Le ciabatte di mamma

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Per arrivarci bisogna alzarsi sulle punte dei piedi, sollevarsi il più possibile e tendere il braccio verso l’alto, più che si può.
Quando la mano riesce ad afferrarla, si sposta il peso del corpo e lo si concentra tutto lì, nella mano, così la maniglia si abbassa. Allora si sente un rumore sordo, piccolo, di ferro.
Un clic. Deve essere quello che permette l’apertura della porta, perché insieme al clic si sente un cigolio appena accennato e la porta si socchiude.
La porta è di legno chiaro. Grande. Larga, alta, e sta sempre lì, incastonata fra la cucina a legna, che la mamma chiama cucina economica, e l’angolo in cui teniamo la seggiolina.
Sulla seggiolina mi siedo io quando gioco ad essere la centralinista, con la cornetta telefonica nera e il tabellone pieno di leve colorate; oppure ci sta seduta zia Cecca.
La mamma mai, non ha tempo lei, e ce lo ricorda sempre.
Sulla sinistra della seggiolina il mettitutto.
Nei vani chiusi dagli sportelli teniamo le stoviglie e su un ripiano a vista la radio, con cui io e mio fratello, adesso che è estate e non andiamo a scuola, ascoltiamo ogni giorno la hit parade.
HIIIIIIT PAARAAAADE, così bisogna dirlo.
La porta mi piace moltissimo. Viene tenuta sempre chiusa e io so perché.
La stanza che protegge è la più bella della casa. C’è un letto, non piccolo come il mio e nemmeno grande come il lettone.
Si chiama a una piazza e mezzo. Prima che la zia Cecca venisse a vivere con noi ci dormiva mio fratello, ma io ancora non c’ero. La zia Cecca non ha figli, è la zia di mamma ed è venuta a stare con noi quando è morto suo marito e sono nata io.
Abita con noi per occuparsi di me, perché la mamma possa continuare a lavorare.
La stanza ha il suo odore. Borotalco, lana spessa e grezza, carta. Fogli di carta che tiene ben piegati nelle tasche a toppa dei suoi vestiti.
I vestiti di zia Cecca si assomigliano tutti. Sono abbottonati sul davanti e cuciti con stoffe dalle tonalità scure.
Li tiene appesi nell’armadio di legno a due ante poggiato sulla parete di destra della stanza. Un’anta è completamente ricoperta da uno specchio; anch’io mi posso vedere riflessa, tutta intera, se mi allontano un po’.
I fogli di carta le servono per imparare a scrivere. Io lo so già fare, e quando rimaniamo da sole glielo insegno. Ho cominciato dal suo nome, Francesca. Lei fa esercizio su quei foglietti di recupero di cui si riempie le tasche. Adesso è estate. Vuole riuscire a scrivere da sola le lettere che spediremo quando sarà Natale. La mamma le fa scrivere a me, anche quelle della zia, ma quest’anno, alle sue vuole provvedere da sè.
Cari nipoti. Noi stiamo bene e altrettanto speriamo di voi
La stanza dove dorme non è proprio una camera, ma è ordinata, fresca, luminosa.
Sulla parete opposta a quella su cui poggia la testata del letto, c’è una finestra, l’unica della casa dal cui vano si scorgono rami frondosi disegnati sullo sfondo del cielo. Riesco a vederli dallo spiraglio della porta socchiusa, e anche se sto vicino al letto.
Se mi avvicino scompaiono. Più mi avvicino alla finestra e meno riesco a vedere fuori.
Non mi importa però. La stanza è piena di cose che mi interessano.
Sulla parete di sinistra, opposta all’armadio, è tesa una lunga tenda colorata, la stoffa è uguale a quella che è servita per cucire uno dei teli a forma di sacco con cui la sera, prima di andare a dormire, la mamma copre il televisore. Non deve prendere polvere, dice, mentre sistema la fodera sull’apparecchio. Ne abbiamo un’altra, rossa, cucita come se fosse il sipario del teatro dei burattini, con due drappi che si sollevano lateralmente.
La mamma la usa quando abbiamo ospiti, per fare bella figura, dice.
Dietro la tenda cerco odori noti.
Lì dietro, su assi di legno allineate, la mamma ripone in ordine i fiaschi del vino, la stoppa, il tiraolio e due damigiane di vetro, grandi, che mio padre si fa riempire di vino dai suoi fratelli.
Abitano in campagna i miei zii, e qualche volta li andiamo a trovare la domenica, con la Topolino.
Mi piace quando andiamo a prendere il vino.
Mio padre mi tiene vicino a sé quando viene spillato dalla botte. Il getto rosso è profumato e scende gorgogliando, trattenuto dagli orli dell’imbuto bianco inserito nella bocca larga della damigiana.
La sera, a casa, babbo e mamma issano la damigiana sul tavolo della cucina, e mentre la mamma prende i fiaschi da dietro la tenda, mio padre, con gesto esperto, infila il tiraolio nella damigiana e aspira con un risucchio prolungato. Poi vi inserisce una cannula stretta e comincia a versare.
Via via che i fiaschi si riempiono, la stanza si colma di un odore che contiene il profumo dei filari delle vigne, dell’uva, del mosto, dei tini, della cantina degli zii e anche della nostra macchina, la Topolino, impregnata del sentore del garage dove rimane parcheggiata ogni settimana.
Sono nata così io, una sera che a casa infiascavano il vino.
Me lo ha raccontato la mamma, mi ha spiegato che è stato lo sforzo di sollevare la damigiana sul tavolo che mi ha fatto venire al mondo qualche giorno prima del previsto.
Se annuso dietro la tenda, ritrovo tutti i colori variegati della campagna e il rosso brillante della mia nascita.
Nella stanza, quello che mi piace più di ogni altra cosa è la piccola scansia incastrata fra l’armadio e l’angolo della parete con la finestra.
La scansia è coperta da un imballaggio fiorito, di plastica trasparente, che ha una cerniera sul davanti. Lì dentro la mamma ripone le sue scarpe, bellissime.
Ogni volta che posso, sguscio nella stanza e le guardo.
E’estate adesso, e i ripiani sono occupati da sandali e ciabatte.
Li guardo, modellati dalla forma dei suoi piedi, e immagino i passi veloci che la portano via ogni mattina, al lavoro, a Firenze.
Cammina frettolosa la mamma, anche in casa, e i suoi spostamenti sono ritmati dal ticchettìo delle suole sul pavimento, diverso a seconda delle stanze in cui si trova e dei movimenti che compie.
I sandali, blu o bianchi, hanno tomaie di pelle, lacci sottili che le si avvolgono alle caviglie e tacchi stretti.
Quando li indossa vuol dire che esce, seguita da una scia di piccoli battiti ravvicinati, che mi lasciano custode dell’attesa del suo ritorno.
Se sta in casa o scende solo a fare la spesa, calza le ciabatte, ed è tutta un’altra musica.
I passi, pur affrettati, si allungano e si distendono. Ne deriva un fruscio diffuso che diventa la colonna sonora della sua presenza e della speranza che prima o poi si accorga di me.
Quando sono qui, protetta dalla penombra estiva che tracima dalle persiane verdi della finestra, le tocco una a una, le sue ciabatte.
Ce n’è un paio che mi piace più di tutte. La tomaia marrone sembra di seta, è lucida ed è tutta traforata da piccoli buchi orlati, di dimensione diversa, come una costellazione.
La zeppa di sughero, morbida al tatto e attraversata da una riga orizzontale dello stesso colore della fascia, pare una fetta di quella torta al caffè che di tanto in tanto prepara la zia.
Faccio passare la mano aperta sulla stoffa liscia, infilo le dita sotto la tomaia.
Mi sfilo dai piedi gli zoccoletti di legno e poggio le ciabatte di mamma per terra.
Con la mano destra mi reggo al pomello di un’anta dell’armadio, un piede per volta salgo sulla zeppa e scivolo in avanti.
Sono altissima! Senza staccare la mano, azzardo qualche passo verso la finestra, poi mi giro e mi specchio. Sono grande, una bambina grande come la mamma.
Piano piano prendo sicurezza, provo a camminare, mi guardo ancora e poi mi avvicino alla finestra. Con le ciabatte di mamma posso vedere le fronde degli alberi anche se sto poggiata al davanzale.
Mi giro su me stessa e sono già lei, il braccio piegato su cui infilare la borsa, sto andando a lavorare a Firenze con l’autobus e penso che prima di tornare a casa comprerò alla mia bambina quei panini salati che le piacciono tanto.
Non so da quanto tempo mi stia osservando.
Quando la vedo arrossisco e la guardo.
Le spalanco sulla faccia gli occhi ancora ridenti, distanti, smarriti nella fantasia del gioco, e stringo le labbra in un sorriso incerto, impaziente, mentre aspetto di sapere cosa dirà.
Toglitele, le sciupi, dice. Vieni di qua con me, vanesia, dice, e mi aiuta a calzare i miei zoccoletti.
La seguo senza capire come sta. Si è arrabbiata? Qualcosa nell’espressione del suo volto mi lascia intuire che sa, che ha capito, che da qualche parte, dentro di sé ha aperto un sorriso.
Alzo la testa verso di lei, e mentre chiude la porta i nostri occhi si incontrano.
Sei ancora piccola, dice.
In cucina volteggia il vapore della cena che sta preparando.
E’ in quelle spirali profumate che annega il tuffo del mio cuore.

Andiamo al mare

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“Cosa vuoi ancora? Te l’ho già detto, lasciami stare che la mamma ha da fare”.
Ma i tuoi occhi non ne vogliono sapere.
Trattieni nello sguardo la gioia del futuro che verrà. Il domani vicino, alla tua portata, al quale ti affidi senza riserve e il cui garante è lì davanti a te, tua madre.
Lei va sempre veloce, ha sempre fretta. Il tempo non le basta mai.
Hai imparato che non devi darle fastidio, che non la devi intralciare, che devi fare le cose come vuole lei.
Si muove svelta, affannata. Prepara la cena mentre piega e stira la biancheria sul ripiano in marmo del tavolo della cucina, sul quale ha steso una coperta di lana e un telo bianco di cotone. Fa sempre così, quando stira.
E’ estate. Dalla finestra spalancata entra una luce che contiene tutte le promesse riflesse nel tuo sguardo.
Si avvicina ai fornelli frettolosa, e quando solleva il coperchio del tegame, la stanza si riempie dell’odore familiare del pomodoro e del basilico.
“Quanto manca mamma?”
Senza interrompere il movimento delle mani e delle braccia, si volta, poggia con forza il ferro caldo sulla stoffa, ti guarda per un istante e lascia uscire le parole con il respiro dello sforzo che sta facendo. “Te l’ho detto” soffia. “Due giorni. Oggi è venerdì, partiremo domenica”.
Domenica!  Intrecci le mani e stringi, stringi forte per contenere l’euforia che richiederebbe di alzarsi dalla seggiolina su cui sei seduta e saltellare intorno a lei, al tavolo, scalpicciando a salti avanti e indietro per la stanza, una, due, dieci volte, avanti e indietro, cantando “Domenica, domenica!”.
Ma quando è domenica?
Rimani seduta, ancora la guardi e il tuo volto lascia trasparire tutte le domande che vorresti farle.
Quando arriviamo? E quando si vede il mare? E sul treno sto seduta vicino al finestrino?
E dove mangiamo? E andiamo subito alla spiaggia?
Piano, con calma, non bisogna farla arrabbiare.
Adesso ha finito. Ripone il ferro da stiro, ripiega il telo e la coperta e, con cautela, prende la pila di panni ben piegati e la porta in camera da letto.
Poggia tutto sul piano del comò, si alza sulle punte dei piedi e cerca di afferrare qualcosa dal ripiano più alto dell’armadio.
L’hai seguita, ancora canticchiando dentro di te “Domenica, domenica”, e la guardi, con la faccia illuminata dal sorriso che lascia trasparire tutta l’eccitazione che le tue mani piccole, ancora intrecciate, stentano ad arginare.
Non ce la fa, prende una sedia dal soggiorno e ci sale in piedi.
Quando riscende, ha in mano la valigia di pelle nera che deposita sul lettone.
Per te un tuffo al cuore: la riconosci, è proprio quella con cui si parte per il mare.
Le stai vicino, vuoi vedere, anticipando nel pensiero quel che sta per avvenire.
Sai già che adesso farà scorrere il cursore della lampo e che via via che i piccoli segmenti trasversali si separeranno, l’interno setoso della valigia lascerà intravedere il colore arancio del telo da mare, fregiato di una giraffa nera, e libererà l’odore di Antignano.
Si va sempre lì al mare, ad Antignano, dalle suore.
Per arrivarci bisogna prendere l’autobus fino alla stazione di Firenze, salire sul treno, che ha sedili di legno, e farsi portare fino a Livorno. Lì bisogna prendere un altro autobus, quello con la scritta che anche tu hai imparato a leggere, “Ardenza”.
E’ quello che rivela il mare. Dai finestrini si intuisce la luce blu che risale per le strade di quella città che ancora non conosci, e ad ogni svolta pensi “eccolo, eccolo, adesso si vede”.
Quando riesci davvero a vederlo ti mozza il fiato, e le tue manine si intrecciano.
Antignano si riconosce dal suo odore.  Un miscuglio composto di salsedine, di catrame, con cui i pescatori riparano le barche sul molo, di resina profumata di pini marittimi che, nelle tue narici, si congiunge in un tutt’uno con l’odore delle stanze del pensionato gestito da suore in cui soggiorni e con i profumi che esalano dalle imposte verdi della finestra della loro cucina. Quando torni dalla spiaggia all’ora di pranzo – affamata, affamata! – quegli aromi ti raggiungono sul marciapiede prima ancora di arrivare al portone d’ingresso.
La sua voce ti riporta al presente. “Guarda cosa ti ha cucito la zia”.
Un vestito nuovo, per te, per andare al mare. E’ bellissimo.
Le dita si cercano, devono tenersi, subito, perché questo è troppo.
Il vestito è a quadrettini bianchi e rossi, ha le maniche corte e una gala sulle spalle, una striscia increspata di stoffa che, ne sei sicura, se corri si muove.
La guardi. Le apri sul volto un sorriso che non dicono le labbra, ma tutto ciò che sta loro intorno.  Anche lei ti guarda. “Vediamo se ti sta bene”.
Un salto nei respiri, un vuoto, una mancanza d’aria che recuperi mentre alzi le braccia e lasci che la stoffa vi scorra sopra. Le sue mani ti aiutano a farla passare dalla testa, te la modellano intorno al corpo, tirano il tessuto davanti e poi dietro.
Alla fine chiude la cerniera che non si vede, ben nascosta su un fianco.
Veloce, quasi brusca, ti rimette le forcine nei capelli e ti lascia lì, davanti allo specchio lungo dell’anta centrale dell’armadio, mentre corre in cucina a mescolare la pomarola.
Ti guardi.
Anch’io, dal futuro lontano, da un tempo che neanche puoi immaginare, ti guardo.
Il tuo aspetto mi riempie di tenerezza, vedo i tuoi occhi che imprigionano l’esplosione di gioia per quel momento troppo carico di quello che c’è e di quello che sta per avvenire.
Nel fondo, in quell’abisso che contiene le orme dei passi che farai, scorgo quella preoccupazione che le tue mani stentano a frenare, attanagliate ai lembi del vestito.
E’ piena di domande, quell’ombra che appanna la trasparenza delle tue pupille scure.
E’ proprio questo che la mamma vuole? Che tu stia lì con quel vestito indosso, davanti allo specchio, in attesa che lei ritorni?
E’ così bello quel vestito nuovo, cucito per te, solo per te, che le domande ti assillano.
“Me lo merito?”, “La mamma davvero me lo farà indossare?”; e con le domande, i buoni propositi. “Devo stare attenta, non lo devo sporcare, non lo devo rompere o sciupare”.
E poi quella partenza, che solo a pensarci ti si infrange il cuore.
Il mare, domenica, ma quando è domenica?
Ti guardo, e dall’oggi distante da cui ti osservo, so che continuerai a cercare risposte
per quelle domande che non ti lasceranno mai, neanche quando sarai diventata grande.
So che per te ogni momento di gioia conterrà un’ansia sottile che ti farà muovere le dita, come se le tue mani si cercassero, come se le volessi intrecciare.

