stato convocato in Questura perché un suo caro amico aveva fatto un esposto contro di lui, per avergli molestato la figlia diciottenne. Ma allora la maggiore età era ad anni ventuno.

Il primo di Ottobre, eravamo da poco tornati in città, il padre di mio padre, mio nonno, era venuto a trovarci. Stavamo pranzando ed ecco che scoppia una nuova violentissima lite che durò tutto il pomeriggio e alla fine, ormai a sera, papà uscì da casa sbattendo ancora una volta la porta, per andare a schiantarsi a tutta velocità contro il pilone di sostegno di un sottopassaggio ferroviario e morendo sul colpo.
La salma fu composta all’obitorio dell’ospedale, in un piccolo locale con una finestra che dava nel giardino interno al pianterreno. Parenti e amici, silenti e con aria di circostanza, stavano ammassati alle pareti dell’obitorio. Faceva caldo, aprii un po’ la finestra della camera ardente.  Alcuni andavano fuori a fumare ed io li seguivo per chiedere una sigaretta. Mia madre piangeva disperata tenendosi alla bara. Ogni tanto alzava il capo e guardava fuori dalla finestra verso il giardino. Vidi un’ombra passare ripetutamente davanti alla finestra, esitante. Poi, come sorpresa del suo coraggio inaspettato, si affacciò per guardare dentro. Era una donna giovane, molto giovane, con gli occhi gonfi di pianto, le labbra tremanti. Appoggiò la mano allo stipite della finestra e si sporse verso la bara, sgranando gli occhi e singhiozzando pianissimo. Mia madre non se n’era neppure accorta, era a capo chino su mio padre, dai suoi occhi cadevano lacrime sul raso del sudario, mentre lo scrutava senza sosta. Le vedevo tutte e due, mentre piangevano, vedove dello stesso uomo, ma con un dolore così diverso, per quanto profondo e sconfinato, ed ero incantato da quella diversità così forte e così complementare, ma riconoscevo uguali diritti a tutti e due quei dolori disperati. Le guardavo in silenzio, stregato da quello strazio così intenso, come se tutto tutti fossero svaniti e dal fumoso nulla emergessero solo loro: mia madre, la ragazza, la bara con dentro mio padre. Amore, dolore, rabbia, rancore, impotenza, si mescolavano nei pianti di quelle due donne in un unica vasta lacrima. Guardai ancora una volta il volto di mio padre, mi sembrava sereno, imperturbabile, persino bello, e il pianto disperato di quelle due donne era per lui, solo per lui. Rimasi zitto, quasi senza respirare per continuare a guardarle senza che nessuno se ne accorgesse, ma tra i parenti si levò un lieve brusio e via via si fece più intenso:- Chi è quella lì? Sarà una di quelle che si faceva, una puttana. Come osa venire qui è roba da matti.-
Un cugino della mia stessa età, con una smorfia maligna e voce stridula urlò:- Zia zia, c’è quella di Fornaci alla finestra!-
Mia madre sollevò il capo dalla bara e urlò:- Nooo! anche qui mi tormenti, puttana rovinafamiglie, sei contenta adesso che è morto?-
Si scagliò verso la finestra, la ragazza terrorizzata scappò inforcando la sua bicicletta. Tutti inveendo si precipitarono fuori per vedere chi fosse quella donna e la insultarono e mio cugino la rincorse, raccolse un sasso e glielo tirò, colpendo però solo il parafango della bicicletta, urlando:- Troia! Puttana! Vacca!-
La ragazza accelerò la pedalata e si girò indietro per guardarci solo quando fu lontana, ma senza rallentare.
Le donne si strinsero attorno a mia madre, la fecero sedere, la consolarono. Mi sentii estraneo all’agitazione generale, al clamore di quell’episodio per tutti scandaloso, ma rimasi in disparte a cercare di misurare l’amarezza e la desolazione che mi assaliva, e mentre tutti rientravano nella camera ardente scuotendo la testa sconcertati, vedevo la ragazza in bicicletta sempre più lontana. Avrei voluto conoscere quella ragazza, capire cosa l’aveva affascinata di mio padre. Mi fece tenerezza.
Comunque di una cosa ero certo: mio cugino era proprio uno stronzo ed ero sicuro che non sarebbe mai migliorato.
Degli amici di quella vacanza non seppi più nulla, ma la figlia del barista mi scrisse una lettera molto commovente per la morte di papà. Le risposi, convinto che mi avrebbe dato il suo amore, ma lei si sottrasse, non rispose più e tornò nel nulla. Dopo qualche giorno mi ritirai da scuola e mi presentai in fonderia a fare l’operaio per mantenere la famiglia di cui ero diventato, mio malgrado, il capo.
E ho continuato a fumare.

