Te non ti puoi ricordare

Paolo Teobaldi, Arenaria, edizioni e/o 2019 (pp. 160, euro 16)

“Te non ti puoi ricordare, non eri ancora nata”, “e poi vai a sapere che lingua, quali lingue, quante lingue parlerai…”: è un lungo racconto alla nipotina questo libro, un racconto fatto di divagazioni (di cui l’autore rivendica la legittimità “Melville, in Billy Budd, dice che le divagazioni in un racconto sono un po’ come dei peccati: ma, come quelli, altrettanto gustosi”); un racconto del, sul Tempo, letto nei cambiamenti, e nelle perdite. In quelle subite dalla lingua in primo luogo: è anche un grande repertorio di parole andate, questo libro. Di parole della parlata locale, lì nel Pesarese come dovunque: fuori dalla città non si trovavano solo campi o incolti, ma anche “gerbidi, cannicce, rimorte, orti, pozzi, guazzi, mazzacavalli a stufo”, così come giù sulla spiaggia, “sotto l’acqua di questa nostra bassura adriatica”, “nuotavano zanchette, raschia terra, aguglie, raguselli, branchetti di papalina e di baldigare”. Non viene neanche alla mente di cercare il significato preciso di ciascuno di questo termini: non è discorso quello che producono, ma musica, che resta nelle orecchie terminata la lettura, quando si guarda quella bambina che pedala vicino al vecchio in bicicletta, tabarro sciarpa e cappello, e una fisionomia che inevitabilmente richiama quella del nostro Franco Piavoli, un volto che ben si accorda con queste pagine. Dense non di rimpianto e recriminazione, ma se mai del rilievo puntuale, e sornione, di perdite non necessarie, che proprio non viene in mente di chiamare Progresso. Ma del resto, niente rimane identico a se stesso, né le cose né gli uomini. Neanche l’arenaria che forma l’altura che digrada verso il mare alle Rive del San Bartolo e che una volta non si lasciava “lambire e sgrottare” dalle onde come avviene oggi: “dove oggi vedi il mare lì c’era tutta terra, ma terra buona, ampi coltivati, filoni di grano, vigne maritate coi mori (…) una terra benedetta che una volta, favoleggiava mio padre (…) era propriamente, né più né meno, il Paradiso terrestre, quello della Genesi, dove Adamo ed Eva, tenendosi per mano, tra le ginestre in fiore, ciascuno col rispettivo umanissimo ballonzolio.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Forse pensavo che mettere le cose nero su bianco, tenere un resoconto scritto della mia esistenza…”

“Forse pensavo che mettere le cose nero su bianco, tenere un resoconto scritto della mia esistenza, fosse un modo per neutralizzare… la mia scomparsa. La mia cancellazione. Lasciare un segno nel mondo, come si suol dire. (…) Ma anch’io per esperienza posso dire che scrivere le cose non serve, se non per il fatto che più tempo passiamo a scrivere meno ne abbiamo per fare quelle cose che finiamo per dimenticare nostro malgrado.”

(Lisa Halliday)

La lezione della misura

Gianrico Carofiglio, La versione di Fenoglio, Einaudi 2019 (pp. 170, euro 16,50)

“Il fatto è che quando discutiamo con qualcuno, se l’argomento ci sembra importante e se i toni si accendono, vorremmo sempre stravincere. Vorremmo inchiodare l’altro, vorremmo che riconoscesse che noi abbiamo ragione e lui, o lei torto. (…) è una pura questione di ego. Mentre l’ego dovrebbe essere escluso dall’orizzonte di qualunque transazione con gli altri, di qualsiasi tipo, sia professionale sia personale”. Sono constatazioni, frutto di quell’esperienza vera che è riflessione mai conclusa sulle esperienze vissute, quelle del maresciallo Pietro Fenoglio, non insegnamenti. Ormai alla vigilia della pensione, è con un giovane casualmente incontrato nella palestra in cui entrambi fanno esercizi di riabilitazione (per conseguenze dovute ai raggiunti limiti di età uno, per quelle di un incidente l’altro), che il vecchio carabiniere si intrattiene: la vita sembra colorarsi di maggiore significato se, sia pure indistintamente, si individua un erede cui trasmetterne episodi e situazioni che non si sono lasciati dimenticare. Non necessariamente il proprio figlio – come in Alle tre del mattino -, ma un giovane comunque. In ogni caso, un interlocutore del quale prendersi cura, una cura che è socraticamente incoraggiamento all’altro perché prenda cura di se stesso. E difatti il ventenne Giulio prenderà via via coscienza della propria confusione esistenziale, della pigrizia con cui si rapporta a un possibile progetto biografico. Perché sono solo apparentemente regole dell’investigazione quelle che gli illustra il maresciallo – detective della stessa pasta di Maigret, per intendersi (”Bisogna sapersi adattare all’interlocutore per riuscire a convincerlo. In qualsiasi campo credo, ma di sicuro nelle indagini. E un’altra cosa importante è offrire, o prospettare, una via d’uscita dignitosa, non umiliante.”) In realtà, ben si adatta alla vita in generale la fiducia in una ragione che non è mai soltanto esercizio di razionalità, ma sempre virtù della ragionevolezza, senso della misura, consapevolezza dei limiti propri e altrui, disincantato ed empatico sguardo sui propri simili: “tutti in qualche modo mentono. Mentono agli altri e mentono a sé stessi. Mentono sulle loro azioni e mentono sui veri motivi di quelle azioni”, e “le testimonianze vanno trattate con cautela perché sono tutte, almeno in parte, false testimonianze; anche se il soggetto è sincero, in buona fede.” Perché “la nostra percezione è come uno specchio deformante”.