 

Trailer di vecchiezza

Gracile, incurvata, ripiegata su di sé. La guardo e di lei mi colpiscono soprattutto le mani, dove il tempo ha seminato chiazze di vecchiezza, dove la cute si scolla e si ripiega sovrabbondante, come stoffa in eccesso. Abbiamo sempre avuto mia madre e io, delle mani asciutte, dita affusolate, lunghe, non interrotte da nodosità. Anno dopo anno le sue mani sono andate assumendo l’aspetto di rami rinsecchiti, artigli spesso preda di tremori incontrollabili. La vista di quelle mani mi scatena fiumi di pena, mista a risentimento per lei che si permette di invecchiare, non mantenendo le promesse: una madre è per sempre.
Entrambe osserviamo quei tremori di sfuggita, come ladre, l’una colpevole di vecchiezza, l’altra di scarsa compassione. In realtà il suo tremore non é venuto con l’età, c’é sempre stato in quelle mani, quando l’emozione eccede il recipiente del cuore. Lei la chiama emotività, quella stessa da cui sono fuggita infilandomi in una professione dove per l’emotività non c’è spazio, concedendo all’emozione altre rappresentazioni.
La guardo, le mani in grembo, l’una sull’altra serrate a pugno per nascondere il tremore, tradita dal labbro superiore che si increspa appena appena. Guardo quella donna innegabilmente vecchia che é mia madre, che regge ormai a fatica il bagaglio dei giorni, abdicando spesso anche alla dignità minima del tenere per sé ciò che andrebbe celato.
Ha sempre avuto un’innata abilità nello svuotare il suo zaino addosso a me bambina, a me ragazza, a me a mia volta madre e ora donna più che adulta. Da sempre mi presto a essere il setaccio delle sue ansie, della sua angoscia, del suo terrore di invecchiare e di morire, fino ad abitare le sue paure, a svegliarmici dentro il mattino.
Mi lascio trapassare dalle sue parole lamentose, ne filtro la paura e gliene restituisco di chiare, trasparenti, piene di speranza. Ho ingoiato i bocconi amari delle sue rughe, delle sue rare patologie, della sua solitudine. Trascinata fuori da me, mi sono allenata alla vecchiaia e alla decadenza di corpo e mente, in un trailer ripetuto all’infinito. Per interposta persona, ho già sperimentato il collare di rughe sul collo, le chiazze di pigmentazione cutanea, i dolori articolari al punto di stupirmi quando lei mi butta lì l’impietosa previsione mista a minaccia e a vendetta di quel “Vedrai come è difficile invecchiare!”, senza vedere che sono già vecchia per osmosi, per il principio dei vasi comunicanti, parte degli anni e degli acciacchi materni mi appartengono, li sento nel corpo.

Eppure questa è la madre che mi sommergeva di fotografie fin dalla nascita, documentando ogni mio impercettibile cambiamento nel mirino della macchina fotografica, intercettando le mie prime, smorfie. E’ questa la madre che non sapevo lasciare sulla porta della scuola materna, che attendevo per ore sola, senza giocare, senza mescolarmi con gli altri bambini, seduta sulla panchina rossa nel cortile della scuola. E’ questa la madre che mi mancava fino a togliermi il respiro in colonia in montagna, quando tutte, proprio tutte le sere piangevo e mi struggevo nella nostalgia… E’ questa la madre che se ne stava seduta facendo la maglia mentre ripetevo gesticolando per casa il nome di ossa e muscoli prima dell’esame di anatomia, che mi ascoltava o fingeva di farlo, presente, silenziosa, pronta a caricare la caffettiera al primo intoppo.
A volte mi drappeggio intorno agli occhi una raggiera di rughe, così per prenderci ancora più confidenza, per portarmi avanti. Quelli sono i giorni in cui riesco a provare pietà per me stessa, a intravvedere la fatica inutile, dietro i pensieri che si snodano nel cervello di una brava figlia.
La guardo mentre preda di un’ansia nuova, rifiuta di governare la paura e si abbandona al flusso di emozioni infantili che snocciola come i grani di un rosario, sicura che parlandomene se ne libererà. E’ così che funziona fra di noi fin dalla mia infanzia: lei apre il pozzo delle sue angosce, le sue parole si gonfiano come vele e fluiscono nel fiume dei miei giorni, da tempo immemore. E io, che ho anticipato il tempo, che ho superato in corsa la mia vecchiaia con la sua, non posso che diventare sempre più abile a portare pesi, inarcando un po’ la schiena, sempre più curva sotto una gerla altrui eppure mia.

La ricordo seduta sul bordo del mio letto quando un amore adolescente svaniva, pronta all’ascolto, sempre attenta, mentre mi pronostica una vita meravigliosa e si butta a cucinare un budino che divoriamo. Le sue parole sapevano attenuare dolori, aprire varchi in terreni aridi, pur nell’incapacità di gesti, nella negazione di abbracci o di baci. La fisicità le è sempre stata preclusa, il suo campo da gioco erano le parole.
La sento cantare canzoni d’amore in macchina o mentre camminiamo in montagna o accennare qualche aria della Carmen o della Traviata nei rari momenti in cui il dover essere si assopiva.

Ma anche allora, quando la vicinanza pareva intimità, sapeva brandire con arte l’arma invisibile del ricatto. Con fine intuito sapeva portarmi lì dove lei credeva dovessi stare, al punto da annebbiarmi completamente la vista, da trafugare il mio sentiero di soppiatto, aprendo il sipario su una strada asfaltata a doppia corsia di suo gradimento.
A volte la sento affannarsi a frugarmi nell’anima con il chiaro intento di rubare, non so bene cosa, forse quello che lei crede essere la mia riserva di vita cui potrebbe attingere senza riserve, se questo fosse decoroso. Detesto la sua rapacità celata in quell’aspetto inoffensivo che trattiene gli artigli, nella finta debolezza di una donna che non si è mai piegata e neppure flessa per un istante, ben concentrata su una bussola costantemente orientata verso di sé.

Le telefono da Maidstone, al primo anno di università, spaventata dalla mia disavventura britannica, nella speranza che mi richiami, che mi riaccolga a casa. E invece lei fa leva sul mio desiderio e mi spinge nelle fauci di Londra, dove sogno di andare da anni. Infonde fiducia nelle mie vene, mi garantisce che ce la posso fare, che devo solo allungare una mano e aprire le dita. E’ lei, più di mio padre, a farmi udire il richiamo del mondo, a sostenere la mia fuga, a dare voce alla mia inquietudine. Londra la devo a lei. A lei devo dunque anche l’uscita da casa, pur nel suo confuso tirare e mollare l’elastico della mia adolescenza.

Derubata, quando la guardo, istintivamente tendo a rannicchiarmi ancora di più in me stessa, immergendomi sempre più a fondo per non essere catturata dalle sue dita lunghe.
E’ in quei momenti che percepisco la sua volontà di trascinarmi con sé fino alla morte, oltre la morte, non per amore ma per non essere sola, per attenuare il suo terrore, per conservarmi come devoto balsamo filiale. Saprò sottrarmi quando sarà il momento o mi lascerò scivolare, ancora incapace di frapporre qualche centimetro fra di noi?

Con stravagante ingenuità provo a mettermi contro il suo tempo, contro il tempo, con i talloni puntati. Provo a lasciare emergere il buono che so esserci stato. La rivedo che mi fa compagnia ad ogni ciclo di chemioterapia, quando i farmaci inondavano di gelo le mie vene e cominciavo a battere i denti. Eccola che si alza, si procura un’altra coperta e mi asciuga il sudore freddo dalla fronte, senza una lacrima, lei che piange per nulla. Durante la mia malattia non ha mai ceduto in mia presenza, si è presa cura di me senza battere ciglio, come fosse stata certa delle mie chances, come se la mia sopravvivenza non fosse mai stata in dubbio. Lei, terrorizzata dalla sua morte, sedeva accanto alla mia con dignità, con fiducia, come un soldato al fronte, certo della vittoria.

Mi impegno a scrollarmi di dosso il risentimento e le antiche pendenze. E’ vecchia e a una vecchia non si fa la guerra. Semplicemente la si digerisce così, la si accudisce, la si sopporta clementi.
Ma la clemenza mi fa difetto e inciampo, riluttante, nelle mie stesse acrobazie scomposte. Sento il frastuono dei suoi ferri da calza che incrociano la falce della Grande Signora. So che si sta allenando al grande passo, ma il rovescio delle sue paure ha un sapore troppo amaro. Come un’attrice prima del debutto si sforza di contenere l’angoscia, nella vana ricerca di un appiglio, di un senso, di una seppur minima speranza. Interroga tutto e tutti: Dio, la scienza, il delirio ed ovviamente me che imbastisco balbettii compassionevoli che sopravvivono giusto una sera.
Nel suo inespugnabile tormento, vive nel terrore di quella prova suprema, di quel torrente che la porterà via e che percepisce vicino almeno da trent’anni, senza neppure il buon gusto di vedere che gli unici piedi che lì si sono immersi sono stati i miei.

Forse questo non lo può guardare, forse per una madre la morte di una figlia risulta così intollerabile da non poterla neppure sfiorare con il pensiero. E il suo amore materno non lo posso mettere in dubbio. Ma l’amore materno ha mietuto non poche vittime.

O forse è ancora lei al centro del suo mondo e del mondo intero. Forse invecchiando il mondo si restringe fino al cerchio che le proprie braccia possono disegnare intorno al corpo e quello diventa l’unico mondo visibile, la patria.
Il rancore si tende dentro di me come la corda di un arco, pronto a scoccare una freccia che non partirà, che non saprà ferirla, che non potrà difendermi. Le sue narici fremono nella sua quotidiana questua e lei annaspa in attesa che io spalanchi il mio cuore pavido e alleggerisca la sua ansia di oggi. Ma un muro sottile e trasparente si erige fra di noi, la mia volontà recalcitrante temporeggia, sta a guardare e la mano resta in tasca.
Il suo collo si inclina, sinuoso come un rettile, in quella postura sofferente che chiede la pietà che oggi stento a concederle, finché mi accascio esausta e offro i padiglioni auricolari che non riesco a scollegare dall’anima, alle sue lagnanze di oggi. Mi sforzo di ascoltare senza sentire, di anestetizzarmi saggiamente, come non ho mai saputo fare. Intercedo per me stessa e cerco di essere un vaso bucato sul fondo, da cui transitano le sue parole senza lasciare impronte, senza ferire, senza incidere ricordi. Fingo che non si tratti di mia madre ma del racconto di una paziente senza nome, cui non devo nulla se non un’empatica accoglienza. Provo a mettere distanza fra di noi a escogitare la giusta postura.