Gli orrori del proletariato: sequenza 01

87.copertine-capra.orrori

Sincronicità, casuale (che altro potrebbe essere?) mi fa trovare poesie di Joyce che evocano spiriti dimenticati, sepolti. Mi viene in mente che le ho lette a mia moglie e ai miei figli e da giovane a qualche aspirante fidanzata che poi mi rifiutò o ad una signora che poi rifiutai io. Momenti densi, mi sembra di sentire ancora le voci delle persone di allora, i loro profumi, rivedo le loro facce e il ricordo si espande caotico e disordinato senza coerenza come il fumo di una sigaretta in una stanza. Riaffiora la voglia di Mr. Bloom, come altre volte, e ricomincio per la lettura dell’Ulisse. E’ la quarta volta. Ancora meraviglia e stupore, mi sembra di ricordare tutto e mi pare di non averci mai capito nulla. Passo lunghi momenti di estasi leggendo e rileggendo le pagine di un quadernetto nero – come le moleschine che teneva in tasca mio nonno per rendicontare le sue salite al monte Maddalena – e appunto le frasi che mi colpiscono e non voglio perdere. Potrei appuntarle nelle note del computer, mandarmele per mail in modo da averle in archivio su ogni dispositivo che ho a portata, ma preferisco scrivere a mano. Non uso nemmeno la biro, ma una matita che odora di legno di cedro e che tengo appuntita con un temperino che conservo dai tempi della scuola media. Avrei anche una matita portamine che non dovrei temperare di continuo, che ho desiderato alla follia quand’ero ragazzo, è una Caran d’Ache, pagata una fortuna per le mie possibilità di allora, ma quella mi evoca altre storie e quindi matita da temperare per questa volta.
L’Ulisse è, come dice Berio, uno dei libri più belli che siano mai stati scritti, ma per me è soprattutto un totem, il feticcio della mia necessità di affrancarmi dalle mie origini proletarie e conquistare una cultura che fosse al tempo riscatto e grimaldello per accedere a quegli ambienti sociali borghesi che mi affascinavano. Avevo sedici anni e tenere il quotidiano Lotta Continua che spuntava ostentatamente dalla cartella e presentarmi nei circoli dei cosiddetti marxisti-leninisti con l’aria vissuta di chi ha letto Joyce, mi pareva così naturale, gratificante e legittimo. Mio zio, accanito enigmista, guardava i miei libri, le mie scarpe e soprattutto la lunghezza dei miei capelli e chiedeva a mia madre se avesse notato in me atteggiamenti strani, morbosi, malati. Ogni tanto mi chiedeva senza mezzi termini se fossi drogato, omosessuale o ricattato da qualche prostituta. Peggio fu quando mi vide nella sua bottega di ciabattino, dove lavoravo durante le vacanze estive, con in mano l’Ulisse che nell’edizione I Meridiani sembrava tanto un messale. Così per l’ateo radicale, misantropo e misogino che era, una preoccupazione si aggiungeva alle altre già dette: che fossi diventato improvvisamente credente e che leggessi testi sacri. Gli feci vedere il libro, gli citai l’espressione: esattore di prepuzi convinto di rassicurarlo, ma lui mi strappò il libro di mano, sfogliandolo a caso lesse