Insieme a considerazioni del genere, a intervallare gli “arancini” (direbbe Camilleri) di Fenoglio, che sempre parte da sintetici racconti delle proprie indagini, sono anche riferimenti letterari, che risaltano spesso per la loro attualità – “Dumas diceva: preferisco i mascalzoni agli imbecilli, perché a volte si concedono una pausa”. Il maresciallo è infatti un uomo contraddistinto da un interesse di lunga data per la letteratura: “Non si può scrivere senza aver letto molto. Non ricordo chi ha detto che ogni vero scrittore è seduto su una catasta di libri altrui. Diciamo che la lettura è un presupposto necessario, anche se non sufficiente, per scrivere qualsiasi cosa.” Ma, del resto, il mestiere dello scrittore e quello dell’investigatore non sono poi così lontani: “Credo che la chiave sia: porsi domande su quello che si sta guardando e, più in generale, su quello che si sta percependo. Solo così smetti di dare le cose per scontate e cominci a vedere davvero ciò che ti circonda. Immagino sia una qualità richiesta anche a un bravo scrittore: registrare cose che hanno visto tutti e mostrarle come se fosse la prima volta, come se prima non le avesse mai notate nessuno.” Il che non è affatto facile, assicura lo stesso Carofiglio in una recente intervista (“Tuttolibri” del 2 marzo) richiamando una testimonianza autorevole: “«Scrittore è colui al quale scrivere riesce più difficile che a qualunque altra persona» ha detto Thomas Mann.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un trascinante caos narrativo

Manuel Vilas, In tutto c’è stata bellezza, Guanda 2018 (pp. 409, euro 19)

Perché si racconta dei propri genitori? ci si chiedeva dopo aver letto Tra loro, di Richard Ford (in questi Appunti il 30 luglio 2017). Per capire chi erano, dice Ford: “io cerco di affrontare la loro diversità ed essi mi eludono, come fanno tutti i genitori”. Perché i genitori  creano per noi “una sorta di ‘separatezza congiunta’ e un utile mistero”.  Perché, sostiene Vilas, “Tutto scompare tranne quel mistero, che è il mistero della volontà di essere, della volontà che ci sia un altro diverso da me; su quel mistero si basano la paternità e la maternità”. Parole simili, ma per Ford i genitori sono quello che loro hanno fatto, le loro scelte, la loro vita; per Vilas sono la ragione nascosta del proprio fare, o non fare, e continuano a segnare la trama della propria vita: “Tutto quanto successe a mio padre si ripercuote sulla mia vita con una precisione millimetrica. Stiamo vivendo la stessa vita in contesti diversi, però è la stessa vita.” “Il suo ‘cosa parto a fare?’ – era commesso viaggiatore, il padre – arriva a me in un ‘cosa scrivo a fare?’”. Ma non meno tenace è l’identificazione con la madre: “Tutto il mio passato sprofondò quando mia madre fece la stessa cosa di mio padre: morire. (…) Ciò che mi univa a mia madre era e continua a essere un mistero che forse riuscirò a decifrare un secondo prima della mia morte. (…) Chiamo madre il mistero generale della vita.”

E’ attraverso la lente fornita dal legame insuperabile con i genitori che si articola un’autobiografia discontinua, ricorsiva, fitta di cortocircuiti verbali che mimano il percorso solo apparentemente casuale delle associazioni libere (“Quando il cadavere di mio padre è bruciato, si è fuso il dente d’oro? (…) Si è tenuto il dente d’oro il medico legale che ha fatto l’autopsia a mio padre togliendogli il pacemaker? Ha fatto un pacchetto, dente d’oro e pacemaker? L’oro e il cuore? Mio padre ha avuto un cuore d’oro.”). “Mia madre era una narratrice caotica – ammette del resto l’autore. Anch’io lo sono. Da mia madre ho ereditato il caos narrativo”.