Sono in piedi sul tavolo della cucina mentre lei appunta gli spilli all’abito rosso che indosserò per la mia prima festa. Come tante altre volte, lei maestra, si cimenta con ago e filo e ne tira fuori capi graziosi che io indosso dall’infanzia all’adolescenza e anche oltre. La vedo china con gli spilli incautamente fra le labbra, che osserva prima l’orlo e poi l’insieme del vestito, visibilmente soddisfatta di sé. Così come quando finisce un maglione da sci stile jacquard, con le renne e i pini colorati che mi terrà caldo sulle piste.

La guardo con sconforto mentre, dimentica di me, incurante delle ferite che si producono sul mio corpo, versa i suoi fluidi, incontinente. Sento la sua fame di vita, della mia vita. La vedo mentre scavalca la montagna della sua paura attraverso il mio ascolto, grazie al mio orecchio, al mio timpano a brandelli. La osservo mentre si accarezza l’anima ormai rassicurata, riorientata nel suo tramonto.

Ora mi corregge i compiti e con la testardaggine della maestra mi convince a riscrivere tutto da capo, in bella calligrafia, ad essere brava, sempre più brava. Lei che la scuola ha dovuto implorarla con le lacrime, vuole che io studi, che ottenga ottimi risultati, che realizzi sogni…. io che posso.
Asciutta, scattante, angolosa, con quel che di arrogante sul fondo, quello sprezzo simil nobiliare che segna come un marchio le donne della sua stirpe confligge con l’immagine di madre accogliente, magari un po’ grassottella, rassicurante, avvolgente, silenziosa, serena che un tempo, nella furia di guadagnarmi un posto nel mondo, avrei liquidato come remissiva e scialba.

Ogni giorno mi presidio e mi propongo di non concedere nulla al suo crepuscolare lagnarsi e ogni giorno le consento di infilarsi nel mio spazio intimo, suo luogo d’elezione, melliflua, spargendo germi che non so arginare. Allora divento ostile, carica di una rabbia impotente che si spegne in tristezza.
Ed ecco che lei, eludendo il mio sguardo, fa la sua mezza giravolta e, come se avesse parlato di cucina, con il suo sguardo sicuro, intavola una chiacchera sull’opportunistico nulla quotidiano.
Sopporto il mio castigo consolandomi al pensiero che di lei conosco anche il non detto mentre lei di me sa poco e nulla. Ma non basta per continuare a fare da materasso delle botte.
Cerco di guardarmi come potrebbe vedermi un altro, di pensare ciò che un estraneo penserebbe di una donna attempata ancora ostaggio di sua madre. Ma ho troppa intimità con me stessa per potermi guardare a distanza. Un accenno di sorriso sghembo si fa strada al pensiero che lo faccio per lei, nel disonesto tentativo di spacciare per amore filiale l’incapacità di difendermi, di mantenere una distanza di sicurezza.
Ma nelle sue mani legnose affondano le mie radici, in quella terra scura in cui ha germogliato l’algida donna che è stata sua madre e l’austera vecchia che è stata sua nonna. Una genealogia femminile così poco femminile, orfana di dolcezza, incapace di carezze, maestra di regole, di sobrietà e di decoro. Quanto di quelle donne arcigne scorre nelle mie vene? Quali angoli mi è stato consentito smussare e quante le timidezze e le ritrosie che ho potuto solo sopportare?
I miei rami si allungano verso l’azzurro dove le mie figlie germogliano, stupende nella loro sfaccettata trasparenza. Quanto so di loro? Quanto sanno di me? Quanti baci ho saputo concedere e quanti negare?
Quanto ingombrano nei loro giorni le mie radici, quelle di mia madre, di mia nonna e di sua nonna? So per certo che di queste radici hanno consapevolezza e questo per ora mi basta.

Cerco di mettere la sordina ai ricordi ma lei compare sugli sci con il suo pullover azzurro cielo, o mentre cammina sui pendii di montagna o distesa al sole come una lucertola, o impegnata nel vano tentativo di imparare a nuotare. Eccola che sfodera la tovaglietta a quadretti bianca e rossa sul tavolino da picnic issato sulla neve. Ecco noi bianchi e rossi dalla fatica che ci godiamo le tagliatelle al ragù al sole d’inverno. E poi ancora neve, ancora sci e freddo secco sul viso e sole e tutto il bello e il buono dell’esser bambini.

Cerco le mie tracce mentre mi appoggio con i gomiti alla mia immagine sbiadita, tiepida e priva di coraggio, smentendo la mia propensione al taglio. Nel mio corpo si fa strada un’eco che non so decifrare ma che si sente sul fondo mentre increspa le onde, lì dove i sospiri si fanno supplica. Vado a caccia di vento e osservo il mio inutile insabbiarmi nell’autobiografia, in un’epoca del mio vivere che dista millenni dall’infanzia e che non mi dà titolo di appellarmi ad un’allora paleolitico.
Provo ad archiviare ciò che è stato, a interrompere quell’insensato ricordare, interrogare, attribuire responsabilità e meriti che non mi porterà da nessuna parte. Non ci sono matasse da sbrogliare, bisogna lasciare tutto lì dov’è, prendere quel denso magma che chiamiamo passato e metterselo in tasca, tenerlo lì senza continuare a stuzzicarlo a tormentarlo. Tenerlo lì con le sue grinze, con le sue spine e i suoi arcobaleni, a contatto con il corpo da cui non può separarsi.
Con mansuetudine, il mio cuore invertebrato e polveroso arrotola le mie scintille di irritazione, il mio impotente nervosismo che si distende come ragnatela sulle sue parole e sulla mia fiacca rinuncia a tenermi presente a me stessa. Liquido sommariamente le mie perplessità in un ennesimo avvitamento, amputando le mie possibilità di oggi e forse anche quelle di domani, nell’estremo tentativo di uscirne viva.
Cerco in me il perdono, per lei e per me. Cerco un po’ di tregua, provo a raschiare via gli strati di rancore dall’anima, a lasciare andare, prestando ascolto ad altro, nella ricerca di quel grembo che ho abitato, di quel confine incerto fra il nascere e il morire, in quel tempo irrecuperabile alla memoria in cui il suo desiderio mi ha messa al mondo.
Ma i nodi non si sciolgono nel mondo visibile e, nel mio confuso annaspare, cerco un ormeggio in quel miscuglio di bene e di male, di tentativi e di rinunce, arrendevole come l’acqua. Ascolto il risuonare del silenzio, guardo il disordine del mio presente, il mio quotidiano scacco totale. Lascio emergere la mia opacità impermeabile che per ora posso solo osservare.
Cerco in qualche mio doppio fondo un po’ di compassione per lei, per me, mentre sento la sua vita gocciolare via, e con la sua la mia.

La torre

“Abbiamo bisogno che, insieme al pensiero, passi fra noi anche qualcosa della massa sterminata di cose ignorate e taciute, cieche e mute, impensate e impensabili, che si stende fuori dal mondo dei segni, cose che siamo tutti i momenti, che capitano da tutte le parti, come meteoriti sulla terra, e che ignoriamo o subito dimentichiamo, le cose reali che nel mondo dei segni qualche volta entrano facendo un segno negativo, un meno, o meno ancora, uno scarabocchio.”
(Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Milano, Mondadori, 2003)

Sedici era il numero dei piani e anche il civico della via, che in quel tratto s’infrangeva contro l’arcata d’ingresso del condomino per proseguire poi il suo corso lineare, arginato da comuni marciapiedi su cui affacciavano, uno accanto all’altro, ordinari giardini di villette a schiera.
Passare sotto quel volto mi faceva pensare all’attraversamento di un ponte levatoio che, inesorabilmente, si sarebbe chiuso dietro di me.
Immaginavo lo sforzo rumoroso degli argani che sollevavano il pesante impalcato dietro le mie spalle, isolandomi dal giorno che lasciavo fuori, dal colore del cielo, dal sistema regolato di relazioni, impegni, sentimenti – la consuetudine del mio vivere quotidiano – per consegnarmi a una normalità del tutto diversa, a un instabile equilibrio di cemento armato su cui, ad ali spiegate, la sorte precipitava planando, dirompente, come meteoriti sulla terra.
Lo chiamavano al femminile – è un condominio ma è denominato Torre – per la sua altezza, o forse per richiamarlo al pensiero comune come simbolo d’incrollabilità.
Anche in questa Torre, come nel racconto biblico della Torre di Babele, lingue diverse confluivano e si confondevano, portate dalle storie di donne e uomini provenienti da tante parti della Terra.
A un certo punto ho cominciato a pensare che quel nome, Torre, derivasse dall’immagine dell’arcano numero sedici del mazzo dei tarocchi, Le maison Dieu.
Un luogo in cui si creano accadimenti, dove lo stare insieme provoca rovesciamenti e scambi, dove la solidità delle mura non garantisce e non tutela dalla fragilità combinata di così tante vite, ignote le une alle altre ma non ignare le une delle altre.
Un paese, un piccolo paese sviluppato in verticale, senza un centro, senza una piazza; solo vie strette, parallele che non si intersecano mai.
Un organismo pulsante con le radici in Africa, in Italia, in India, nelle baracche del campo nomadi di una qualunque periferia, nell’Europa delle guerre.
Al crepuscolo, a guardarla da fuori, la luce di ogni finestra raccontava una storia, un mondo, una musica, il profumo di una cena i cui sapori, come una scintilla, sapevano risvegliare d’improvviso frammenti di passato radicati nella memoria.
Dietro ogni finestra, persone.
Erano, o erano state, ricche, povere, operaie e operai, nullafacenti, artisti, bottegai, sindacalisti, infermieri, profughi, dipendenti pubblici, laureati e analfabeti.
Per qualcuno di loro, l’abitazione precedente all’appartamento nella Torre era stata una baracca, una roulotte, una grande dimora signorile di Casablanca, una casa berbera scavata in un pozzo, una casa di pietra con il tetto spiovente, una tenda, un garage, il sottopasso di una ferrovia, una stanza in casa d’altri.
Alcune, prima di abitare alla Torre erano giovani, non lavoravano, avevano i figli piccoli ed era stato il matrimonio e la nascita del primo bambino a portarle lì.
Altri, prima della Torre avevano un’impresa, una sartoria, una bottega di restauro, una tappezzeria, un negozio da barbiere.
Alcuni facevano i turni in un’acciaieria, altri avevano giocato d’azzardo e non smettevano di farlo.
Molti avevano portato le proprie esistenze alla Torre per rovesci, per una grandine inaspettata e inconsueta che li aveva colti di sorpresa senza dar loro il tempo di salvare il proprio raccolto.
Persone. Colleriche, collaboranti, miti, provocatorie, pretenziose, accomodanti.
Sole, o affollate numerose in appartamenti sotto dimensionati.
Sole, o con nidiate di bambini nati uno dopo l’altro come fossero ciliegie, come se la nascita di uno si lasciasse dietro la scia del piacere e del desiderio di partorirne subito un altro.
Bambini. Felici, incompresi, curati e abbandonati, malvestiti, malnutriti, rivestiti di capi firmati all’ultima moda, violati, coccolati. Nella portineria e nel parco adiacente al condominio, una concentrazione che stordiva.
Donne, anziane e sole, i cui appartamenti contenevano immutati gli arredi di quando ciascuna provvedeva alla cura di una famiglia numerosa. Tante stoviglie, tanti armadi, letti, lenzuola, tovaglie, coperte, asciugamani.
Gli oggetti costituivano la loro corazza, sentinelle inamovibili di un passato nel quale erano state forti, madri, bussole e perni del farsi della storia, anche quando la storia si era rivelata sbagliata.
I corridoi lunghi, piastrellati di linoleum nero, erano illuminati da una luce fioca, al neon, che ricordava i garage sotterranei e suggeriva una vaga percezione di insicurezza.
Posso sentirne i rumori e ascoltarne i suoni, rievocarne gli odori, riprovare nelle narici e nello stomaco la stretta che talvolta i miei sensori ergevano, in difesa dai miasmi che esalavano dai vani ascensore, dalle rampe delle scale, da dietro le porte di alcune abitazioni.
Quel bagliore dimesso rendeva opaca la tinta rossa delle porte, la diminuiva di una tonalità cromatica e produceva stonature nel brulichio sommesso delle storie.
Erano le storie ad accogliermi. Prima che le porte allineate si aprissero, mi sapevano suggerire inquietudine, benevolenza, segreti e menzogne o l’esplicita, cruda verità.
Gli odori, mescolati al sentore di vita di cui quegli anditi di passaggio ribollivano, sapevano orientarmi.
Una mappa che mi consentiva di avere il tono di voce adeguato, l’espressione del volto appropriata, la padronanza dei gesti: la porta sarebbe stata aperta o socchiusa a spiraglio, avrei o non avrei dovuto togliermi le scarpe prima di entrare, mi sarei seduta o non l’avrei fatto, avrei evitato di guardare negli occhi il mio interlocutore o la forza dello sguardo mi sarebbe servita per annodare il primo filo di un legame.
Quello che accomunava ogni ingresso, era lo sferragliare della chiave nella serratura: ciascuno chiudeva con quante più mandate possibili la porta rossa del proprio alloggio.
Centoottantasette appartamenti abitati da circa seicento persone.
Seicento persone occupate a nutrirsi, lavarsi, parlare, dormire, ballare, piangere, innamorarsi, separarsi. A nascere, vivere e morire.
Ero lì per quello, per le persone, era quello il mio lavoro.
Avevo il compito, affidatomi dalla Cooperativa per cui lavoravo, di coordinare il gruppo di lavoro sul disagio adulto che gestiva alla Torre il servizio di Portierato Sociale, di sollecitare le relazioni fra gli abitanti di quel castello affinché riscoprissero il senso del buon vicinato; di garantirne la sicurezza, di mediare nei conflitti, di ripristinare un sistema di regole condiviso che rendesse positivo, proficuo, benefico il con-vivere, il co-abitare, lo stare insieme e sostenesse le famiglie e le persone più bisognose. Il mio campo di azione quella società scomposta che si rivelava a tranci dietro la porta di ciascun appartamento. Ognuno un mondo a parte, lo spicchio isolato di un globo frammentato in tanti pezzi, la cui unità, in parte, dipendeva anche da me.
L’estensione della superficie della placca dei campanelli e il numero delle cassette della posta bastavano da sole a testimoniare che non fosse cosa semplice.
All’ultimo piano, le cantine.
Non erano chiamate soffitte ma cantine.
Sopra le cantine il tetto, dalla cui prospettiva cambiava del tutto la visione del posto in cui mi trovavo.
Era esposta ai venti la Torre, correnti ascensionali che la rendevano gelida d’inverno e molto fresca in estate. Abitarla, soffermarvisi, frequentarla ogni giorno, faceva sentire appesi a lunghe soste al margine di un’autostrada.
Nessuna sicurezza, nessuna certezza. Lo spostamento d’aria provocato dai mezzi pesanti in circolazione scuoteva le vesti, faceva volare via gli effetti personali, disperdeva nell’aria frammenti di parole, emozioni, brani interi di esistenze.
Alla Torre, il numero stabilito di residenti, combinato in ordine casuale con quello dei visitatori, con la molteplice disomogeneità degli abitanti e con l’intreccio, in continuo mutamento, dello scoccare di relazioni diverse, rendeva possibili serie infinite di composizioni.
Lì poteva accadere di tutto.
Poteva accadere che la nebbia si impadronisse di un pomeriggio d’inverno e nascondesse la Torre agli sguardi, mentre la morte, furibonda e silente, alzava il sipario sulla scena che aveva saputo allestire. Toccava a noi scoprire i resti mortali, e il nostro sguardo rendeva la scena reale, circoscritta all’esame del medico necroscopo e ricondotta alla liturgia del rito funebre. Negli occhi restava quel che non avremmo voluto vedere, sulla lingua il retrogusto acre della paura e del disgusto e, sotto la suola delle scarpe, tracce che solo cento e mille e mille passi avrebbero potuto cancellare.
Poteva accadere che le parole del dolore e della sottomissione, pronunciate a brandelli e storpiate nella mia lingua, mi fossero sussurrate nel segreto, e nel segreto, con il coraggio che a volte unisce una donna a un’altra donna, si trasformassero nelle parole incerte della forza.
Accadeva anche che la Torre pretendesse i suoi martiri, come se non le bastasse mai, come se la sua cattiva fama avesse bisogno di lustrarsi, di rinvigorirsi, di non cambiare, mai.
Quando mostrava i denti, la Torre mangiava i bambini.
Li sputava fuori dalle finestre dei piani più alti, o li nascondeva nei recessi più bui.
Li esibiva, danzatori scheletrici di balli popolari, agghindati a festa e ammaestrati al sorriso, o li segregava, obliati alla vista, al pensiero e all’obbligo scolastico.
Quando le lacrime delle donne e degli anziani avevano lavato l’infamia, quando lo sguardo degli uomini aveva abbassato con mano aperta, come una carezza, gli occhi sul volto del corpicino ritrovato, le persone riprendevano a respirare, tutte insieme, così forte da asciugare le ferite e blandirla, la Torre, che allora si acquietava, lasciando che a mostrarsi fossero i suoi tesori.
Conservava preziosi, la Torre.
Correnti sotterranee di creatività diffusa, saperi, talenti, curiosità.
Racconti. Moltissimi racconti di tante vite diverse che, nella mia esperienza, da narrazione divennero materia, concretezza di oggetti da toccare, proteggere, spostare, quando dovemmo svuotarla, la Torre, e accompagnare altrove tutti i suoi abitanti.
Non dipendeva dalla volontà dei residenti, dalla stabilità della struttura, da niente che avesse visto la luce all’interno dell’edificio.
Fu deciso nei palazzi, quelli statici e protetti del potere.
Dovemmo tutti imparare ad ammettere che davvero lei sarebbe rimasta e noi no: gli abitanti, io, i miei colleghi, tutte le persone che con la Torre avevano a che fare.
Nonostante tutto, lasciarla sola un po’ ci dispiaceva.
Come nell’arcano numero sedici, le vite delle persone che la abitavano ruzzolarono giù per i suoi numerosi gradini, si dispersero nei suoi anfratti, racimolarono quel che c’era e trasmigrarono altrove.
Ci furono reazioni diverse. Molti si adattarono, qualcuno contrattò, altri si affievolirono fino a scomparire. Qualcuno pianse e si disperò.
Tutti lasciarono la propria casa. Erano ben arredate, spoglie, pulitissime, disordinate, sporche, colorate o con le pareti coperte dal grigio depositato dagli anni.
Ciascuna un mondo a parte, lo spicchio isolato di un globo frammentato in tanti pezzi la cui unità, adesso, non interessava più.
Rimase sola, la Torre.
Fu imbrigliata, ogni suo accesso blindato, imbavagliata da reti e paratie di ferro che con il tempo si sarebbero arrugginite e le avrebbero inflitto ferite.

