La lettrice scomparsa, di Fabio Stassi

Fabio Stassi, La lettrice scomparsa, Sellerio 2016, pp. 276, euro 14

Si era occupato dell’edizione italiana di Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno, di Berthoud e Elderkin (Sellerio 2013). Ora Fabio Stassi ci racconta, con un’ironia a tratti desolata, di un biblioterapeuta, uno che si è inventato un mestiere creando una nuova diramazione del grande albero della specie “psico”.

Mestiere che, peraltro, esercita senza troppa convinzione, da perdente qual è, o si sente (lui stesso, del resto, ha sempre sentito nel proprio nome, Vince, “la terza persona di un verbo che non lo riguardava”).
Ne vien fuori un romanzo pieno di letteratura, libri e scrittori, ma non privo di un intreccio enigmatico che ingegnosamente Vince saprà sciogliere. Anche se nel frattempo, invece di curarsi con tutti i libri che legge e consiglia, si ammala, di una malattia la cui sintomatologia può suonare vagamente inquietante per qualche “lettore (molto) forte”…

“Non c’era dubbio (…) mi ero ammalato di letteratura. Sapevo che si trattava di una malattia mortale, e incurabile. Si comincia analizzando ogni circostanza come se fosse la trama di un romanzo: se ne indagano i significati taciuti, i rimandi interni, le eventuali incongruenze (…) mettendo in relazione cose lontane, nel tempo e nei luoghi, e trovando un legame, per quanto sottile e prodigioso, finché ci si introduce alla spaventosa reticenza della realtà e alle sue ancora più spaventose dicerie e, in bilico, sul confine tra le cose certe e quelle impossibili, finalmente ci si prende la responsabilità di cambiarne la punteggiatura, di alterarne il movimento e di lasciarsi mollemente andare in un cinerama di ipotesi e di visioni, esausti e vinti dalle analogie e dalle corrispondenze, consegnati per sempre alla follia definitiva della letteratura e irrimediabilmente dimentichi della tangibilità del mondo e dell’esperienza.
Non sapevo più cosa avevo realmente vissuto e cosa soltanto letto.
(…) L’avventurami nel mio nuovo mestiere di biblioterapeuta aveva agito da fattore scatenante (…) Se anche fossi stato involontariamente di aiuto a qualcuno, l’attività che mi ero scelta nuoceva gravemente alla mia, di salute”.

Il tempo e il racconto

Daniele Del Giudice, I racconti, Einaudi 2016, pp. 248, euro 19

In quelle pagine il tempo si annullava, programmaticamente: “in continuità e in una sorta di simultaneità” si raccontavano spedizioni antartiche avvenute nel passato, una di pochi anni prima e un’altra solo immaginata. A “un guardiano del tempo” si paragonava Daniele Del Giudice nel 2009, quando pubblicò Orizzonte Mobile. Un libro che, una volta letto, rendeva difficile pensare che dopo ne avrebbe potuto scrivere un altro. Un romanzo definitivo, ultimo.

Non lo sapevo: in una recensione ai Racconti, pubblicati quest’anno, ho letto che Del Giudice non ha davvero più scritto nulla, dopo, e nulla può sapere di questa riproposta di suoi scritti. Perché ormai da parecchi anni una malattia l’ha reso “assente a se stesso”. Fuori dal tempo, mi è venuto da pensare. E allora è Mercanti del Tempo il primo racconto che ho letto: il protagonista – un ricercatore, che si occupa dei fenomeni di discontinuità – scopre che segretamente esiste un commercio del Tempo, perché da noi non ce n’è più, occorre importarlo da dove invece ne è rimasto in abbondanza, dal Marocco per esempio, ma occorre anche trattarlo, confezionarlo secondo le necessità e le richieste, e questo si fa in Norvegia, dove lui ne acquista un po’. Tentato dapprima di comprare quello che gli serve per finire il racconto, opta poi per la sua prima ora di vita: continua a essere lui ma è anche – in continuità – il neonato appena uscito dall'”animale lì vicino”, e non sa più “che cosa sia il tempo”.