frettolosamente alcune citazioni in corsivo, perché più visibili del resto, che lo lasciarono di sasso, e lo rovesciò per cercare l’etichetta del prezzo. Trovatolo andò su tutte le furie: avevo speso una cifra per lui inconcepibile per leggere le schifezze di un irlandese pazzo che cita in continuazione cose astruse e che lui, lo zio, non voleva capire. Fui licenziato sedute stante, mi riaccompagnò a casa, dove travolse mia madre con la sua rabbia, buttandole addosso tutte le sue congetture sulla mia salute mentale, sessualità e dipendenza da sostanze psicotrope. Ma quello che fece veramente uscire dai gangheri mia madre fu quando le disse il prezzo del libro e l’ammontare della paga che fino ad allora mi aveva dato. Mia madre si precipitò in camera, nell’armadio teneva un battipanni di saggina, lo impugnò con un rantolo e urlando: – Tu mi vuoi vedere morta! – cominciò ad inseguirmi per pestarmi. Con l’Ulisse stretto al petto saltai il tavolo, guadagnai la porta d’uscita e agile come ero allora, salii sulla pianta di ciliegio per trovare riparo e aspettare che a mamma sbollisse l’incazzatura. Mia madre era una donna energica e determinata, aveva fatto la staffetta partigiana già a dodici anni, aveva affrontato un tedesco che minacciava con una rivoltella di far saltare le cervella a suo fratello, lo zio ciabattino appunto, quindi rotta a tutte le tattiche per raggiunger lo scopo. Era una lottatrice professionista e in quel periodo aveva aperto parecchi fronti: con mio padre e la sua amante, con la suocera e la cognata, ree a suo dire di prestare il letto al babbo per le sue intemperanze erotiche con donnine e donnacce senza soluzione di continuità, con i soldi che non bastavano mai. Ostinatamente andava avanti a testa bassa, senza arrendersi all’evidenza. Ci mancava solo che il figlio cominciasse a darle grane, quindi giocò sporco. Sapeva del mio pudore, della mia timidezza e di quanto non sopportassi di essere sgridato e insultato di fronte al vicinato. Tra l’altro ero il più piccolo dei ragazzi maschi della via, tutti già lavoravano e alcuni avevano la morosa ed io ero l’oggetto del loro scherno per la mia voglia di studiare, i miei modi da fighetto e la totale incompatibilità con il fobal. Quindi facendo leva su questo mio pudore, cominciò a urlare, un po’ mi insultava, un po’ chiamava i vicini, che arrivarono presto e sembravano decisamente soddisfatti dello spettacolo che si prospettava e subito spalleggiarono mia madre, sottolineando con brusii e movimenti del capo il rosario di imprecazioni ripetitive e minacciose che vorticosamente mi raggiungevano sull’albero. Mamma al culmine della rabbia con un rantolo si accasciò premendosi il petto con una mano e chiedendo una medicina per il cuore, senza però mollare il battipanni con l’altra. A questo punto i ragazzi ridevano e si davano robuste pacche tra di loro, quelle arpie delle loro madri ricominciarono a scuotere la testa, mentre mia madre con un filo di voce sussurrava:
– Muoio,.. muoio. Mi fa morire quel delinquente.-