E’ ancora lì.
Ad andarle vicino e piantarle gli occhi addosso, quello che si vede è un animale possente, imprigionato, furioso e dolente.
Le serrande delle finestre, ormai cieche, sono tutte abbassate.
Lo prevedeva la procedura: una volta svuotato, ogni appartamento doveva essere sommariamente ripulito dalle tracce di chi vi aveva abitato e reso inaccessibile alla luce, al vento, al fruscio del traffico cittadino, alle campane di mezzogiorno, al vociare dei giocatori del campo da calcio e ai rintocchi metallici del dondolio delle altalene.
La procedura prevedeva che, una volta svuotato, ogni appartamento venisse dotato di una porta blindata, massiccia, bella e inviolabile, utile a imbrigliare il pulviscolo impalpabile delle storie, rimasto sospeso in ogni stanza, e a scoraggiare le occupazioni abusive.
Adesso la Torre pare immersa nel silenzio che le si è fatto intorno, nutrito dal vuoto enorme che ancora contiene e sparge intorno a sé, isolata dal frastuono della città che pure la comprende.

Nel periodo in cui l’ho frequentata, la Torre è stata la mia piattaforma di lancio e un’àncora di salvataggio. Mi ha aiutato a conservare la mia identità quando mi sembrava di averle smarrite tutte, è stata la mia chiave d’accesso alla città, che ho imparato dapprima a conoscere guardandola dall’alto, dalla cima del tetto della Torre.
Con lo scorrere del tempo, il legame costruito con l’edificio nel suo complesso si è scomposto, lasciando germogliare rapporti minuti fondati sulla conoscenza delle persone, sulla comprensione empatica, sulla disponibilità ad ammettere senza giudizio.
La Torre mi ha insegnato a modificare la mia visione sulle “cose che siamo tutti i momenti, che capitano da tutte le parti, come meteoriti sulla terra, e che ignoriamo o subito dimentichiamo, le cose reali che nel mondo dei segni qualche volta entrano facendo un segno negativo, un meno, o meno ancora, uno scarabocchio”.
Da quel gigante di cemento armato ho imparato un sistema complesso di mondi che ha orientato la mia ricerca attraverso l’esperienza diretta, perché “abbiamo bisogno che, insieme al pensiero, passi fra noi anche qualcosa della massa sterminata di cose ignorate e taciute, cieche e mute, impensate e impensabili, che si stende fuori dal mondo dei segni”.

Gli orrori del proletariato: sequenza 01

87.copertine-capra.orrori

Sincronicità, casuale (che altro potrebbe essere?) mi fa trovare poesie di Joyce che evocano spiriti dimenticati, sepolti. Mi viene in mente che le ho lette a mia moglie e ai miei figli e da giovane a qualche aspirante fidanzata che poi mi rifiutò o ad una signora che poi rifiutai io. Momenti densi, mi sembra di sentire ancora le voci delle persone di allora, i loro profumi, rivedo le loro facce e il ricordo si espande caotico e disordinato senza coerenza come il fumo di una sigaretta in una stanza. Riaffiora la voglia di Mr. Bloom, come altre volte, e ricomincio per la lettura dell’Ulisse. E’ la quarta volta. Ancora meraviglia e stupore, mi sembra di ricordare tutto e mi pare di non averci mai capito nulla. Passo lunghi momenti di estasi leggendo e rileggendo le pagine di un quadernetto nero – come le moleschine che teneva in tasca mio nonno per rendicontare le sue salite al monte Maddalena – e appunto le frasi che mi colpiscono e non voglio perdere. Potrei appuntarle nelle note del computer, mandarmele per mail in modo da averle in archivio su ogni dispositivo che ho a portata, ma preferisco scrivere a mano. Non uso nemmeno la biro, ma una matita che odora di legno di cedro e che tengo appuntita con un temperino che conservo dai tempi della scuola media. Avrei anche una matita portamine che non dovrei temperare di continuo, che ho desiderato alla follia quand’ero ragazzo, è una Caran d’Ache, pagata una fortuna per le mie possibilità di allora, ma quella mi evoca altre storie e quindi matita da temperare per questa volta.
L’Ulisse è, come dice Berio, uno dei libri più belli che siano mai stati scritti, ma per me è soprattutto un totem, il feticcio della mia necessità di affrancarmi dalle mie origini proletarie e conquistare una cultura che fosse al tempo riscatto e grimaldello per accedere a quegli ambienti sociali borghesi che mi affascinavano. Avevo sedici anni e tenere il quotidiano Lotta Continua che spuntava ostentatamente dalla cartella e presentarmi nei circoli dei cosiddetti marxisti-leninisti con l’aria vissuta di chi ha letto Joyce, mi pareva così naturale, gratificante e legittimo. Mio zio, accanito enigmista, guardava i miei libri, le mie scarpe e soprattutto la lunghezza dei miei capelli e chiedeva a mia madre se avesse notato in me atteggiamenti strani, morbosi, malati. Ogni tanto mi chiedeva senza mezzi termini se fossi drogato, omosessuale o ricattato da qualche prostituta. Peggio fu quando mi vide nella sua bottega di ciabattino, dove lavoravo durante le vacanze estive, con in mano l’Ulisse che nell’edizione I Meridiani sembrava tanto un messale. Così per l’ateo radicale, misantropo e misogino che era, una preoccupazione si aggiungeva alle altre già dette: che fossi diventato improvvisamente credente e che leggessi testi sacri. Gli feci vedere il libro, gli citai l’espressione: esattore di prepuzi convinto di rassicurarlo, ma lui mi strappò il libro di mano, sfogliandolo a caso lesse frettolosamente alcune citazioni in corsivo, perché più visibili del resto, che lo lasciarono di sasso, e lo rovesciò per cercare l’etichetta del prezzo. Trovatolo andò su tutte le furie: avevo speso una cifra per lui inconcepibile per leggere le schifezze di un irlandese pazzo che cita in continuazione cose astruse e che lui, lo zio, non voleva capire. Fui licenziato sedute stante, mi riaccompagnò a casa, dove travolse mia madre con la sua rabbia, buttandole addosso tutte le sue congetture sulla mia salute mentale, sessualità e dipendenza da sostanze psicotrope. Ma quello che fece veramente uscire dai gangheri mia madre fu quando le disse il prezzo del libro e l’ammontare della paga che fino ad allora mi aveva dato. Mia madre si precipitò in camera, nell’armadio teneva un battipanni di saggina, lo impugnò con un rantolo e urlando: – Tu mi vuoi vedere morta! – cominciò ad inseguirmi per pestarmi. Con l’Ulisse stretto al petto saltai il tavolo, guadagnai la porta d’uscita e agile come ero allora, salii sulla pianta di ciliegio per trovare riparo e aspettare che a mamma sbollisse l’incazzatura. Mia madre era una donna energica e determinata, aveva fatto la staffetta partigiana già a dodici anni, aveva affrontato un tedesco che minacciava con una rivoltella di far saltare le cervella a suo fratello, lo zio ciabattino appunto, quindi rotta a tutte le tattiche per raggiunger lo scopo. Era una lottatrice professionista e in quel periodo aveva aperto parecchi fronti: con mio padre e la sua amante, con la suocera e la cognata, ree a suo dire di prestare il letto al babbo per le sue intemperanze erotiche con donnine e donnacce senza soluzione di continuità, con i soldi che non bastavano mai. Ostinatamente andava avanti a testa bassa, senza arrendersi all’evidenza. Ci mancava solo che il figlio cominciasse a darle grane, quindi giocò sporco. Sapeva del mio pudore, della mia timidezza e di quanto non sopportassi di essere sgridato e insultato di fronte al vicinato. Tra l’altro ero il più piccolo dei ragazzi maschi della via, tutti già lavoravano e alcuni avevano la morosa ed io ero l’oggetto del loro scherno per la mia voglia di studiare, i miei modi da fighetto e la totale incompatibilità con il fobal. Quindi facendo leva su questo mio pudore, cominciò a urlare, un po’ mi insultava, un po’ chiamava i vicini, che arrivarono presto e sembravano decisamente soddisfatti dello spettacolo che si prospettava e subito spalleggiarono mia madre, sottolineando con brusii e movimenti del capo il rosario di imprecazioni ripetitive e minacciose che vorticosamente mi raggiungevano sull’albero. Mamma al culmine della rabbia con un rantolo si accasciò premendosi il petto con una mano e chiedendo una medicina per il cuore, senza però mollare il battipanni con l’altra. A questo punto i ragazzi ridevano e si davano robuste pacche tra di loro, quelle arpie delle loro madri ricominciarono a scuotere la testa, mentre mia madre con un filo di voce sussurrava:
– Muoio,.. muoio. Mi fa morire quel delinquente.-
Tutti in coro cominciarono a imprecare, bestemmiare, inveire contro di me con quella veemenza che solo il proletariato può esprimere. Erano indignati, rabbiosi e il coro urlava:
– Delinquente bastardo, la vedi tua madre? Con tutte le disgrazie che ha in casa ci mancava solo un lazzarone come te! Scendi subito e corri a prendere le medicine o ti tiriamo giù noi -.
Questo era troppo per me, passai in rassegna i loro sguardi: erano senza pietà.
Le loro mascelle si muovevano digrignanti, e bavose, i denti guasti delle anziane rendevano ancora più spaventoso lo spalancare le fauci, dalle quali uscivano epiteti diretti e volgari, i loro pugni stretti lungo i fianchi o alzati verso me minacciosi mi spinsero ad una decisione in una frazione di secondo: porre fine allo spettacolo. O almeno così speravo. Saltai giù dalla pianta, guardai con sprezzo quelle persone prive di sensibilità e mi avvicinai a mia madre che con inaspettata agilità scattò in piedi, mi piantò le unghie, per fortuna le teneva d’abitudine corte, in un braccio per trattenermi e con il battipanni cominciò ad impartirmi una severissima lezione davanti a tutto il vicinato. Mi rannicchiai e tentai di guadagnare la porta, almeno per entrare in casa e sottrarmi alla vergogna, ma mia madre aveva la forza della rabbia e dell’allenamento agli umili lavori fisici che faceva fin da bambina, così non ce la feci e rimasi esposto a quella piazza di vicini che detestavo.
Ora l’obbiettivo era salvare il libro, non potevo permettermi di perderlo, era vitale a questo punto, ma mia madre non la smetteva e ad un certo punto dovetti cercare di proteggermi le mani e le gambe con il libro. Un colpo strappò parte della sovracopertina di plastica trasparente. Mi scese una lacrima che sentii salata all’angolo destro della bocca e mamma ormai stanca si fermò. Ci guardammo in faccia, lei paonazza e ansimante, io bagnato di lacrime e sudore, che mi mordevo le labbra per il bruciore delle sferzate che mi striavano le braccia e le gambe. Ora nei nostri occhi non c’era più rabbia e men che meno rancore, solo amarezza, un’amarezza silente e intensa che si aggiungeva a tutte le altre amarezze e frustrazioni che ci tenevano così vicini nonostante tutto. I vicini di casa se ne tornarono ai loro orti, alle loro motociclette o utilitarie scuotendo la testa e una signora più acida delle altre, mentre stava varcando la soglia del suo giardino si voltò verso di me e ringhiò: – Tu ti credi tanto intelligente perché studi, ma guarda che la fronte alta non ce l’hai neppure tu -.
Si rigirò sui suoi ridicoli sandali con tacchi a spillo e rientrò in casa sbattendo sonoramente il cancello del giardino. Chiusi gli occhi, strinsi al petto il libro e tastandolo mi accorsi della sopracopertina strappata: l’avevo salvato, ma quello strappo mi avrebbe ricordato quella umiliazione per sempre. Quel libro ancora oggi è così e quando lo guardo rivedo lo sguardo amaro, duro, triste e senza speranza di mia madre, e anche il suo sguardo è ancora oggi così.