Inevitabile leggere questo racconto alla luce di quel che si è appreso della sorte toccata allo scrittore. Questo e anche gli altri, i due inediti soprattutto. Quello dedicato al suo gatto, cui riserva uno sguardo che non può non ricordare i passaggi, divertiti e affettuosi, dedicati in Orizzonte mobile ai pinguini. E l’altro, Di legno e di tela, dove torna la passione di Del Giudice per il volo, e anche la solitudine di chi vi ha colto la bellezza d’un’“arte del fare” che è esercizio di esattezza, e si è ritrovato a vivere in un paese nel quale la “cultura aeronautica” è fin dall’inizio sprofondata nella retorica degli “audacissimi eroi, arditi violatori del cielo”.

Tempo dell’Appennino

Maria Rosaria Valentini, Magnifica, Sellerio 2016, pp. 274, euro 16

Una penna d’oro indispensabile per scrivere storie lasciata in dono da un figlio che se n’è andato, personaggi (femminili, quelli protagonisti) che sembrano sfumare l’uno nell’altro più che distinguersi in una sequenza. Ma non è questo che disorienta alle prime pagine: sono i luoghi.

La storia prende il passo che ti aspetti, ma ti fa entrare poco alla volta. I luoghi sembra non ti accolgano, all’inizio, e la lingua – con tutte quelle immagini, e metafore che più che ardite suonano a volte stralunate – sembra imporsi, occupare troppo lo spazio della narrazione. Poi, però, capisci che non bisogna dar troppo peso a questi svoli di parole, come agli abbellimenti in certa musica barocca, e allora il filo del racconto emerge, discretamente si fa seguire, e cominci a vederli, i luoghi. Ci entri poco alla volta: come accade quando ti addentri nell’Appennino. Non quando lo attraversi per andare altrove, correndo sull’autostrada, e lo puoi immaginare uguale alla montagna che conosci, all’Alpe. Quello che si fa avanti, se non vai via, se rallenti e percorri le sue strade, se ti fermi in qualcuno dei suoi paesi, è altro: è l’Appennino “appartato, remoto”, “distante da qualsiasi altra parte del mondo”, dove può capitare di trovarsi “a mezza montagna, in un orizzonte chiuso, circondati da cime più alte” dalle quali tuttavia si può “avvistare il mare, nei giorni più limpidi e fortunati”.
I luoghi sembrano prevalere, in questo romanzo, sulle persone che vi si muovono, e le stagioni sulle vicende. Il Tempo sembra essersi ritirato, come il prato davanti al bosco che riprende spazio. La Storia aver ceduto al mito, e alle sue cadenze di nascite e morti, amori e partenze.

Felicità senza desideri

Elena Varvello, La vita felice, Einaudi 2016, pp. 200, euro 18,50

Chiusa la fabbrica. Tutti a casa, senza lavoro. Ma per qualcuno non è solo la disoccupazione: è la vita che si disfa, fantasmi che sembravano sepolti e invece tornano a confondere la mente, a far immaginare la malignità del complotto dove c’è solo la crudeltà dell’economia.

Lui, un manutentore, non sa riannodare i fili di una quotidianità che moglie e figlio gli offrono, lei recitando il copione di una normalità ormai perduta negli incubi del marito, il ragazzo scontrandosi con l’indecifrabilità delle parole e dei comportamenti di un padre di cui sente il bisogno. Non diversamente dall’unico amico che ha trovato. È anche un romanzo di padri assenti, questo, e di madri che suppliscono con un amore totale, che resiste a smentite e delusioni: “non ne sapevo niente, allora, dei modi in cui l’amore può manifestarsi”, ricorda il sedicenne protagonista trent’anni dopo, quando ricostruisce quell’estate che ha cambiato la sua vita. L’estate nella quale la confusione paranoica del padre è precipitata nel rapimento di una ragazza, atto conclusivo di un progressivo deragliamento che in casa si è finto di non vedere, o meglio: ci si è sforzati di comprendere: “devi cercare di capirlo, – dice la madre al figlio. – Devi sforzarti. Ci sono persone che sentono le cose in modo diverso dagli altri. Tuo padre è uno di quelli.”
Quando ne leggiamo sui giornali, di fatti simili, è solo dell’epilogo che veniamo informati, della tragica conclusione di un percorso riassunto in uno scarno cenno alla salute mentale del soggetto in questione. Qui no, è il percorso che conta, e si fa seguire, una pagina dopo l’altra, sul filo del racconto del figlio e, contemporaneamente, nella cronaca in diretta del rapimento. Fino a che il cerchio si chiude: ciò che sapevamo fin dall’inizio è accaduto. Quel che resta è “il bene che, nonostante tutto, diamo e riceviamo”: non c’è altro. Non c’è altra felicità nella vita.