Tutti in coro cominciarono a imprecare, bestemmiare, inveire contro di me con quella veemenza che solo il proletariato può esprimere. Erano indignati, rabbiosi e il coro urlava:
– Delinquente bastardo, la vedi tua madre? Con tutte le disgrazie che ha in casa ci mancava solo un lazzarone come te! Scendi subito e corri a prendere le medicine o ti tiriamo giù noi -.
Questo era troppo per me, passai in rassegna i loro sguardi: erano senza pietà.
Le loro mascelle si muovevano digrignanti, e bavose, i denti guasti delle anziane rendevano ancora più spaventoso lo spalancare le fauci, dalle quali uscivano epiteti diretti e volgari, i loro pugni stretti lungo i fianchi o alzati verso me minacciosi mi spinsero ad una decisione in una frazione di secondo: porre fine allo spettacolo. O almeno così speravo. Saltai giù dalla pianta, guardai con sprezzo quelle persone prive di sensibilità e mi avvicinai a mia madre che con inaspettata agilità scattò in piedi, mi piantò le unghie, per fortuna le teneva d’abitudine corte, in un braccio per trattenermi e con il battipanni cominciò ad impartirmi una severissima lezione davanti a tutto il vicinato. Mi rannicchiai e tentai di guadagnare la porta, almeno per entrare in casa e sottrarmi alla vergogna, ma mia madre aveva la forza della rabbia e dell’allenamento agli umili lavori fisici che faceva fin da bambina, così non ce la feci e rimasi esposto a quella piazza di vicini che detestavo.
Ora l’obbiettivo era salvare il libro, non potevo permettermi di perderlo, era vitale a questo punto, ma mia madre non la smetteva e ad un certo punto dovetti cercare di proteggermi le mani e le gambe con il libro. Un colpo strappò parte della sovracopertina di plastica trasparente. Mi scese una lacrima che sentii salata all’angolo destro della bocca e mamma ormai stanca si fermò. Ci guardammo in faccia, lei paonazza e ansimante, io bagnato di lacrime e sudore, che mi mordevo le labbra per il bruciore delle sferzate che mi striavano le braccia e le gambe. Ora nei nostri occhi non c’era più rabbia e men che meno rancore, solo amarezza, un’amarezza silente e intensa che si aggiungeva a tutte le altre amarezze e frustrazioni che ci tenevano così vicini nonostante tutto. I vicini di casa se ne tornarono ai loro orti, alle loro motociclette o utilitarie scuotendo la testa e una signora più acida delle altre, mentre stava varcando la soglia del suo giardino si voltò verso di me e ringhiò: – Tu ti credi tanto intelligente perché studi, ma guarda che la fronte alta non ce l’hai neppure tu -.
Si rigirò sui suoi ridicoli sandali con tacchi a spillo e rientrò in casa sbattendo sonoramente il cancello del giardino. Chiusi gli occhi, strinsi al petto il libro e tastandolo mi accorsi della sopracopertina strappata: l’avevo salvato, ma quello strappo mi avrebbe ricordato quella umiliazione per sempre. Quel libro ancora oggi è così e quando lo guardo rivedo lo sguardo amaro, duro, triste e senza speranza di mia madre, e anche il suo sguardo è ancora oggi così.