Il funambolo

86.copertine-capra.funambolo

Mi chiedo se l’arte, o l’artista, ha mai fatto altro se non isolare, rivelare, animare dare forza e accentuare l’individualità del singolo oggetto, percepito nell’abbondanza del mondo visuale.
Thomas Mann
Fotografare è una passione abietta da cui sono contagiati tutti i continenti e tutti gli strati sociali, una malattia da cui è colpita l’intera umanità e da cui non potrà mai più essere guarita. L’inventore dell’arte fotografica è l’inventore della più disumana delle arti. A lui dobbiamo la definitiva deformazione della natura e dell’uomo che in essa vive, ridotti a smorfia perversa dell’uno e dell’altra.
Thomas Bernard

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Le linee d’intersezione dei piani di pavimento, parete e soffitto, nel mio studio non esistono. Ogni piano è raccordato da ampie e morbide curve che uniscono in illusoria continuità il verticale con l’orizzontale, il sopra con il sotto, in un falso sconfinato unico piano, apparentemente piatto, senza fine, senza tempo, quantomeno tre delle quattro pareti della grande stanza, dove realizzando ritratti fotografici, disintegro due delle quattro dimensioni. Il senso dimensionale è controllato dall’illuminazione, che con ombre o riflessi, può rivelare lo mancanza di angoli del cosiddetto limbo, (uno specie di enorme interno d’uovo), lasciare una sensazione di piano d’appoggio e un’ipotesi d’azimuth, oppure con sapiente scienza dell’illuminazione annientare completamente ogni relazione geometrica con il mondo di qualsiasi soggetto, in un bianco abbacinante o in un nero sconfortante, tranciando ogni legame con la miserabile realtà naturale di forma, luogo e tempo, ricreandola in sole due dimensioni, con la possente e tenebrosa nebulizzazione dell’arte fotografica, nella luce della mia personale interpretazione dell’essere in sé.

Gli attori o automi di ogni ritratto, sono in realtà spettatori inconsapevoli di un rito magico, circolare e a loro incomprensibile, del quale io sono padrone assoluto poiché ne conosco codici e caratteri, che credono, loro, di poter spiegare e tradurre nel linguaggio rettilineo del raziocinio e della didascalia. Nel vano tentativo di immaginare l’immagine prodotta dall’apparato mi osservano mentre posiziono le luci e li inquadro, ma non ci riescono e, come dice Flusser, ogni spiegazione logica si frappone tra loro e l’immagine che verrà prodotta, perchè essa, l’immagine, è sempre simbolica e non affrancandosi dalla necessità del pensiero concettuale essi cadono nella testolatria smarrendo la magia.
Con loro stessi portano l’immagine alterata che hanno sempre di sé e credono di poterla interpretare e contrabbandare meglio se aiutati dall’esoterica e indulgente capacità del ritrattista, che alla fine, sperano li farà riconoscere per ciò che vogliono e narrano di essere e mai sono. Le distorsioni e per l’aberrazione di questa società istituzionalmente ignorante, materiale, priva di ogni forma di sensibilità artistica e umana, sono magistralmente e pateticamente interpretate nei tentativi di dare un’immagine di sé iconograficamente accettabile per l’immaginario collettivo, da parte di questi spettatori aspiranti attori durante una seduta di ritratto. Incapaci di guardare dentro e cercando solo fuori invocano la magia della produzione di una loro immagine seppur cartacea: il ritratto. Da automi me ne danno mandato e secondo un programma necessariamente stabilito iniziano a muoversi secondo il caso, di fronte a quel giocattolo simulatore di pensieri che è la macchina fotografica, convinti che la ridondanza di informazioni, che mi esibiscono, li avvicini a un’illusoria possibilità di riconoscersi ed essere riconosciuti, accettarsi ed essere accettati, in quel percorso che sta tra loro e la morte: la realtà. Parlano, mi sommergono di metacodici per spiegarmi la loro immagine in potenza e chiedendomi di fare da funzionario della fotocamera, come se essa avesse già in sé tutto il programma del loro ritratto. Ma ciò non è mai possibile. Li osservo avvicinarsi al set preoccupati, deboli, in cerca di un mio consenso come bambini insicuri, con i visi spesso tesi in risatine sardoniche d’incertezza, pudori caustici o esibizionismi isterici, ma con un’unica ossessione: riuscire ad interpretare sé stessi ed averne di riflesso un’immagine riconoscibile al mondo di ciò che vogliono credere di essere. Per la propria immagine personale inseguono sempre un modello stereotipato, preconcetto: quello della loro cultura visiva e sociale. Anche i timidi e ritrosi, quelli che non vogliono farsi ritrarre, gli eterni traccheggianti, un piede su e uno giù dal set fotografico, con i loro piagnistei sono sempre così lontani dall’idea di loro stessi e accomunati a tutti gli altri dall’insostenibile orrore e meraviglia di non riconoscersi, di non esser riconosciuti e quindi di non essere. Tuttavia sono loro stessi che senza nessuna ironia arrivano vestiti di falsità, tradendo la loro intima essenza, lontani dalla loro anima. Nessuno sa più farsi ritrarre con disinvoltura. Difficile trovare qualcuno che abbia un’intima e sensibile immagine di sé. Nessuno è disinvoltamente lontano dal suo aspetto corporeo e vicino a ciò che veramente è, per ciò che ora è e che poi, dopo la morte, non sarà. Loro stessi negano la loro esistenza in quanto esseri incapaci della minima trascendenza, come fossero già morti, sospesi sul mio limbo tra terra e cielo ideale. Allora di fronte a quell’agglomerato informe di pensieri e volontà, dopo un attento studio dei sintomi, produco l’automa, che secondo il mio programma e l’aiuto degli apparati fotografici, alla fine del rito potrà diventare un’immagine, un ritratto. Come il dotto rabbino Bezhael Low nella Praga di Rodolfo, impasto l’argilla con cui creerò il Golem e a cui darò vita con l’inserimento dello Shem, il tassello d’osso su cui è scritto il magico, segreto e impronunciabile nome di Dio. In camera oscura poi, ridurrò cartaceo e inanimato, in una stampa, il mio Golem, seppellendolo in fondo a un cassetto dell’archivio per dimenticarlo, che forse un giorno riaprirò per rinnovare lo stesso potente stupore.
La leggenda dice che il Rabbi Low per stanchezza dimenticò di togliere lo Shem dal Golem per il riposo del sabato e questi distrusse l’intero ghetto di Praga uccidendo migliaia di innocenti. Con uno stratagemma Rabbi riuscì a neutralizzarlo togliendogli lo Shem, il Golem cadde o terra impotente e privo di vita e fu nascosto in una stanza magicamente inaccessibile nello sinagoga Vecchio-Nuova, dove tutt’oggi giace inanimato, ma se qualcuno, che conosce la combinazione di caratteri magici dello Shem, lo ritrovasse, potrebbe riportarlo alla vita con il suo devastante potere.

2

Ricordo che da bambino fui accompagnato da mio nonno per il primo ritratto fotografico della mia vita. Il nonno, vecchio radicale socialista, eroe della prima guerra mondiale, viveva con enorme tensione il momento di creare un’immagine tecnica di sé, il suo sembiante cartaceo bidimensionale. Il fotografo, amico suo e compagno di partito, aveva lo studio a poche centinaia di metri dalla casa del nonno, ciononostante i preparativi furono lunghi e laboriosi, come per un lungo viaggio. Dapprima bisognava comunicare ufficialmente il progetto a mia madre, che lavorava da sarta in casa, lontana e disattenta a qualsiasi problema che non fosse economico. Così, si presentò sull’uscio di casa, impettito e con aria severa e di circostanza disse a mia madre, china sulla macchina da cucire, che era ora che lui ed io avessimo un ritratto ufficiale assieme, visto che ero l’unico nipote che aveva e che lui, il nonno, ormai in avanzata età, voleva essere ricordato da me ancora valido, nella sua stupefacente forza fisica e morale, prima dell’immancabile, ma per me bambino impossibile, decadimento. Mia madre abituata al tono marziale e un po’ pedante del nonno alla sua richiesta, non sollevò neppure lo sguardo, disse solo: – E chi paga? – Il nonno assicurò che il pagamento del fotografo, del compagno fotografo dovrei dire, sarebbe stato totalmente a suo carico e ricevette da mia madre uno stralunato cenno d’assenso, e così dette l’avvio all’operazione ritratto. Per prima cosa stabilì che quella notte avrei dormito da lui, anche se la distanza tra le due case era irrisoria, perché dovevamo prepararci al particolare momento che ci attendeva, con solennità e, come dicevo lui, rango. L’indomani ci aspettava un ritratto, un vero ritratto, non una di quelle stupide fotografie che servivano solo agli sbirri per riconoscerti e sbatterti dentro dopo uno sciopero, o per appiccicarle su un documento, dove tutti i proletari erano rappresentati nella brutalità dello loro condizione infame e avevano delle facce da scemo, diceva, come quelle pubblicate su un libro di teorie lombrosiane, che mi fece poi vedere. Un ritratto intenso, studiato, che avrebbe dato dignità alla nostra condizione di intellettuali rivoluzionari e illuminati, che affrontano a viso aperto, con arte e poesia, l’ostilità di un mondo orrendo e ingiusto. Naturalmente ero emozionato e felice di essere coinvolto dal nonno in una cosa che lui riteneva così seria e importante e di essere io stesso messo sul suo stesso piano di rivoluzionario. In famiglia, al meglio si ridacchiava delle idee del nonno, senza mai prenderle sul serio. Le si attribuiva a una ferita di baionetta alla testa durante la guerra, sull’Isonzo, che oltre ad avergli lasciato una vasta cicatrice vicino all’orecchio, si diceva avesse accentuato il già eccentrico carattere. Giunti nella sua officina, come chiamava uno scantinato sotto casa dove faceva un po’ di falegname e si rifugiava a leggere i suoi libri ordinati in un’ampia libreria di noce da lui stesso costruita, avvisò la nonna che sarei rimasto a cena e a dormire e subito cominciò la preparazione al ritratto. Iniziò immediatamente a sfogliare vecchie riviste e libri di storia, facendomi vedere ritratti di re e generali, che quantunque da aborrire come simbolo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, avevano comunque cultura e sapienza, erano, come diceva lui, proprietari dei mezzi di produzione industriali ed intellettuali, e era significativo quindi come posassero in quei ritratti per dare alla storia la possibilità di conservarne uno loro immagine significativa. Mi faceva notare come tutti stessero attenti a rendere vivace l’occhio, il viso sereno, ma inflessibile nel rigore morale, nell’atteggiamento serio ma mai altero, e come il sobrio decoro regnasse nei loro abiti. Mostrò anche fotografie di anarchici e rivoluzionari, dei quali elogiò la fierezza dello sguardo, ma criticò lo scarso rispetto per delle convenzioni correnti di abbigliamento, concludendo che chi non ha rispetto per il proprio aspetto non può pretendere di essere rispettato. La dignità del proprio aspetto esteriore non è una vacuità borghese, infatti con queste teorie sciatte, diceva, la rivoluzione non si era ancora fatta. Convinto di avermi esaustivamente illustrato i miei doveri di essere umano libero rispetto alla fotografia, onde essere eternamente trasparente al mondo, passò a cercare, nella sua vecchia cassa da soldato della prima guerra mondiale, oggetti e simboli da portare con sé per il ritratto, e mentre lo faceva, mi parlò di un suo amico che aveva combattuto nelle guerre d’Africa, e che gli aveva raccontato che quei poveri esseri, gli africani, totalmente superstiziosi e ignoranti, capaci persino di adorare un pezzo di legno o d’osso, diceva, avevano paura a farsi fotografare, temendo gli fosse rubata l’anima. Il mattino successivo andammo dal fotografo. Fui subito affascinato dagli apparati tecnici, mi divertii molto e non ricordo quasi nulla delle discussioni di natura etica che si protrassero per ore, fino a mezzogiorno, prima nello studio fotografico e poi all’osteria, sulla pretesa del nonno di avere davanti a sé, mentre si posava per il ritratto, uno specchio per controllare la propria espressione ed essere cosciente dell’aspetto adeguato, personale e unico che voleva rappresentare e quindi essere. Lui voleva essere quel che voleva apparire, autenticamente, intimamente e senza la menzogna di mediazioni culturali: così era! Conservo ancora quella foto.