Studente, poi insegnante, l’alcolismo poi superato, il matrimonio, il divorzio, due figli che si rivelano ben presto due sconosciuti: finisce solo, il protagonista, e scrive, di sé, di loro, consapevole che “Il passato di qualunque uomo o donna di più di cinquant’anni si trasforma in un enigma. È impossibile risolverlo. Non resta che innamorarsi dell’enigma”. L’enigma di una famiglia che non si può annoverare fra quelle felici: “Eravamo una famiglia catastrofica, e allo stesso tempo avevamo la nostra originalità”, sintetizza l’autore, e sembra confermare l’aforisma di Tolstoj. Se il padre, uomo dinamico e volitivo per altro, era soggetto a ricorrenti “crolli della volontà”, la madre è stata “una donna-dramma”, i cui mali “erano enumerativi. Enumerava dolori, alcuni di un’originalità immensa.” Afflitta da ipocondria e malinconia, come chiunque del resto quando ha oltrepassato la metà della vita e “dedica il proprio tempo a favoleggiare sul tipo di malattia che lo strapperà al mondo. Simula e ordisce storie sulla propria morte che vanno dal cancro all’infarto, dalla morte improvvisa all’anzianità interminabile.”

La morte, la caducità, la “vanità” di tutto e tutti (anche delle idee e della politica, nella Spagna postfranchista) è l’altro filo conduttore (l’altra faccia?) del legame inestinguibile con chi ci ha messo al mondo, e giunge puntuale a svuotare di senso il presente: “Un giorno o l’altro ogni uomo finisce per affrontare l’inconsistenza del suo passaggio nel mondo” e per constatare “l’inutilità di tutte le conversazioni umane che sono state e che saranno”, leggiamo già nella prima pagina. La “transitorietà di tutto” è uno “scandalo” insopportabile, ed è un “transito scriteriato” quello che va dal movimento vitale al rigor mortis”.

Eppure, in questo fiume che non risparmia nulla e nessuno, in cui “Le cose non resistono come facevano anticamente, quando un frigorifero e un televisore duravano trent’anni”, e “la gente non seppellisce elettrodomestici vecchi” anche se c’è chi “ha passato più tempo accanto a un televisore o a un frigorifero che accanto a un essere umano”, ebbene: anche in questo fiume rapinoso c’è stata bellezza. “In tutto c’è stata bellezza”: che cosa nasconde quest’affermazione ricorrente, inattesa, intempestiva? Lo sforzo di abbandonare un punto di vista centrato su se stessi? di venire a patti con il senso tragico del passato e della morte? di accettare la vita, sia pure paradossalmente? Lo farebbe pensare quella che si può considerare una conclusione, anche se precede di parecchie pagine la fine del romanzo. Un romanzo che sa conservare fino all’ultimo la sua carica di ironia sofferta: “Può darsi che alla fine un uomo si innamori della propria vita. È questo che mi sta succedendo. (…) quello che non potevo immaginare è questa riconciliazione con me stesso. (…) Può darsi che alla fine a essere sconfitta sia la solitudine. E può darsi che alla fine tu scopra che l’unico essere umano che non è un’assoluta rottura di palle sei tu.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una storia bizzarra che dà speranza

Abraham B. Yehoshua, Il tunnel, Einaudi 2018 (pp. 340, euro 20)

Quel che resta, dopo la lettura dell’ultimo romanzo di Yehoshua, è l’autoironia benevola del protagonista, e insieme il senso profondo, la pratica sperimentata dell’amore che da decenni lo lega alla moglie. Due facce della stessa medaglia, due coordinate senza le quali Zvi Luria, ingegnere in pensione, non potrebbe affrontare con realismo e serenità l’avanzare di un’incipiente atrofia cerebrale e la conseguente perdita di memoria, dei nomi innanzitutto. Eppure, proprio questi sintomi, riconosciuti senza mezzi termini come spie di una irrecuperabile “demenza”, sono lo stimolo a reagire: tornare a collaborare, sia pure a titolo gratuito, a progetti stradali come ha fatto tutta la vita può rappresentare la terapia occupazionale migliore. E’ la moglie a suggerirgliela, e a darle possibilità concreta un giovane ingegnere che è andato a occupare quello che era stato il suo ufficio nell’ente pubblico “Percorsi di Israele”, un nome che evoca l’altro filone che attraversa questa come tutte le storie di Yehoshua: la sorte del conflitto fra palestinesi e israeliani, qui attraversato tuttavia da sotterranee correnti di solidarietà fra le due parti che ispirano idee come quella di non spianare la collina che ostacolerebbe la costruzione di una nuova strada militare, ma di attraversarla con un tunnel in grado di consentire la conservazione delle rovine archeologiche che coronano l’altura offrendo rifugio a un nucleo familiare di clandestini arabi. La scrittura piana di Yehoshua sembra echeggiare “lo spirito positivo di calma professionale” che ha sempre connotato l’impegno di Luria e continua a guidare il lavoro di pediatra svolto dalla moglie. L’uno e l’altra personaggi emblematici di un superiore spirito di civiltà non intaccato dalla guerra e capace di indicare una via in un paese dilaniato dalla violenza eppure così piccolo che neanche un demente smemorato potrebbe perdercisi. Un paese in cui del resto tutti sono un po’ “confusi”, ma nel quale sarebbe bello tornare a pensare – come facevano da giovani il protagonista e il suo amico Ben Gurion, il fondatore di Israele – che i contadini arabi e i beduini non fossero altro che “discendenti di ebrei che non se n’erano mai andati da qui, anche se, col tempo, erano stati costretti a convertirsi a un’altra religione”. Una “storia bizzarra”, certo, ma di quelle che “almeno danno speranza”. Proprio come il progetto del tunnel, altrettanto bizzarro, e costoso per di più, e proprio per questo realizzabile – nonostante la prevedibile opposizione dei burocrati del ministero della Difesa – solo in forza di una “demenza creativa” come quella di un “ingegnere senescente”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Se il mondo è davvero truffaldino e irreale come a me sembra stia diventando ogni giorno di più…”