Il funambolo

86.copertine-capra.funambolo

Mi chiedo se l’arte, o l’artista, ha mai fatto altro se non isolare, rivelare, animare dare forza e accentuare l’individualità del singolo oggetto, percepito nell’abbondanza del mondo visuale.
Thomas Mann
Fotografare è una passione abietta da cui sono contagiati tutti i continenti e tutti gli strati sociali, una malattia da cui è colpita l’intera umanità e da cui non potrà mai più essere guarita. L’inventore dell’arte fotografica è l’inventore della più disumana delle arti. A lui dobbiamo la definitiva deformazione della natura e dell’uomo che in essa vive, ridotti a smorfia perversa dell’uno e dell’altra.
Thomas Bernard

1

Le linee d’intersezione dei piani di pavimento, parete e soffitto, nel mio studio non esistono. Ogni piano è raccordato da ampie e morbide curve che uniscono in illusoria continuità il verticale con l’orizzontale, il sopra con il sotto, in un falso sconfinato unico piano, apparentemente piatto, senza fine, senza tempo, quantomeno tre delle quattro pareti della grande stanza, dove realizzando ritratti fotografici, disintegro due delle quattro dimensioni. Il senso dimensionale è controllato dall’illuminazione, che con ombre o riflessi, può rivelare lo mancanza di angoli del cosiddetto limbo, (uno specie di enorme interno d’uovo), lasciare una sensazione di piano d’appoggio e un’ipotesi d’azimuth, oppure con sapiente scienza dell’illuminazione annientare completamente ogni relazione geometrica con il mondo di qualsiasi soggetto, in un bianco abbacinante o in un nero sconfortante, tranciando ogni legame con la miserabile realtà naturale di forma, luogo e tempo, ricreandola in sole due dimensioni, con la possente e tenebrosa nebulizzazione dell’arte fotografica, nella luce della mia personale interpretazione dell’essere in sé.

Gli attori o automi di ogni ritratto, sono in realtà spettatori inconsapevoli di un rito magico, circolare e a loro incomprensibile, del quale io sono padrone assoluto poiché ne conosco codici e caratteri, che credono, loro, di poter spiegare e tradurre nel linguaggio rettilineo del raziocinio e della didascalia. Nel vano tentativo di immaginare l’immagine prodotta dall’apparato mi osservano mentre posiziono le luci e li inquadro, ma non ci riescono e, come dice Flusser, ogni spiegazione logica si frappone tra loro e l’immagine che verrà prodotta, perchè essa, l’immagine, è sempre simbolica e non affrancandosi dalla necessità del pensiero concettuale essi cadono nella testolatria smarrendo la magia.
Con loro stessi portano l’immagine alterata che hanno sempre di sé e credono di poterla interpretare e contrabbandare meglio se aiutati dall’esoterica e indulgente capacità del ritrattista, che alla fine, sperano li farà riconoscere per ciò che vogliono e narrano di essere e mai sono. Le distorsioni e per l’aberrazione di questa società istituzionalmente ignorante, materiale, priva di ogni forma di sensibilità artistica e umana, sono magistralmente e pateticamente interpretate nei tentativi di dare un’immagine di sé iconograficamente accettabile per l’immaginario collettivo, da parte di questi spettatori aspiranti attori durante una seduta di ritratto. Incapaci di guardare dentro e cercando solo fuori invocano la magia della produzione di una loro immagine seppur cartacea: il ritratto. Da automi me ne