Il mestiere di pensare

George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Garzanti 2016, pp. 108, euro 11

Peter Bichsel diceva, in un piccolo libro (Il lettore, il narrare, Comma 22, 2012) che il solo fatto di sapere che la nostra vita ha un termine la colora di un’angoscia che “può essere tenuta a bada” ma non eliminata: “ciò che non scompare è la tristezza per questa finitudine. La tristezza non la si può vincere, può soltanto essere rifiutata o accettata”.

Tornano alla mente queste parole dello scrittore svizzero quando si passano in rassegna le brevi, fulminanti note di Steiner. Ma si badi: qui non è un pensiero, come quello della morte, a generare tristezza, ma il pensiero stesso. Per cui la tristezza non invade la vita a partire da quel che è inevitabile pensare, ma dal fatto di non poter non pensare. Allo stesso modo che non si può smettere di respirare. Anzi: il respiro lo possiamo trattenere, per qualche momento. Il pensiero no. Anche il “vuoto” cui aspira chi pratica la meditazione è in realtà un concetto. Un altro pensiero, insomma.
E il problema è che “il pensiero è rigorosamente inseparabile da una melanconia profonda, indistruttibile”. Perché? Per le dieci (possibili) ragioni, appunto, che ognuno dei dieci capitoletti che formano il libro chiariscono. Ogni lettore è libero di riconoscere quella che più gli sembra convincente. L’ottava per esempio: “impossibile sapere al di là di ogni dubbio che cosa stia pensando un altro essere umano (…) In ultima analisi, il pensiero ci rende estranei l’un l’altro. L’amore più intenso è una negoziazione, mai conclusiva, tra solitudini”. O la decima: “La padronanza del pensiero, della velocità perturbante del pensiero esalta l’uomo al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. Ma lo lascia straniero a se stesso e all’enormità del mondo.”

Attenzione però: questa “tristezza”, questa condizione riassumibile nel fatto che “siamo stati creati, per così dire, rattristati”, “è anche creativa. L’esistenza umana, la vita dell’intelletto, significa un’esperienza di questa melanconia e la capacità di superarla”.
Come? Bichesel diceva che si raccontano, e si scrivono, storie proprio per fare i conti con la melanconia. Steiner non pare voler dare consigli. Offre “ragioni, appunto” e, se può consolare, ci assicura che nessuno, proprio nessuno sfugge alla fondamentale “pesantezza dell’animo” che il pensiero induce, perché “ciascun uomo, donna o bambino è un pensatore. Questo vale per un cretino come per Newton…”.

Come vivere in modo più confortevole, di Wisława Szymborska

Wisława Szymborska, Come vivere in modo più confortevole, Adelphi 2016, pp. 268, euro 14

“A Wisława Szymborska – ci informa il curatore – non interessava scrivere vere e proprie recensioni: da semplice «lettrice», infatti, non si sentiva obbligata a un incessante esercizio critico.” E allora, a prevalere è un confronto rapido, disinibito, con la materia e lo stile del libro che le è capitato fra le mani.