“Se il mondo è davvero truffaldino e irreale come a me sembra stia diventando ogni giorno di più; se ci si sente sempre più impotenti al cospetto di questa irrealtà; se l’esito inevitabile è la distruzione, se non di ogni forma di vita, quantomeno di quasi tutto ciò che di prezioso e civile c’è nella vita… allo perché, in nome di Dio, gli scrittori sono contenti? (…) il fatto che la situazione sia angosciante pesa sullo scrittore non meno, e forse anche più, che su qualunque altro cittadino – perché per lo scrittore la comunità è, in senso stretto, tanto il tema quanto il pubblico. E può accadere che, quando la situazione produce sentimenti non solo di disgusto, rabbia e malinconia ma anche di impotenza, lo scrittore si perda d’animo e finisca per dedicarsi ad altro, alla costruzione di mondi del tutto immaginari, e alla celebrazione dell’io, che può, in diversi modi, diventare il suo tema, nonché la forza che determina il perimetro della sua tecnica.”

(Philip Roth)

Un mutare di sentimenti, silenzioso, decisivo

Anne Cathrine Bomann, L’ora di Agathe, Iperborea 2019 (pp. 156, euro 15)

Un pacato, sommesso Ebenezer Scrooge nei panni di un vecchio psicanalista. Non siamo alla vigilia di Natale ma una data importante è ormai vicina: sei mesi, e sarà la pensione. Fa il conto alla rovescia delle ore di colloquio che deve fare: il suo lavoro gli si è rivelato sempre più come una “farsa”, noia e fastidio accompagnano le sedute, e l’età si fa sentire: “invecchiare – pensavo, sentendomi invadere dall’amarezza – significa soprattutto veder crescere la differenza tra il proprio io e il proprio corpo, finché un giorno si diventa completamente estranei a se stessi.”

Ma qualcosa accade: la sua fedele segretaria, contravvenendo agli ordini del professionista che assiste da anni, accetta una nuova paziente, anche se è chiaro che la cura richiederà più tempo di quello che resta prima della pensione. Si tratta di una signora, di Agathe appunto, con ricoveri psichiatrici alle spalle, difficilmente classificabile secondo le categorie della malattia mentale. Sennonché, l’inquietudine di Agathe non appare allo psicanalista estranea quanto le sofferenze degli altri pazienti, forse perché lui stesso sente ormai incrinata la sicurezza nella quale ha rinchiuso la propria vita: “Mi resi conto di aver coltivato per tutto quel tempo l’idea che la vita vera, la ricompensa di tutte le fatiche, sarebbe arrivata il giorno in cui fossi andato in pensione. Ma ora, guardando al futuro, non riuscivo proprio a immaginare che la vita contenesse ancora qualcosa di cui rallegrarmi. Non erano l’angoscia e la desolazione le uniche certezze?” Non arretra di fronte a questa rivelazione, il dottore, costretto ad un’ammissione che non avrebbe mai sospettato di poter fare: “Sono esattamente come loro, pensai, mentre uscivo per andare incontro al primo paziente.”