danno mandato e secondo un programma necessariamente stabilito iniziano a muoversi secondo il caso, di fronte a quel giocattolo simulatore di pensieri che è la macchina fotografica, convinti che la ridondanza di informazioni, che mi esibiscono, li avvicini a un’illusoria possibilità di riconoscersi ed essere riconosciuti, accettarsi ed essere accettati, in quel percorso che sta tra loro e la morte: la realtà. Parlano, mi sommergono di metacodici per spiegarmi la loro immagine in potenza e chiedendomi di fare da funzionario della fotocamera, come se essa avesse già in sé tutto il programma del loro ritratto. Ma ciò non è mai possibile. Li osservo avvicinarsi al set preoccupati, deboli, in cerca di un mio consenso come bambini insicuri, con i visi spesso tesi in risatine sardoniche d’incertezza, pudori caustici o esibizionismi isterici, ma con un’unica ossessione: riuscire ad interpretare sé stessi ed averne di riflesso un’immagine riconoscibile al mondo di ciò che vogliono credere di essere. Per la propria immagine personale inseguono sempre un modello stereotipato, preconcetto: quello della loro cultura visiva e sociale. Anche i timidi e ritrosi, quelli che non vogliono farsi ritrarre, gli eterni traccheggianti, un piede su e uno giù dal set fotografico, con i loro piagnistei sono sempre così lontani dall’idea di loro stessi e accomunati a tutti gli altri dall’insostenibile orrore e meraviglia di non riconoscersi, di non esser riconosciuti e quindi di non essere. Tuttavia sono loro stessi che senza nessuna ironia arrivano vestiti di falsità, tradendo la loro intima essenza, lontani dalla loro anima. Nessuno sa più farsi ritrarre con disinvoltura. Difficile trovare qualcuno che abbia un’intima e sensibile immagine di sé. Nessuno è disinvoltamente lontano dal suo aspetto corporeo e vicino a ciò che veramente è, per ciò che ora è e che poi, dopo la morte, non sarà. Loro stessi negano la loro esistenza in quanto esseri incapaci della minima trascendenza, come fossero già morti, sospesi sul mio limbo tra terra e cielo ideale. Allora di fronte a quell’agglomerato informe di pensieri e volontà, dopo un attento studio dei sintomi, produco l’automa, che secondo il mio programma e l’aiuto degli apparati fotografici, alla fine del rito potrà diventare un’immagine, un ritratto. Come il dotto rabbino Bezhael Low nella Praga di Rodolfo, impasto l’argilla con cui creerò il Golem e a cui darò vita con l’inserimento dello Shem, il tassello d’osso su cui è scritto il magico, segreto e impronunciabile nome di Dio. In camera oscura poi, ridurrò cartaceo e inanimato, in una stampa, il mio Golem, seppellendolo in fondo a un cassetto dell’archivio per dimenticarlo, che forse un giorno riaprirò per rinnovare lo stesso potente stupore.
La leggenda dice che il Rabbi Low per stanchezza dimenticò di togliere lo Shem dal Golem per il riposo del sabato e questi distrusse l’intero ghetto di Praga uccidendo migliaia di innocenti. Con uno stratagemma Rabbi riuscì a neutralizzarlo togliendogli lo Shem, il Golem cadde o terra impotente e privo di vita e fu nascosto in una stanza magicamente inaccessibile nello sinagoga Vecchio-Nuova, dove tutt’oggi giace inanimato, ma se qualcuno, che conosce la combinazione di caratteri magici dello Shem, lo ritrovasse, potrebbe riportarlo alla vita con il suo devastante potere.