“Con il cuore stretto – ammette a seguito della lettura di un’opera, sia pur divulgativa, di fisica – ci accorgiamo che sterminate regioni del sapere contemporaneo sfuggono alla nostra comprensione. Ciò nonostante, in quel nostro cuore stretto coltiviamo l’antica ambizione a sapere tutto, sia pure a grandi linee.”
Non diversamente, quando si imbatte nel fisico in carne ed ossa deve riconoscere che “aveva genio, talento e attitudini.” Sennonché “il suo genio sono in grado di apprezzarlo soltanto gli specialisti. A noi, infelici profani, non resta che farci un’idea del suo talento e delle sue attitudini”: talento musicale e letterario, sicuramente, ma “per non affogarlo nella melassa, bisogna riconoscere che gli fecero difetto due attitudini: una alla politica, l’altra al matrimonio”. “Un misto di grande perspicacia e di ingenuità quasi infantile” nei giudizi politici di questo grand’uomo, che “si sposò due volte, ma sarebbe stato meglio se non l’avesse fatto”.
Ma non sono solo scienziati e letterati, storici e pittori che la poetessa incontro in queste sue letture, ci sono anche attori, come il nostro Mastroianni, che “riusciva a essere comico e struggente al tempo stesso”. Perché allora non immaginarlo in una parte che non ha mai recitato? “Un’idea folle: Mastroianni nel ruolo di James Bond. Avrebbe potuto venirne fuori un fiasco. O magari il film comico più divertente della stagione…”.
La riconosciamo in pagine come queste, Wisława Szymborska: la stessa ironia corrosiva, e sempre umanissima, che i suoi versi ci hanno reso familiare.

La normalità del male

Pierre Lemaitre, Tre giorni una vita, Mondadori 2016, pp. 228, euro 18

Non tutti conoscevano il bambino scomparso nel bosco, probabilmente assassinato, ma “la sensazione era che fosse il fratello minore di ogni ragazzino come era già diventato il figlio di ogni adulto”: immedesimazione con la vittima? solidarietà con i genitori?

No, solo il piacere inconfessabile di poter godere di un diversivo, di una rottura della monotonia della vita che si conduce a Beauval, una cittadina francese come tante, dell’eccitazione diffusa da voci che in men che non si dica si rivelano del tutto infondate: perché “le dicerie sono una salsa complicata, o viene o non viene”; dipende più dalla considerazione di cui è circondato chi le sparge che dal loro contenuto di verità. Quello che conta, nella cittadina, è poter “pregustare di ritrovarsi unita nel dolore”.
Ma il lettore lo sa, il nome del colpevole, fin dall’inizio: un altro bambino. Non un mostro. Un bambino che non voleva fare quel che ha fatto: è la sua, la voce narrante, è attraverso i suoi occhi che vediamo i fatti. La sua paura di essere scoperto, con i momenti bui della disperazione e le schiarite inaspettate quanto effimere di speranza, sono la costante che ci rende partecipi della vicenda e ci fa proseguire la lettura. E via via conosciamo gli altri personaggi, a partire dalla madre, “cresciuta e vissuta in una cittadina di vedute ristrette dove si osserva e si viene osservati nello stesso tempo, dove l’opinione degli altri è un peso schiacciante”.
Come in certi film, la storia è segnata da una cesura netta: gli anni sono passati, il protagonista ha fatto a tempo a diventar grande, senza che nulla sia trapelato: “ora che era adulto il carcere non lo spaventava più, il suo terrore era il clamore mediatico”, “tutti avrebbero adorato quel fatto di cronaca perché ognuno, in confronto a lui, si sarebbe sentito meravigliosamente normale”.
Sarà questo che accadrà? o nessuno mai scoprirà la verità e lui la farà franca? Né l’una né l’altra… Ma, giunti alla fine, si ha l’impressione che la verità, nella sua sostanza, si fosse già rivelata: in quella meravigliosa normalità.

Apocalittici e integrati 2.0

Filippo La Porta, Indaffarati, Bompiani 2016, 180 pp., euro 12

“Altro che sdraiati!” Anche La Porta basa il suo discorso sull’osservazione dei propri figli, ma a differenza di Serra (Gli sdraiati, Feltrinelli 2013) arriva a conclusioni diverse: “le nuove generazioni danno più peso all’esperienza che all’erudizione”, all’etica vissuta e non alle idee astratte”.