3

Ogni volta che finisco un ritratto, sento il bisogno di sedermi al centro del limbo e smarrirmi. Rivolto in modo da avere tre lati senza spigoli che mi avvolgono su tutto l’arco visivo, sistemo l’illuminazione con un riflesso esattamente a metà della mia visuale per sentirrni galleggiare in un piatto e nebbioso paesaggio padano, dove la linea dell’orizzonte non è altro che un lieve bagliore all’incontro tra biancastro cielo e grigiastra terra e tutto è immobile. Guardo il ritratto, respiro e penso alla morte. Pian piano mi avvicino con lo sguardo al tondo della pupilla riprodotta sulla stampa e mi accorgo che è un terrificante pozzo scuro, in cui precipito sgomento, nel tentativo di attraversarla come un acrobata che cammina sul filo, spaventato perché non ancora morto, perché sconfitto dallo paura. L’acrobata deve essere già morto prima di salire sul filo, per liberarsi dalla paura, affidarsi alla sensibilità dei suoi piedi, ed essere armato solo della forza delle mani che stringono il lungo e pesante bilanciere, attraversare il pozzo senza provare la letale vertigine, quando a metà percorso il suo sguardo incontrerà la sua immagine in bilico che si riflette nelle gelide e tenebrose acque di cui è colmo il fondo. Ogni pupilla di ogni ritratto, seppur diverso per espressione e intensità, seppur diverso per tecnica di ripresa è sempre comunque un pozzo scuro, nel fondo del quale, ancor più inquietante per l’aberrazione della prospettiva sferica, si riflette la mia immagine di acrobata terrorizzato in spettacolo. Immagine avvinghiata all’apparato, persona viva e meravigliata davanti o uno stolido pubblico fatto di una sola persona che non resiste alla vertigine dello specchiarsi e precipita infrangendosi nel proprio riflesso nel fondo nero che doveva vincere e attraversare. L’incontro inaspettato con lo propria immagine é insostenibile. Del resto da molto tempo nella mia cosa e nel mio studio sono stati banditi tutti gli specchi. Ogni volta che mi trovavo davanti a uno specchio scrutavo il mio occhio con intensità estenuante, cercavo nell’iride, nella pupilla o nella purezza del bianco del bulbo, anche il più piccolo segno di identità peculiare e personale o di cambiamento. Era sufficiente uno sguardo e l’accessorio domestico denominato specchio si attivava con perversa efficacia, rimandandomi un altro me stesso sconosciuto e per quanto facessi per orientarmi, mi smarrivo nell’angoscia agorafobica dell’immenso vuoto che trovavo nella mia pupilla. Enormemente rassicurante cominciare ad esplorare le pupille altrui, trasformarmi in ritrattista fotografico e speculare, ignorando di specularmi nelle pupille degli automi fotografici ai quali avevo dato vita e identità, seppur bidimensionale, a mia discrezione e vivendo emozioni per procura come fossi un terzo escluso. Nella mia anabasi, certo della mia identità verso me stesso e Dio, al punto da non aver bisogno d’avere un’immagine mentale di me, ma solo dei miei automi ritratti, mi scontro con l’involontario specchiarmi in ogni occhio che ho fotografato, diventando il terrorizzato acrobata che precipita in ogni pozzo buio che tenta di attraversare sfracellandosi nella tenebra che fa da specchio. Ne ho terrore. E’ straziante la sensazione di caduta in quest’occhio. Mi procura dolore e tensione insostenibile e incredibilmente non ho alcuna voglia di fuggire e di sottrarmi a questo sofferenza, ma attraversarla, sentendola fino in fondo per l’orrore e l’incertezza che mi spetta per nascita e che è il mio io. Non mi resta altro che smettere di fotografare estranei e comprarmi uno specchio, oltretutto quel che vedrò sarà il solito e non una novità.

Bibliografia

Benjamin – L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – Einaudi
Flusser – Per una filosofia della fotografia – Agorà Editrice
Barthes – La camera chiara – Einaudi
Schawarz – Arte e fotografia – Bollato Boringhieri
Calvino – Le avventure di un fotografo – Einaudi

Questo testo è apparso nel catalogo della mostra “Controcanto“ Palazzo Gambara 1998

Villaghe

83.copertine-abati.villaghe

Spontaneo evento d’arte la costruzione coi materiali trovati sulla spiaggia. Accanto alle città, infatti, il mare depone nudi elementi e chi passa ritrova sogni, giostre e labirinti.
Gesti antichi sono il costruire, l’ordinare: un tempo per sé, un gioco, un cimentarsi che passa di mano in mano, di giorno in giorno. Un edificare al meglio ed ecco che nel mio viaggio trovo un villaggio.
Un’idea di capanna, salvazione di piccoli naufraghi. Si pone il sedile sulla soglia; si costruisce l’urna di un rito astratto; si decora il perimetro; si segna il cortile; si delimita per agire; si arreda la sabbia e si dà bellezza. Il gioco è minuto ma richiede perfezione. Lo spazio si fa paesaggio.
Edificare in perpetuo, ma ora i gesti sono in ascolto soltanto di sé, del proprio immanere, della propria cura.
Forse tombe, forse cortili, forse clessidre d’aria; il vento s’incaglia nella conchiglia, seme gettato nell’arido campo.
Fusti ficcati nel leggero delirio; con ciottoli sottratti ad ampie mareggiate e con altri legni accanto, un totem si forma. Dalle mani della fortuna viene attinta una pertica. Sminuzzate le canne, sono costruiti piccoli recinti, scatole.
Spine di scheletri innalzati: animali che scrutano l’orizzonte. Passerò di lì per capire la traiettoria di sguardi o lo sbattere di bandiere involate, o sopravvivenze a battaglie perdute, oppure aratri, vaghi intarsi, sedimenti, ciuffi, ritmi semplici, boschi di stecchi.
E mi chiedo quali sono le voglie, perchè quei lenti rifare, quali gli andati dalle case.
E sono io a rimanere? Ancora quanto? A fare nel mondo, in fondo, nuvole. Salmodia il silenzio tra il popolo assente, tra i salmastri ripari.
Tra alcuni stesi al tardo sole, fra altri che passeggiano costeggiando i labili vicoli, vago come tra resti d’antiche dimore, immaginando la direzione presa dai gendarmi e quella presa dall’assassino.

Nel bosco*

75.copertine-abati.bosco

* Il racconto è liberamente tratto da fatti e situazioni storicamente documentate e riferite ai primi decenni dell’Ottocento. Le informazioni di partenza provengono principalmente dall’archivio storico del Comune di Polaveno (Brescia).

Ta tac, ta tac, ta tac… “Arriva lo Zoppo”, dice la gente al sentire il ritmo asimmetrico di zoccoli sul selciato. Lo chiamano Zoppo ma nessuno sa l’origine di quel difetto; lui stesso non lo ricorda. Forse si era infortunato la volta che cadde dall’acero dov’era salito a procurarsi il legno per gli zoccoli. Forse durante la fuga, anni prima, il giorno che tentò di recuperare la capra razziata dai francesi accampati a Sarezzo. Forse è la conseguenza della sua nascita fortunosa, tanto tempo prima, quando sua madre s’era trovata con le doglie mentre stava a prendere l’acqua al fiume ed era tornata, da sola, alcune ore dopo, col suo fardello sghembo e incestuoso. Forse, invece, si sono semplicemente accumulate zoppia su zoppia, e infatti – come i soldi rincorrono chi ne ha già – si sa che le disgrazie si accaniscono sull’anello debole della catena della vita. A vivere nel bosco il corpo diventa un tronco d’albero e la memoria delle cose non è più un pensiero, ma solo s’addensa come cerchi dentro il legno e uno dovrebbe tagliarsi alla cintola per vedere cos’è stata la propria vita.
Per tutti, dunque, è lo Zoppo. Ha poche cose e tra queste una manza di razza bruna, ma dal pelo più rosso che marrone, che pare imparentata col diavolo. Per questo gli dicono di stare attento e non perderla di vista, altrimenti la ritroverà, una qualche volta, a sputar fiamme dalla bocca per maleficio. Però la manzetta non si tiene a bada e caracolla per i sentieri che sembra piuttosto una giumenta; difficile tenerla a freno quando annusa l’erba nuova e i germogli nei boschi tagliati da poco.
Figura, la vacca, tra le poche bestie allevate in un paese dedito alla magra agricoltura di monte, che richiede il lavoro dei bovini soprattutto per tirare carri o slitte, perché lì non ci sono pianure da arare. Polaveno è un paese dove ci si rompe dalla fatica a roncare piane e pianette, a ricavar terrazze dai versanti ripidi per coltivar qualcosa, un po’ di frumento, un po’ di miglio.
Insomma, lo Zoppo ha quella manza e la porta al pascolo un po’ qua e un po’ là. Intanto lui sta ai crocicchi a guardare chi passa e a scambiare qualche parola: ogni giorno il monte si riempie di gente in cammino. Un giorno passa la Tibalda e per prima cosa lo Zoppo guarda se ha il gerlo con sé. La gente dice che se ha il gerlo significa che sta portando a destinazione la refurtiva. In un certo senso è una postéra: come accade ai mercanti di uccelli o di funghi, c’è chi le procaccia merce da rivendere, poi, da una parte o dall’altra del monte, a Gardone o a Iseo, a seconda. Però la sua merce esce da sporte trafugate, case borghesi, botteghe di bottegai incauti e distratti, osterie dove si gioca pesante e, perfino, dalle case di famiglia degli stessi ladri, perlopiù giovanotti sbandati e col gusto del bere per fare brigata. Qualche spicciolo, un rastrello o lo zappone, le verza di un orto o semplicemente la frutta degli alberi appresso alle cascine in montagna, costituiscono la refurtiva. Si rischia per quel poco che ha comunque il pregio di fruttare qualcosa in questi tempi di fame.
Anche la Tibalda ha una bettola in paese, in breve divenuta un covo per quei malpartiti che ci vanno a perdere alla morra quel che di riffa o di raffa guadagnano. Qualche mese prima ha però ricevuto un richiamo dal Comune, il quale, a sua volta, era stato incitato dalla Delegazione Provinciale a far cessare quel disordine, dato che non deve mai concedersi licenza d’osteria o di bettola a persona perniciosa. Qualcuno che ha commerci a Brescia e che sa su quali funzionari far leva, aveva forse segnalato la situazione, rispetto alla quale il Comune non si decideva a prendere iniziative. Anche alla donna non mancano, in effetti, leve da manovrare, nel retrobottega, per godere in paese di una certa compiacenza. Sorvegliata con un occhio sì e l’altro no (e più in forza delle reciproche gelosie che non dei doveri d’ufficio), la Tibalda continua dunque i suoi traffici e la clientela di balordi, nel suo piccolo, abbonda.
La Tibalda, dunque, si avvicina allo Zoppo e gli lancia un verso come si fa con le capre. Lui risponde con un cenno del capo: una sottile intesa, chiusa tra loro. Lei prosegue qualche passo, ma poi si volta e dice:
– “Quand’è che torni a trovarmi?”.
Lui alza le sopracciglia sorpreso e complice, e col bastone dà un colpo a un vecchio riccio di castagna.
– “Dicono che lo tieni in casa tu, quel disertore che cercano”. Lei ride. “Tuo marito Nicola che dice?”
– “Mio marito Nicola è di nuovo andato a travagliare al carbone e tornerà tra un po’”.