Sia pure in un modo diverso dal personaggio di Dickens, anche lui è stato un avaro, che ha scambiato la freddezza per professionalità, che non ha mai amato nessuno, come confessa al marito moribondo della sua segretaria. Si ritroverà così a piangere al funerale, a confezionare – la prima volta in vita sua – una torta per il vicino con cui fino allora non aveva scambiato che un saluto sbrigativo, e soprattutto a cedere all’attrazione che sente per Agathe: l’invito di lei ad entrare insieme in un caffè chiude il racconto di una vicenda che nessun avvenimento di rilievo ha segnato, se non – come in molti romanzi giapponesi – un mutare di sentimenti, silenzioso, decisivo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La Resistenza dalla storia alla letteratura

Angelo Bendotti, Nel segno di Fenoglio. Lo straordinario e il vero, Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea-Associazione editoriale Il filo di Arianna 2919

La distanza fra storici e narratori della Resistenza – portatori i primi di uno sguardo dall’alto, privo di complicazioni emotive, e i secondi attenti invece a restituire il vissuto di una lotta condotta giorno per giorno – aveva trovato un correttivo a inizio anni Novanta nell’opera di Claudio Pavone. Una guerra civile, in cui lo storico attingeva a testimonianze capaci di render conto della concreta esperienza di quei giorni. Ora, questo libro sembra “annunciare una terza fase nei rapporti fra storici e narratori”: questo il parere autorevole di Gabriele Pedullà, scrittore e critico letterario secondo il quale “Bendotti compie il percorso di Pavone nella direzione opposta: dalla storia alla letteratura”.

A motivare un simile percorso è la convinzione che la letteratura non sia “accessoria”, non si riduca a “un divertissement a fianco della ricerca storica, e che quindi “per studiare la storia della lotta partigiana bisogna innanzitutto partire dai grandi scrittori”: quanto rileva nella sua introduzione Elisabetta Ruffini, attuale direttrice dell’Istituto bergamasco, è subito confermato dall’autore stesso, che nella sua nota d’apertura esprime la sua “gratitudine nei confronti di Beppe Fenoglio (…) perché mai nessuno ha scritto meglio di Resistenza”. Sicché i suoi romanzi possono essere assunti come “una guida dentro la ricerca storica”, nella “consapevolezza che la storia è anche racconto della storia”. E sono appunto racconti quelli che si leggono nei dodici capitoli che si dispongono attorno ai due centrali, in cui si raccolgono le riflessioni di carattere più teorico sul rapporto fra storia e letteratura. Dodici capitoli che – mettendo in risalto momenti e situazioni, ruoli e figure – propongono altrettanti temi, “spesso scomodi e/o poco sviluppati”, che sono le “storie” raccolte dall’autore a mettere in luce: “storie che potrebbero ridare un significato alla parola antifascismo”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

“Per un vero romanziere la Storia non è altro che un “laboratorio antropologico”…”

“Per un vero romanziere la Storia non è altro che un “laboratorio antropologico” per mettere alla prova i suoi personaggi. La Storia, infatti, è la quintessenza dell’astrazione: è popolata da uomini e donne senza volto. Il romanzo corregge la Storia: offre a ogni individuo un volto.”

(Massimo Rizzante)

Volti della città e percorsi delle esistenze

Patrick Modiano, Ricordi dormienti, Einaudi 2018 (pp. 83, euro 15)

“Mi è capitato più volte di imbattermi nelle stesse persone per le vie di Parigi, persone che non conoscevo. A forza di incrociarle per strada, i loro visi mi diventavano familiari. Credo che mi ignorassero e che solo io notassi quegli incontri fortuiti. Altrimenti ci saremmo salutati o avremmo scambiato due parole. (…) Per consolarmi annotavo scrupolosamente il luogo esatto e l’aspetto fisico di questi sconosciuti.” Del resto, lui, il protagonista, annota anche le parole che ascolta per caso in un bar, per la strada: perché non vadano perdute.

Volti, parole, ma soprattutto ricordi, disseminati in una città di cui si offrono in quantità riferimenti topografici e toponomastici precisi, ma che rimane evanescente, quanto gli amori che ai luoghi restano legati, gli uni e gli altri immersi nella fluidità del sogno.

Ricordi che s’era creduto d’aver smarrito ed erano invece dormienti, e la scrittura sa risvegliare. Una scrittura apparentemente svagata, digressiva, ma in realtà capace di aderire alle pieghe di un’immaginazione sempre al lavoro, sempre all’erta, nell’attesa di incontri che potrebbero risolversi in rivelazioni capaci di far luce sui “misteri di Parigi”, di cui il protagonista è da sempre curioso. Non collezionista, non storico, ma appassionato cultore degli insondabili rimandi fra i volti della città e i percorsi delle esistenze, perché “Parigi è così, disseminata di punti nevralgici e delle forme molteplici che le nostre vite avrebbero potuto assumere”, e di tracce preziose, ancorché enigmatiche, che riportano a momenti della propria vita, a persone che ci si era sforzati di dimenticare, e che invece “ritornano a galla come corpi annegati all’angolo di una strada, dopo decine di anni, a certe ore del giorno”. In una Parigi dove può accadere di trovarsi in “luoghi incerti, specchi di una stagione in cui il tempo sembra essersi fermato – luoghi che spariscono non appena la vita riprende il suo corso e la città il suo aspetto consueto.”