2

Ricordo che da bambino fui accompagnato da mio nonno per il primo ritratto fotografico della mia vita. Il nonno, vecchio radicale socialista, eroe della prima guerra mondiale, viveva con enorme tensione il momento di creare un’immagine tecnica di sé, il suo sembiante cartaceo bidimensionale. Il fotografo, amico suo e compagno di partito, aveva lo studio a poche centinaia di metri dalla casa del nonno, ciononostante i preparativi furono lunghi e laboriosi, come per un lungo viaggio. Dapprima bisognava comunicare ufficialmente il progetto a mia madre, che lavorava da sarta in casa, lontana e disattenta a qualsiasi problema che non fosse economico. Così, si presentò sull’uscio di casa, impettito e con aria severa e di circostanza disse a mia madre, china sulla macchina da cucire, che era ora che lui ed io avessimo un ritratto ufficiale assieme, visto che ero l’unico nipote che aveva e che lui, il nonno, ormai in avanzata età, voleva essere ricordato da me ancora valido, nella sua stupefacente forza fisica e morale, prima dell’immancabile, ma per me bambino impossibile, decadimento. Mia madre abituata al tono marziale e un po’ pedante del nonno alla sua richiesta, non sollevò neppure lo sguardo, disse solo: – E chi paga? – Il nonno assicurò che il pagamento del fotografo, del compagno fotografo dovrei dire, sarebbe stato totalmente a suo carico e ricevette da mia madre uno stralunato cenno d’assenso, e così dette l’avvio all’operazione ritratto. Per prima cosa stabilì che quella notte avrei dormito da lui, anche se la distanza tra le due case era irrisoria, perché dovevamo prepararci al particolare momento che ci attendeva, con solennità e, come dicevo lui, rango. L’indomani ci aspettava un ritratto, un vero ritratto, non una di quelle stupide fotografie che servivano solo agli sbirri per riconoscerti e sbatterti dentro dopo uno sciopero, o per appiccicarle su un documento, dove tutti i proletari erano rappresentati nella brutalità dello loro condizione infame e avevano delle facce da scemo, diceva, come quelle pubblicate su un libro di teorie lombrosiane, che mi fece poi vedere. Un ritratto intenso, studiato, che avrebbe dato dignità alla nostra condizione di intellettuali rivoluzionari e illuminati, che affrontano a viso aperto, con arte e poesia, l’ostilità di un mondo orrendo e ingiusto. Naturalmente ero emozionato e felice di essere coinvolto dal nonno in una cosa che lui riteneva così seria e importante e di essere io stesso messo sul suo stesso piano di rivoluzionario. In famiglia, al meglio si ridacchiava delle idee del nonno, senza mai prenderle sul serio. Le si attribuiva a una ferita di baionetta alla testa durante la guerra, sull’Isonzo, che oltre ad avergli lasciato una vasta cicatrice vicino all’orecchio, si diceva avesse accentuato il già eccentrico carattere. Giunti nella sua officina, come chiamava uno scantinato sotto casa dove faceva un po’ di falegname e si rifugiava a leggere i suoi libri ordinati in un’ampia libreria di noce da lui stesso costruita, avvisò la nonna che sarei rimasto a cena e a dormire e subito cominciò la preparazione al ritratto. Iniziò immediatamente a sfogliare vecchie riviste e libri di storia, facendomi vedere ritratti di re e generali, che quantunque da aborrire come simbolo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, avevano comunque cultura e sapienza, erano, come diceva lui, proprietari dei mezzi di produzione industriali ed intellettuali, e era significativo quindi come posassero in quei ritratti per dare alla storia la possibilità di conservarne uno loro immagine significativa. Mi faceva notare come tutti stessero attenti a rendere vivace l’occhio, il viso sereno, ma inflessibile nel rigore morale, nell’atteggiamento serio ma mai altero, e come il sobrio decoro regnasse nei loro abiti. Mostrò anche fotografie di anarchici e rivoluzionari, dei quali elogiò la fierezza dello sguardo, ma criticò lo scarso rispetto per delle convenzioni correnti di abbigliamento, concludendo che chi non ha rispetto per il proprio aspetto non può pretendere di essere rispettato. La dignità del proprio aspetto esteriore non è una vacuità borghese, infatti con queste teorie sciatte, diceva, la rivoluzione non si era ancora fatta. Convinto di avermi esaustivamente illustrato i miei doveri di essere umano libero rispetto alla fotografia, onde essere eternamente trasparente al mondo, passò a cercare, nella sua vecchia cassa da soldato della prima guerra mondiale, oggetti e simboli da portare con sé per il ritratto, e mentre lo faceva, mi parlò di un suo amico che aveva combattuto nelle guerre d’Africa, e che gli aveva raccontato che quei poveri esseri, gli africani, totalmente superstiziosi e ignoranti, capaci persino di adorare un pezzo di legno o d’osso, diceva, avevano paura a farsi fotografare, temendo gli fosse rubata l’anima. Il mattino successivo andammo dal fotografo. Fui subito affascinato dagli apparati tecnici, mi divertii molto e non ricordo quasi nulla delle discussioni di natura etica che si protrassero per ore, fino a mezzogiorno, prima nello studio fotografico e poi all’osteria, sulla pretesa del nonno di avere davanti a sé, mentre si posava per il ritratto, uno specchio per controllare la propria espressione ed essere cosciente dell’aspetto adeguato, personale e unico che voleva rappresentare e quindi essere. Lui voleva essere quel che voleva apparire, autenticamente, intimamente e senza la menzogna di mediazioni culturali: così era! Conservo ancora quella foto.