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Cammino nel bosco

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È in quel punto che il sentiero sbocca nella piccola valle. È lì che un albero sembra dimenticato dagli uomini, secolare, umido di odori e di vento. È lì che un bosco era prato fino a pochi anni fa, pascolo. Che un altro sentiero si perde, si sfa sul crinale dentro una pozza, piccolo muto verso d’acqua. È lì che rosicchiano le foglie i vermi. Vola l’upupa, torna il nibbio, raspa la talpa, il germoglio a primavera irrompe.

Seguitemi andiamo. Ora vi mostro dove il rivolo perenne consumando un’antica maiolica incide il solco e ricade su un letto di foglie, che lo tratterrà fino ai tempi della calura. Dove lascia la serpe a maggio la pelle e la foglia a marzo diviene una rete minuziosa di ossicini e poi terra. In alto le foglie lanciano riflessi. Qualcuno in basso si ferma un momento trafitto.

Seguitemi seguitemi. Una siepe tracciava il confine quando il monte era casa per gli uomini, ma ora quel segno si sfalda come terra non più irrigata. Siepe che correvi a dividere l’intero pianeta trascinando con te il convolvolo e il sentiero! Una siepe seguiva il confine, una sua radice sosteneva quel gradino divelto. Preso dal sudore e dal secco morso della scure, a un uomo un giorno rubasti un lembo di vita.

Andiamo seguitemi. Viandanti nel vecchio bosco scosceso certi alberi. Certi alberi danno frutti che uccelli e altri animali – volpi, scoiattoli – golosi divorano. E cacano i semi lontano ed essi germogliano e fruttificano le piante nuove. Viandanti nel bosco a grandi passi. Ora vi mostro questa vite, il fusto grosso come un pugno, che sale e sale nel fitto bosco abbandonato; s’innalza il frutto cacato a bere la luce.

Cede il bosco la gialla foglia; andiamo, andiamo. La terra nera di uno spiazzo dove preparavano carbone odora ancora di resine e muschio. L’alito di fate inseguite da lupi s’invola, impotente grido d’aiuto. Se guardi da qui, tra i rami, vedi la valle tutta intera.

Il disertore*

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*Il testo è tratto dal racconto di Rina Amadei raccolto a Bedizzole nel 1987

Eravamo quattro fratelli, io la più grande, sette anni, e mio fratello Vittorio, il più piccolo, due anni. Era il tempo della guerra del quindici diciotto; era rimasta lì da sola la mia mamma con quattro bambini.
Mia mamma faceva la sarta; la sera ci metteva a dormire presto e dopo stava alzata a lavorare. Si sedeva al tavolo perchè c’era una piccola lucerna che faceva luce, ed era una cucina piccola con due finestrini alti che guardavano nel brolo.
Una volta era la mezzanotte e lei stava ancora seduta a lavorare; sente che picchiano a quei finestrini. Puoi immaginare che paura avrà avuto.
– Chi mi bussa a quest’ora?
Era già un po’ di tempo che non sapeva niente del marito e di nuovo bussano e la chiamano:
– Virginia, Virginia! Sta zitta e vieni sul tavolo! Apri il finestrino che vedi quel che sono. Sono tuo marito!
Insomma ce n’è voluto… A mezzanotte, in una casa quasi isolata – c’erano i vicini ma stavano un po’ più spostati – come si faceva a fidarsi? Ma a forza di pregarla si è decisa, le sembrava di aver riconosciuto anche la voce.
– Sono scappato – dice lui – va ad aprirmi ma guarda che non ti senta nessuno! Vai ad aprire.
La sera chiudevano il cancello. E allora piano piano, quando si è convinta che era lui, è scesa ad aprire.
– Vieni in casa, vieni in casa.
– Io – dice lui – non vado più via, non parto più e sto qui! Perchè – dice – se vado via mi ammazzano.
Doveva partire per il fronte, ma era un gran rischio e un dispiacere scappare e nascondersi.
– Se vengono a sapere che sei qui ti uccidono!
– Allora è perchè non mi vuoi bene!
Subentravano questi pensieri…
Lei, poverina, per guadagnare qualcosa cuciva le camice dei soldati; gliele portava il maresciallo. Nelle case c’erano molti soldati perché qui era la retrovia. Anzi ce n’erano tre o quattro anche lì nella cascina. Be, insomma, lui è sempre rimasto nascosto. Gli era cresciuta una barba lunga così, non sembrava più neanche lui.
Noi bambini, quando a volte la mamma ci dava qualche sculaccione – ne avremo anche meritati perché quattro bambini ancora ignoranti… – noi le dicevamo:
– Verrà il papà e gli diremo che c’è qui un uomo nascosto.
Anche se, per sicurezza, lui stava attento a non farsi vedere nemmeno da noi, qualche volta ci era capitato di vederlo, magari da lontano, magari quando a volte apriva la porta per respirare, per cambiare aria alla camera. Loro dormivano insieme, ma lui non si faceva vedere, per esempio, ad andare a dormire con la mamma. Ci mettevano a letto prima, ma a volte capitava che la mattina – io ero più matura degli altri – andavo nella loro camera e vedevo nel letto la forma di un uomo, lo toccavo e dicevo:
– Ma è un uomo!
Mia sorella Iole aveva paura; eravamo bambini ignoranti e non sapevamo spiegarci la cosa: non era un soldato, era un borghese, con una barba e di quei capelli… Chi gli tagliava i capelli? Sì, glieli tagliava mia mamma ogni tanto, ma è stato nascosto in casa dieci mesi! Quando mia sorella lo vedeva, magari attraverso l’uscio, si metteva a gridare. E quando la mamma ci rimproverava le dicevo:
– Lo diremo al papà quando verrà a casa, che c’è un uomo nascosto!
Così si sono decisi a rivelare il segreto a noi più grandi; a mio fratello Vittorio e a Iole no perché erano ancora piccoli. Iole aveva tre o quattro anni, io ne avevo tre di più, sette; mio fratello Piero sei, Vittorio due.
Una sera, mi ricordo, avevano messo Vittorio e Iole a dormire e ci avevano messo io e Piero in piedi sulla cassapanca – una volta nelle case, in camera, c’erano le cassepanche – e lui ha detto:
– Sapete chi sono io?
E noi non lo sapevamo, non lo riconoscevamo.
– Io sono il vostro papà. Guardate, io sono il vostro papà! Se lo dite a qualcuno che sto qui, che sono qui in casa, vi butto giù nel pozzo.
E c’è ancora quel pozzo lì. Puoi immaginare che spavento per noi a quell’età lì.
Poi ci ha fatto le raccomandazioni e mi baciava perchè prima non aveva mai potuto neanche baciarci. Ha resistito così per cinque, sei, sette mesi, a vedere i suoi figli senza nemmeno dar loro un bacio. Diceva che ce li dava quando dormivamo, ma piano piano, per non farci svegliare. Col bene che ci voleva!

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La vigna*

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* Questo testo compare nel volume La vigna, catalogo della mostra di pittura di Rinaldo Turati, Palazzo Cominelli, Cisano di S. Felice del Benaco, Firenze. Pietro Chegai Editore, 1999.

Quando il legno del tino sogna, una brezza percorre la vigna; restituisce la gerla il respiro sanguigno del legno che si gonfia.
Quando è il contadino a sognare, la botte s’inorgoglisce; quando è sua moglie, il tralcio si volge alla luna.
I manici delle vanghe fremono sottilmente, come raggiunti da una nuova primavera.
Tendono la loro paglia le sedie della cucina; le scarpe di legno si scuotono la terra secca; le mani dell’uomo allentano la presa di radice e divengono rami nuovi.
I filari coi loro legacci bevono rugiada.
C’è chi dice che in quel mondo di legno anche i sogni lo fossero, e staccandosi facessero molto rumore.
La foglia dell’uva conversa con quella del fico. La terra nutre un nuovo germoglio.

Una canzone composta dalla fantasia popolare racconta il ciclo dell’uva e del vino dalla terra alla pianta alla botte alla pancia, per giungere nuovamente alla terra, divenire nuovo legno e nuovo frutto e nuovo succo.
È il sogno della vita fatta di cose di terra. Come nel ricordo di tanti vecchi di un tempo: il tale è figlio di quello, che è figlio di quell’altro ancora…
Generazioni che passano, mietono, vendemmiano, forse fanno l’amore nei prati con mani nodose.

Pioggia raccolta nell’incavo di secchi lasciati all’aperto; resine che trasudano.
Le doghe e i cerchi delle botti, le scale a pioli, le ceste, i carri, gli imbuti, le zucche cave da usare come otri, e il vetro dei bicchieri, il grembo dei fiaschi.
Eretta la vigna come casa. Sole e ombra. Aria.
Colore e legno, l’opera del mondo.

La traccia della corsa

Non la linearità di una via, neppure il segno evidente di un sentiero ma la labilità di una traccia, appena accennata, sconnessa, difficile da tenere.

Suggerimenti poco ortodossi e scarsamente atletici per la pratica del correre.

 

Che cosa è necessario?

E resta il nulla e il vuoto che il chiaro del bosco dà in risposta a quello che si cerca. Mentre se non si cerca nulla l’offerta sarà imprevedibile, illimitata. Giacché sembra che il nulla e il vuoto – o il nulla o il vuoto – debbano essere presenti o latenti di continuo nella vita umana. E che per non essere divorato dal nulla o dal vuoto uno debba farli in se stesso, debba almeno trattenersi, rimanere in sospeso, nel negativo dell’estasi. Sospendere la domanda che crediamo costitutiva dell’umano.
(Maria Zambrano,
Chiari del bosco)

Strumentazione pressoché nulla. Un buon paio di scarpette con suola per terreno misto, ammortizzate, anti urto. Le scarpe sono l’unico attrezzo fondamentale, le ali ai piedi, e si trovano ovunque senza svenarsi con cifre astronomiche. Ci sono poi negozi specializzati che analizzano il tipo di appoggio plantare durante la corsa e che sanno suggerire calzature adeguate. E’ sempre consigliabile optare per scarpe a pianta larga, evitando contenzioni eccessive. Le scarpe vanno cambiate spesso, perché se si corre costantemente la suola si consuma rapidamente e correre con le suole lise danneggia la colonna vertebrale. Per altro, sono i tendini di Achille che ci informano della necessità di cambiare le scarpe, quando cominciano a irrigidirsi e a dolere.
Per noi donne, oltre alle scarpe, è indispensabile un reggiseno da atletica, di quelli rinforzati e incrociati dietro, che incollano le ghiandole mammarie alla parete toracica, evitando dolori, sanguinamenti dal capezzolo, smagliature e altri fastidi.
Fra gli optional metterei: calzini con punta e tallone rinforzati per prevenire le vesciche, pantaloni aderenti o pantaloncini. All’inizio ho faticato non poco ad infilarmi quei pantaloni stile seconda pelle che evidenziano ogni difetto, ogni grammo di cellulite. Poi ho stretto alleanza con la mia immagine, mi sono affezionata alle imperfezioni che lo specchio rivela impietoso, e mi ci sono adagiata dentro.
Gli optional, come dice la parola, non sono affatto indispensabili. Trent’anni fa, durante una campestre in Val di Genova, mentre pioveva a fiumi, mi ha affiancata una donna nativa di Carisolo, ben più vecchia di me, bagnata fradicia, che correva in gonna e mocassini: era un fulmine.
E’ necessaria la disposizione dell’animo al silenzio, al vuoto, all’ascolto di quello che la corsa porta.
Non so bene descrivere cosa c’è da ascoltare. Si comincia con il cinguettio degli uccelli, il frusciare delle foglie sui rami, l’improvviso sgambettare di uno scoiattolo. Poi si ascolta il rumore delle suole sull’asfalto, sul terreno del sentiero, ripetitivo, sempre uguale eppure diverso. Ritmo veloce, muscoli contratti nello sforzo, che gradualmente si sciolgono.
Ma per sciogliersi devono attraversare la fatica e il sudore, evolvere dallo stadio di contrattura serrata a quello di abbandono che regala movimento gratuito, fluido, passivo, liberato dal controllo cerebrale. E’ come se venissero recise le connessioni fra centro e periferia, assoni lasciati liberi, penzolanti, sinapsi disattivate, zero acetilcolina. Motore principale silente, semplice ripetizione ossessiva, danza di dervisci, taranta, soppressione del controllo della coscienza.
Nei primi anni questa corsa-danza, questa attenzione acuta senza domande, veniva solo dopo i primi dieci chilometri, quando la fatica aveva sfiancato la volontà e nessun guardiano restava sveglio. La fatica era la chiave di volta, la strada obbligata. Tanta fatica, tanto sudore.
Il sudore è un problema quando si corre, perché irrita pelle e congiuntive: si deve adottare una fascia frontale che assorbe. Molto sudore riesce comunque a colare sul viso. Le aree che si irritano di più sono gli zigomi e le palpebre inferiori. Ho sperimentato mille protezioni, quella che funziona meglio è il burro di karité che le mie amiche mi portano dal Burkina.
Non ha una buona fragranza, ma è così denso da stratificarsi come un film protettivo sulla pelle e ridurre al minimo l’insulto dell’acidità del sudore.
La corsa induce all’ascolto del corpo, alla confidenza con i muscoli e dunque con il cuore, ma non con il cuore dei sentimenti, con il cuore pompa formidabile, magico motore silenzioso, scrigno segreto.