Gli interminabili esercizi di memoria di Modiano sembrano aver trovato il loro più felice approdo in questo paesaggio fluttuante, che lascia a tratti intravedere le strade che la vita non ha preso.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Una nuova avventura del biblioterapeuta

Fabio Stassi, Ogni coincidenza ha un’anima, Sellerio 2018 (pp. 282, euro 14)

Il protagonista del romanzo è la memoria, quella biografica, individuale, e quella letteraria, collettiva, perché, incerto e appassionato insieme del mestiere che si è inventato, il protagonista è un “biblioterapeuta”, lo stesso che abbiamo conosciuto in La lettrice scomparsa (Sellerio 2016). E non si direbbe guarito dal “mal di letteratura che l’aveva colpito”: “La mia memoria è alluvionata da indici, frontespizi, quarte di copertina. (…) Ogni libro che leggo è un metro di terra che sottraggo alla realtà. Eppure continuo ad amare la letteratura di un amore sconsiderato, a ricevere i miei pazienti, a dare, per quel poco che conta, un ricovero passeggero ai loro dispiaceri, convinto che non ci sia gesto più umano che leggere (…). Ma le parole degli altri non possono salvare nessuno se non diventano tue.”

E se il paziente ha perso la memoria (il dottor Alzheimer aleggia anche in questo come su innumerevoli altro romanzi di questi anni)? Non resta che cercar di ricostruire dalle poche frasi sconnesse che ha scritto o dice, nella clinica dove si trova, il libro che le conteneva e nel quale avevano senso. Più del malato è allora la sua straordinaria biblioteca a guidare il biblioterapeuta detective e qui, esplicitamente richiamato dall’autore, è quella borgesiana di Babele ad esser chiamata in causa, perché il tempo della biblioteca è “l’eternità”: “La memoria degli uomini era fragile, ma quella della biblioteca perenne. (…) Quel luogo aveva l’età di tutti i libri che conteneva, dal più antico a quello che non era ancora stato scritto.”

Borges, Canetti, ma anche Kafka (alla rilettura della Metamorfosi sono dedicate alcune pagine che valgono l’intero libro) e tanti altri: le digressioni sono all’ordine del giorno, tanto da creare un senso di leggera vertigine di storie nella storia. È forse questa sensazione la musica che attraversa il romanzo: già, perché per giudicarne uno non si tratta di chiedersi di che cosa parla, di com’è costruito, secondo quale stile, ma di porsi solo una domanda, essenziale: “Come suona? Ecco: l’unico interrogativo ragionevole che un lettore dovrebbe porsi di fronte a quello che legge è chiedersi sempre come suona.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

La compassione: un sentimento riparatore, una pratica necessaria

Erminio Gius, Compassione, EDB-Edizioni Dehoniane Bologna 2019

La Bibbia e le parabole del Vangelo, da un lato; dall’altro, le argomentazioni provenienti dalla psicologia sperimentale come dalla psichiatria fenomenologico-esistenziale, dalla psicoanalisi come dalle neuroscienze: i due discorsi si confrontano in questo libro, l’uno lascia intravedere l’altro, si direbbe, secondo la relazione tra figura e sfondo messa in risalto dalle immagini che la psicologia della Gestalt ci ha reso familiari. La sicurezza affettiva offerta dal ventre materno sfuma nella serenità onnipotente vissuta nel giardino dell’Eden, ed entrambe sono inevitabilmente esposte al senso del vuoto, al fantasma dell’angoscia, alla presenza luttuosa della morte.

Le acquisizioni della “scienza psicologica” – sondata con l’ampiezza e la profondità che Eugenio Borgna sottolinea nella sua introduzione – sono il veicolo di un “approccio ermeneutico alla Bibbia”, intesa come “un’antropologia esistenziale piena, corposa, appagante e affascinante”. Tra un Prologo e un Epilogo, esplicitamente rivolti a orientare il lettore, si dipana una riflessione densa di riferimenti, ricca di digressioni, attorno al concetto di compassione, dimensione della misericordia – prerogativa divina – cui la persona umana può attingere, nonostante sia “biologicamente progettata per la sua autoconservazione”, facendone il “fondamento della vita sociale e della stessa democrazia”. Perché, e come, gli uomini possano rendersi compassionevoli è il tema della prima parte del saggio; a quale fine, della seconda. La parabola del figlio prodigo e quella del buon samaritano, soprattutto, offrono il “materiale letterario” sul quale si sviluppa “il pensiero sull’uomo compassionevole e sulla possibilità che la compassione diventi un’etica universale per la pace nel mondo”. Una continuità sostanziale lega i due versanti del discorso: la “riparazione del dolore” che la compassione rende possibile attiene sia “all’anelito di raggiungere la pienezza totalizzante rimembrata nella condizione di vita dell’utero materno” sia alle “sacche di dolore innocente” che travagliano l’attuale società globale, una “società smarrita sia nella sua opulenza sia nella sua povertà”, nella sua indifferenza come nella sua sofferenza. Sul fronte individuale e intrafamiliare così come su quello sociale e politico il “destino degli uomini” è comunque segnato dall’irraggiungibilità e dall’impraticabilità di una felicità che – sosteneva Kafka – rimane comunque scopo fondamentale sul cammino di un quotidiano e mai risolto confronto fra la “tentazione antica di inseguire l’onnipotenza narcisistica e l’impegno a vincere il male oscuro della depressione del ripiegamento difensivo”. Ed è qui che la compassione – espressione di “bontà intrinseca” ma anche di “aspetti oscuri” che non si possono ignorare – rivela la sua capacità di offrire “quell’abbraccio di contenimento benedicente che il dolore di vivere impone all’uomo come aiuto ripartivo.”