3

Ogni volta che finisco un ritratto, sento il bisogno di sedermi al centro del limbo e smarrirmi. Rivolto in modo da avere tre lati senza spigoli che mi avvolgono su tutto l’arco visivo, sistemo l’illuminazione con un riflesso esattamente a metà della mia visuale per sentirrni galleggiare in un piatto e nebbioso paesaggio padano, dove la linea dell’orizzonte non è altro che un lieve bagliore all’incontro tra biancastro cielo e grigiastra terra e tutto è immobile. Guardo il ritratto, respiro e penso alla morte. Pian piano mi avvicino con lo sguardo al tondo della pupilla riprodotta sulla stampa e mi accorgo che è un terrificante pozzo scuro, in cui precipito sgomento, nel tentativo di attraversarla come un acrobata che cammina sul filo, spaventato perché non ancora morto, perché sconfitto dallo paura. L’acrobata deve essere già morto prima di salire sul filo, per liberarsi dalla paura, affidarsi alla sensibilità dei suoi piedi, ed essere armato solo della forza delle mani che stringono il lungo e pesante bilanciere, attraversare il pozzo senza provare la letale vertigine, quando a metà percorso il suo sguardo incontrerà la sua immagine in bilico che si riflette nelle gelide e tenebrose acque di cui è colmo il fondo. Ogni pupilla di ogni ritratto, seppur diverso per espressione e intensità, seppur diverso per tecnica di ripresa è sempre comunque un pozzo scuro, nel fondo del quale, ancor più inquietante per l’aberrazione della prospettiva sferica, si riflette la mia immagine di acrobata terrorizzato in spettacolo. Immagine avvinghiata all’apparato, persona viva e meravigliata davanti o uno stolido pubblico fatto di una sola persona che non resiste alla vertigine dello specchiarsi e precipita infrangendosi nel proprio riflesso nel fondo nero che doveva vincere e attraversare. L’incontro inaspettato con lo propria immagine é insostenibile. Del resto da molto tempo nella mia cosa e nel mio studio sono stati banditi tutti gli specchi. Ogni volta che mi trovavo davanti a uno specchio scrutavo il mio occhio con intensità estenuante, cercavo nell’iride, nella pupilla o nella purezza del bianco del bulbo, anche il più piccolo segno di identità peculiare e personale o di cambiamento. Era sufficiente uno sguardo e l’accessorio domestico denominato specchio si attivava con perversa efficacia, rimandandomi un altro me stesso sconosciuto e per quanto facessi per orientarmi, mi smarrivo nell’angoscia agorafobica dell’immenso vuoto che trovavo nella mia pupilla. Enormemente rassicurante cominciare ad esplorare le pupille altrui, trasformarmi in ritrattista fotografico e speculare, ignorando di specularmi nelle pupille degli automi fotografici ai quali avevo dato vita e identità, seppur bidimensionale, a mia discrezione e vivendo emozioni per procura come fossi un terzo escluso. Nella mia anabasi, certo della mia identità verso me stesso e Dio, al punto da non aver bisogno d’avere un’immagine mentale di me, ma solo dei miei automi ritratti, mi scontro con l’involontario specchiarmi in ogni occhio che ho fotografato, diventando il terrorizzato acrobata che precipita in ogni pozzo buio che tenta di attraversare sfracellandosi nella tenebra che fa da specchio. Ne ho terrore. E’ straziante la sensazione di caduta in quest’occhio. Mi procura dolore e tensione insostenibile e incredibilmente non ho alcuna voglia di fuggire e di sottrarmi a questo sofferenza, ma attraversarla, sentendola fino in fondo per l’orrore e l’incertezza che mi spetta per nascita e che è il mio io. Non mi resta altro che smettere di fotografare estranei e comprarmi uno specchio, oltretutto quel che vedrò sarà il solito e non una novità.

Bibliografia

Benjamin – L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – Einaudi
Flusser – Per una filosofia della fotografia – Agorà Editrice
Barthes – La camera chiara – Einaudi
Schawarz – Arte e fotografia – Bollato Boringhieri
Calvino – Le avventure di un fotografo – Einaudi

Questo testo è apparso nel catalogo della mostra “Controcanto“ Palazzo Gambara 1998