 

Come è cominciata?

Con la mia mano bruciata scrivo della natura del fuoco
(Ingeborg Bachmann)

Venivo da cinque anni di yoga declinato all’occidentale, yoga tutto fisicità e muscoli, che ho intrapreso verso la fine della chemioterapia. Non riuscivo a reggere la mia immagine allo specchio, lo sguardo la sfiorava di sfuggita e poi doveva distogliersi: quarantasei chili di ossa, muscoli ipotrofici, pelle cadente, sparuti peli radi in testa. Spiumata, mi definiva mio marito.
Sotto casa avevano aperto una nuova palestra yoga, gestita da donne che vedevo arrivare in tuta rossa. Ambiente silenzioso, niente musica, poche pretese, grande preparazione atletica delle maestre, tutte dotate di fisico agile e scattante. Il silenzio del luogo e la calma delle insegnanti mi hanno conquistata. Ho ricominciato gradualmente ad estendere e a flettere i muscoli, ad oliare le articolazioni legnose. Sensazione di chemioterapici che si sciolgono nel sudore, fluorouracile e oxaliplatino che a ondate abbandonano le vene e, tramite la cute, evaporano, si portano via la nausea, il sapore dolciastro che patina la lingua e inibisce il gusto, l’astenia invincibile. Questo é stato il maggiore ostacolo, scendere a patti con l’astenia, abituarsi a non avere risorse, a doversi concentrare a lungo per trovare l’energia per alzarsi da una poltrona. Estenuante esercizio di umiltà per chi ha sempre avuto forza a profusione, sopportazione della fatica senza limiti. Come se tutto il corpo fosse un unico muscolo calpestato dentro, scrive José Saramago.
Dure anche le parestesie alle mani, ai piedi e alla lingua. L’oncologo mi aveva avvertito di non bere bevande fredde, ma il primo ciclo di terapia era andato via liscio, per cui me ne ero dimenticata fino al momento il cui ho bevuto di colpo un bicchiere di acqua fredda. Era una mattina di luglio, ero sola a casa e la gola ha cominciato a serrarsi, l’ugola si è gonfiata a dismisura e lo spazio respiratorio si é ridotto a un filo. Impossibile inspirare, debito di ossigeno, vertigine e terrore. Poi il flash, il ricordo del farmaco: era il platino che faceva ostacolo, ingombrava i nervi periferici, ispessiva le mucose. Sforzo di autocontrollo, pazienza, calma. Sarebbe passato presto. Così é stato: ho ricominciato ad inspirare nello spazio di pochi minuti dilatati a secoli quando li misuri nella paura.
Sempre l’oxaliplatino paralizzava le dita delle mani e dei piedi; impossibile allacciarsi un bottone, reggere un libro. Mani esperte ridotte ad appendici di gesso, dolenti. Duplici guanti, massaggi, formicolio e poi dolore, urente, terebrante alle ultime falangi ghiacciate, bluastre, insensibili. Mi era stata assicurata la transitorietà del sintomo, ma come fidarsi quando le mani sono completamente inservibili e di lavoro fai il chirurgo? Non avrei varcato più le soglie della sala operatoria? Se fossi sopravvissuta al male, sarei sopravvissuta alla nostalgia del bisturi?
Quando il platino mi veniva iniettato nel catetere venoso centrale, direttamente nella vena succlavia e di lì in atrio destro, la sensazione era di gelo, come se il ghiaccio cementasse tutto ciò che il farmaco attraversava, progressivamente ma inesorabilmente. Il nulla che avanza di Neverending Story. La temperatura corporea si abbassava e le funzioni vitali rallentavano; sentivo il cuore divenire bradicardico e percepivo la pressione in discesa libera. Non avevo mai fino ad allora avuto attenzione al corpo, semplice strumento, ora d’improvviso tutto. Amplificavo ogni fruscio, la percezione dettagliava ogni minimo mutamento, distintamente, nulla passava sotto silenzio, quasi potessi contare i linfociti in rottamazione. Il corpo occupava imperiosamente tutto lo spazio.
E proprio ora che avevo conquistato questo sapere, questa confidenza con la mia corporeità, la sensazione che il farmaco mi rimandava attraverso il corpo era di morte. Freddo, brividi scuotenti, pallore, cute verdognola e poi sentirsi morire. Credo che l’esperienza del platino in vena sia la più simile alla morte che si possa immaginare, almeno per chi, come me, non ha un passato di abusi di altre droghe. Progressivo raffreddamento del corpo fino all’affievolirsi di ogni funzione, di ogni segno vitale. Già al secondo ciclo di chemioterapia ho imparato che questa sensazione di morte imminente sarebbe durata solo alcune ore. Le ore possono calamitare secoli in certi frangenti, i minuti sfuggono alle misurazioni convenzionali e fanno lo sgambetto al tuo self control.

Attraverso lo yoga cercavo di fare pace con un corpo che mi aveva tradita, aveva lasciato crescere un cancro, lo aveva nutrito sottraendo energia alla vita. Come avevo potuto non sentirlo crescere? Sette centimetri é una dimensione ragguardevole, avrei dovuto accorgermene. E non era una neoplasia qualunque, ma quella che operavo, che studiavo, che inducevo nelle cavie in chirurgia sperimentale. La malattia che meglio conoscevo, con cui avevo più confidenza, di cui avrei potuto disegnare le vie di metastatizzazione aveva colonizzato il mio presente.

Com’era possibile che il mio sistema immunitario avesse fatto cilecca e non lo avesse riconosciuto come un corpo estraneo, come altro da sé? Si affacciava alla mente la possibilità che la malattia non fosse altro da me, che non si trattasse di un ospite invasivo, di un saprofita, di un nemico. Che si trattasse di me. Cellule vive che crescono, si moltiplicano, seppur aberranti sono vita. Vita che erode la vita, che stronca la sopravvivenza. Fare i conti con il mio desiderio di morte, con ciò che mi ha portato lì, sul quel crinale fra l’essere e il non essere, con la fascinazione dello scomparire, con quel canto di sirene cui é difficile resistere.

Aveva voluto morire, ma non come si vuole quando si é lontani dalla morte, bensì andandole incontro. Non l’aveva invocata ma, più semplicemente, si era messa in marcia, scegliendo il cammino che conduce a essa, o forse si era confusa; forse si trattò solo di un inganno o di un’illusione; un errore. (Maria Zambrano, Delirio e destino)

L’ata yoga, con lo sforzo atletico che comporta, mi ha traghettata fuori dalla chemioterapia, ha riattivato le mie fibre muscolari e ridato parvenza di equilibrio al mio sistema nervoso centrale. Un puntello per reggermi in piedi.
Fare i conti con la malattia sarebbe stata tutt’altra faccenda, e, per quello, lo yoga così inteso, era un’arma spuntata. Ma non era ancora tempo, troppa era l’energia necessaria per sopravvivere.
Presi la mia mente, tutto il mio essere, una cosa ormai così scoraggiata, quasi esanime, e li sbattei tra quei resti, pagliuzze, rametti, detestabili rottami di un naufragio, relitti galleggianti, robaccia buttata a mare. (Virginia Woolf, Le onde).

Cinque anni di addominali, flessioni, piegamenti, fino a riuscire a sostenere posture antigravitazionali per le quali era assolutamente necessaria, oltre che la forza fisica, la concentrazione. Per questo dovevo ricostruire l’equilibrio. Quello non era mai stato un problema, almeno quello fisico. A scuola l’asse di equilibrio mi veniva facile e scendevo dal quadrato svedese a testa in giù come un’anguilla. Lo stesso per la pertica, quasi le gambe mi proiettassero verso l’alto gratuitamente.
La chemioterapia aveva invece cancellato anche l’equilibrio fisico, mi accorgevo di sbandare per strada, di pencolare sotto la doccia come un giunco, vittima di una lieve vertigine che non mi ha più abbandonata del tutto. Attraverso lo yoga ho ripreso una parte del vecchio equilibrio anche se ancora oggi, a distanza di dieci anni, mi capita di pendere da un lato, di camminare storta, di scivolare se non sono concentrata. Ora l’equilibrio richiede impegno di testa, mentre prima era gratis, era sapere inconsapevole del corpo.
Per qualche anno lo yoga ha funzionato: la fatica, i muscoli pesti, il sudore, mi consentivano di riabitare il mio corpo e di camminare nel mondo. La strada della fatica e del sudore mi é sempre stata conforme. Se fossi nata uomo sarei stata un bravo ciclista o un buon soldato; se fossi nata animale sarei stata uno di quegli asini legati alla stanga di una macina che triturano gli anni girando in tondo.
Fatica inscritta nella carne, oltre che nei geni. Decodificarne le origini non risolve, non cuce un nuovo abito addosso.
Finché l’ambiente della palestra yoga ha cominciato a guastarsi. Le pretese atletiche crescevano e con loro cominciava a fare capolino la competizione e il gusto per la perfezione del corpo che mi disturbava. Nuove insegnanti venivano inserite, più giovani, rampanti, magrissime, ben truccate. Poi è comparso un guru nostrano, con scimmiottamenti buddisti e sguardo ieratico veramente comico. L’ambiente si è fatto esclusivo, i costi sono lievitati e la clientela è divenuta ricercata. Aria troppo pesante per me. In realtà quell’attività aveva il merito di sfruttare le posture e la tecnica del respiro dello yoga, quello che strideva era il misticismo posticcio.
Ho abbandonato la palestra yoga, ma a quel punto il corpo aveva le sue esigenze e reclamava spazio. Non potevo chiuderlo in cantina un’altra volta.
La corsa nasce qui, da questa pressante richiesta del corpo che si era risvegliato, che voleva guarire, riprendere fiato, rimarginare le ferite, semplicemente esserci. Un richiamo forte, ineludibile. Il bisogno di riprovare ad immaginare una sopravvivenza, di rigiocarsi.

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Racconti

Prima dei romanzi, una serie di racconti: le prove narrative di Gianni Simoni prendono avvio una decina d’anni fa. Alcuni di questi racconti hanno fornito materiale per i romanzi scritti successivamente, altri – come i quattro che seguono – erano fino a questo momento rimasti inediti.
Carlo Petri, nei primi due, non è ancora in pensione, ma continua a svolgere le sue funzioni di giudice istruttore a Brescia. Il personaggio è già delineato nei suoi tratti essenziali, a partire dalla sua filosofia, tanto più convincente perché non tradotta in interventi espliciti del narratore, ma sempre richiamata nelle parole, nelle azioni, nello stile complessivo dei personaggi principali, e sintetizzabile nella convinzione che esista un gruppo, non numeroso, di persone il cui esser per bene consiste nel rispetto che hanno di sé e del proprio lavoro, e quindi per gli altri. Persone che è facile capire da che parte stanno, ma che vivono questa loro collocazione (ideale, politica): non la dichiarano, non la sostengono, e soprattutto non ne fanno – com’è spesso delle convinzioni politiche – un divisa che esclude quelli che non la pensano come loro. Badano ai fatti, queste persone, e la loro coerenza non è una cosa da dimostrare, ma una cosa che si fa. Ogni giorno. Non è la retorica dell’antieroe. E’ il convincimento che la società vien fatta ogni giorno da tutti, ma se va in una certa direzione – o si spera che vada – questo dipende da una parte dei suoi componenti. Non alfieri dell’altruismo o combattenti dell’emancipazione degli ultimi. Semplicemente convinti che la politica è prima di tutto esercizio quotidiano di attenzione civile. Un’attenzione che si ha – che alcuni hanno – non perché sia un dovere, ma perché non saprebbero fare altrimenti. E’ un costume, uno stile appunto, la scarsa diffusione del quale può spiegare molte cose.
Se dunque il profilo del personaggio è ben definito, si può osservare che il Petri che incontriamo nelle pagine qui proposte non pare ancora esercitare l’indiscusso ascendente su colleghi e collaboratori che i romanzi – ma già il terzo di questi racconti – ci abitueranno a considerare una sua caratteristica di fondo. In Uno sparo al crepuscolo e in Cronaca di un rapimento, invece, pur avendo il ruolo principale, Petri sembra spesso muoversi come un personaggio fra gli altri, indeciso a volte, non estraneo a dubbi e ripensamenti. Già portato comunque a non ridurre sempre i e in ogni caso la figura degli autori di un reato a quella del criminale: senza esplicitare motivi di critica sociale, né tanto meno nutrire velleità di redenzione, si direbbe convinto che i criminali veri siano altri, le cui condizioni non sembrerebbero in alcun modo giustificare scelte moralmente, se non penalmente, illecite. Di qui l’amarezza che a volte, a caso risolto, porta il giudice a dubitare d’aver scelto la professione giusta.
Non opera prima, in certo modo minore, quindi, questi racconti. Anche sotto il profilo della scrittura, nei primi due più incline a soffermarsi nella descrizione d’ambiente che a dispiegarsi nei dialoghi di cui gli altri (Una lettera d’amore e La chiave rubata) fanno largo uso, in ciò – oltre che nel mettere in scena i coprotagonisti, il commissario Miceli e la moglie Anna – anticipando l’andamento che sarà dei romanzi.
(secondorizzonte/c.s.)

05.copertine-gsimoni.racconti


1. Uno sparo al crepuscolo
2. Cronaca di un rapimento
3. Una lettera d’amore
4. La chiave rubata