In questo percorso, la lettura della parabola del figlio prodigo, illuminata da quella della rappresentazione dovuta a Rembrandt, propone alcune tra le pagine più originali e penetranti del libro, capaci di legare in successione l’analisi della posizione e del ruolo del padre con quella delle figure del figlio minore, che ritorna, e del maggiore, che non se n’è mai andato – figura quest’ultima a torto trascurata e in grado invece  di rivelare risvolti complessi e inquietanti: quelle che emergono – dilatando e attualizzando il significato della parabola – sono le “motivazioni psicologiche” di fondo, i tre ambiti del bisogno di affiliazione, di potere e di successo.

È poi il personaggio dell’out sider, del reietto – quale è considerato il samaritano dalla casta della religione istituzionalizzata – a offrire il terreno di riflessione necessario a “comprendere che cosa significhi per l’uomo praticare la compassione, intesa come giustizia, che restituisca dignità piena all’uomo offeso”. Fino a giungere all’”ipotesi affascinante, se pure ideale, di una «carta etica mondiale»”, espressione di “una comune resistenza contro le cause del dolore ingiusto e innocente” e riferimento di “un’écumene della compassione” finalizzata ad assicurare “il primato di una coscienziosa e democratica politica mondiale/universale nell’era della globalizzazione.”

“La sua biblioteca era ristretta. Col passar degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri…”

“La sua biblioteca era ristretta. Col passar degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere ed a evitare il superfluo. (…)  Da tempo cercava d’allontanare da sé la letteratura, quasi vergognandosi della vanità d’aver voluto essere, in gioventù, scrittore. Era stato svelto a capire l’errore che c’è sotto: la pretesa d’una sopravvivenza individuale, senz’aver fatto nient’altro per meritarla che mettere in salvo un’immagine – vera o falsa – di sé. La letteratura delle persone gli parve una distesa di lapidi del cimitero: quella dei vivi e quella dei morti. Ormai nei libri cercava altro: la sapienza delle epoche o semplicemente qualcosa che servisse a capire qualcosa. Ma siccome era abituato a ragionare per immagini continuava a scegliere nei libri dei pensatori il nocciolo immaginoso, cioè a scambiarli per poeti (…).”

(Italo Calvino)

Una distopia sorridente e inquietante

Giacomo Papi, Il censimento dei radical chic, Feltrinelli 2019 (pp. 141, euro 13)

Siamo dalle parti del “Bispensiero” del George Orwell di 1984, per cui “la menzogna diventa verità e passa alla storia”, e soprattutto della sua  “Neolingua”, che lascia spazio solo ai concetti più elementari vietando l’uso di molte parole; ma anche “la milizia del fuoco” di Fahrenheit 451 sembra far capolino in queste pagine, anche se qui di incendi di libri, ad opera dei detentori del potere almeno, non se ne vedono. Forse perché non sono tempi di tragedia i nostri, ma di commedia, e dunque per parlare della catastrofe culturale e politica è più appropriato un romanzo leggero, percorso da un umorismo che cattura fin dalla prima pagina (nonostante il fattaccio da cui si parte). Se infatti è vero che il buon racconto si vede dall’incipit – e lo deve credere certamente Papi, il cui primo romanzo non lasciava dubbi: Era una notte buia e tempestosa. 1430 modi per iniziare un romanzo (Baldini&Castoldi 1993) – ci siamo: “Il primo lo ammazzarono a bastonate perché aveva citato Spinoza durante un talk show”. “Nel mio programma – aveva precisato il conduttore – non permetto a nessuno di usare parole difficili. Le pose da intellettuale sono vietate”, e non era stato da meno il ministro degli Interni: “Si vergogni! Lei fa citazioni mentre il popolo muore di fame”. Ovvio che anche i social facciano la loro parte: “Muori tu e quel culattone di Spinozza!”

Una distopia dunque, di quelle però che ti dicono che il futuro è adesso, non solo perché il “primo ministro degli Interni” (si dice così, essendo che nel nuovo sistema le due figure coincidono…) ha curriculum, modi e fattezze che ricordano da vicino Lui – l’attuale primo ministro degli Interni, appunto – ma anche perché il timbro riprodotto in quarta di copertina ci assicura che “Questo libro non contiene parole difficili”. Lo assicura l’“Autorità Garante per la Semplificazione della lingua Italiana”, e lo dimostrano le cancellature di parole da intellettuali che costellano il testo.

La prima vittima è un attempato professore, esemplare in via di estinzione di quanti hanno “assistito allo sbriciolarsi del loro posto nel mondo senza intuirne le ragioni”: gente ostinatamente legata a modi di pensare novecenteschi – direbbe Baricco –, “parassiti” dicono i più nella Milano in cui la storia si svolge. E chi li guarda con simpatia, se non con rispetto, inutile dirlo: è un buonista, così come – ci viene opportunamente ricordato – quelli che si opposero alle leggi razziali nel 1938 i fascisti li chiamavano ‘pietisti’”.

I buonisti, comunque, sono pochi, sempre meno: il Popolo è unito nell’odio contro gli intellettuali, o meglio: i radical chic, riconoscibili dai maglioni di cachemire che portano ma soprattutto da tutti i libri che si tengono in casa. Nessun pogrom però: l’abbiamo detto, qui siamo alla commedia. Meglio un censimento del radical chic, che li protegga dal giusto furore popolare (sempre che versino la dovuta quota per risultare iscritti: come ad un albo professionale, insomma).

Di qui in poi al lettore resta solo di aspettarsi ad ogni pagina la trovata che tiene in vita fino alla fine il gioco del cosa succederebbe se davvero si arrivasse a questo punto. Si sorride quindi, ma sempre più amaro: il cosa succederebbe si confonde spesso con un inquietante cosa succederà, se non con un cosa sta succedendo. Come quando si arriva al “decalogo” contro la complessità, ad esempio: la complessità “umilia il popolo”, “è noiosa, quindi inutile”, ma soprattutto “è un’arma delle élite per ingannare il popolo”. Dunque, semplificazione della lingua, epurazione di centinaia di lemmi dal Devoto Oli (non dallo Zingarelli, “scartato a causa del nome imbarazzante, tanto più nella versione con Cd-Rom”), nuova grammatica (57 pagine in tutto: al primo posto, l’abolizione del congiuntivo). E intanto, le vittime? gli intellettuali, i radical chic? Be’, c’è da dire che, se si attengono a un comportamento ironicamente prudente non se la passano male. Parlano di politica e letteratura come gli altri di macchine e di sport: niente di più che “una differenza di argomento, non di sostanza”. Ma non tutti sono così: una minoranza continua ad esistere. Quella di chi è convinto che “non è vero che gli intellettuali non servono a niente”: servono a “sentirsi meno soli”, perché “le cose dentro i libri dimostrano che le cose dentro le persone si assomigliano”, e la cultura, più in generale, “è una scommessa sul fatto che alla fine ci si possa capire.” Una scommessa che vale la pena di continuare a giocare anche se “hanno vinto loro, per un po’”. Nel frattempo, conviene non dimenticare le parole incriminate, e dunque abolite. Per “custodirle”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il tempo della limonaia

Il fragore dei magli si ode sin dall’ingresso nel paese, ma non giunge fin là, alle limonaie vicine al porto: Toscolano non è paese di giardini d’agrumi. È Gargnano quello, dove se non sono carbonai o pescatori sono giardinieri, e vivono quieti il loro tempo, segnato dal sole e dalla luna, e dalle stagioni. Qui no, qui a dir le ore, estate e inverno, notte e giorno, è l’arrivo da Desenzano dei barconi carichi di stracci per far carta, il passo dei mulattieri coi loro animali che van lungo il fiume a portar sacchi di quella materia per poi riportar di nuovo giù al porto risme candide, e a contare i minuti non è il battere degli orologi ma quello dei magli, che di quegli stracci fan la poltiglia da cui si trae il foglio.

Laggiù alla Capra però, come si dice la piana di ulivi che stan sulla parte sinistra della penisola fatta dal fiume, è ancora la campana della parrocchiale a marcare il tempo, perché oltre la chiesa non ci sono cartiere ma limonaie, le poche che prosperano nel paese della carta.

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Il tempo della limonaia (audio)

L’attrice Francesca Garioni legge Il tempo della limonaia, di Carlo Simoni, in occasione della manifestazione “Giardini d’agrumi” (chiostro della Chiesa di S. Francesco a Gargnano, 27 aprile 2019):

Carlo Simoni: Il tempo della limonaia

Per leggere il racconto di Carlo Simoni clicca qui.



Francesca Garioni
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