“Non sono per niente apatici e intellettualmente pigri. Casomai “indaffarati”, anche se leggono meno, molto meno di chi – come i loro genitori – appartengono “all’unica generazione nella storia umana che ha letto più dei padri e più dei figli”, ma non possono sfuggire al sospetto “che la lettura sia stata anche un surrogato dell’esistenza”. Al contrario, “i nostri figli, o meglio una parte di essi, provano a vivere alcune delle cose che la nostra generazione ha solo teorizzato”. E dunque sono indaffarati, apparentemente divaganti, in realtà tesi a distinguere quel che è davvero credibile (non solo ideologicamente coerente) nei discorsi e nelle azioni degli adulti.
Già lette cose del genere, viene da pensare. Ma qualcosa di nuovo c’è. Lontano dal lucido pessimismo di Raffaele Simone (La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza 2006), La Porta può semmai richiamare l’ottimismo provocatorio di Baricco (I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli 2013), soprattutto quando se la prende con i “giovanologhi” e il loro moralismo (da Galimberti a Benasayag allo stesso Serra).
Eppure, c’è altro in queste pagine, che ha il sapore della constatazione onesta, dell’osservazione ineludibile, come quella sulla “segreta complicità tra lettori bulimici – che vanno ben oltre i lettori forti, beniamini degli editori e dei librai – e non lettori”, accomunati dal fatto che, pur in maniera opposta, “fuggono la lettura come qualcosa che può trasformarli e, entro certi limiti, disturbarli”. Campioni, purtroppo non isolati, di una cultura priva di relazione con l’esistenza. Come non essere d’accordo? E allora vale la pena di prenderlo per quello che è, e dichiara di essere, questo libro: “Un azzardo antropologico (che) contiene una ipotesi non disperante sul presente (e sul futuro)”, l’ipotesi che il legame con la tradizione culturale non sia irreversibilmente compromesso, ma esposto “a un oscuramento solo provvisorio”, affidato “a una trasmissione inedita, a una consegna spiazzante ma forse temporaneamente necessaria”.
Del resto, “la teoria di un continuo regresso può essere persuasivamente dimostrata almeno quanto la teoria speculare del progresso”, conclude La Porta.
E dunque, “fino a che punto non ci troviamo di fronte a due facce di uno stesso problema“? Ma questo non è La Porta, è Eco, quello di Apocalittici e integrati (1964). Un libro che, curiosamente, non compare nella bibliografia finale.

Altri tempi

Ermanno Cavazzoni, Gli eremiti del deserto, Quodlibet 2016, pp. 142, euro 14

Si possono mettere insieme “sette lezioni” ed enumerare quarantanove casi di scrittori inutili; si può scrivere una Guida agli animali fantastici, o una Storia naturale dei giganti: perché non le vite degli eremiti del deserto?

Una delle tante tentazioni cui Cavazzoni aveva del resto già ceduto venticinque anni fa quando ci aveva raccontato di quelle di Girolamo, ritiratosi “nel deserto siriaco portando con sé in eremitaggio tutta una biblioteca”, per poi rendersi conto “un bel giorno che queste letture, queste isole di paradiso, erano un’ulteriore tentazione…”.
E allora occorrono forse anche libri che non solletichino la nostra smania e avallino la nostra illusione di capire, il nostro desiderio di identificarci in personaggi che sono o ci piace credere migliori di noi: libri fatti per accettare con curiosità leggera la sterminata varietà delle vite che gli uomini possono vivere, e lasciare che un’ironia svagata semini il dubbio della loro sostanziale equivalenza.
Non sono dunque eroi questi eremiti: sono persone scrupolose, questo sì. Metodiche. Cocciute la loro parte. Un po’ fissate. E soprattutto amanti della solitudine. Favorite comunque – c’è da dire – dall’epoca (fra il terzo e il quinto secolo dopo Cristo): “un’epoca in cui questa fuga era possibile. Oggi un eremita non saprebbe più dove andare; non ci sono più luoghi senza proprietario e senza Stato che li controlli; un eremita oggi sarebbe soggetto al fisco”. Non correva questo rischio Antonio, sprofondato nel deserto più dimenticato, capace di resistere non solo quando il diavolo “si travestiva da donna e imitava una donna in tutti i modi possibili”, ma anche di restare insensibile al “ricordo dei soldi e della ricchezza”, alla “voglia di farsi notare e di mangiar bene”. E proprio per questo, si badi, “benvoluto da tutti”, ammirato e famoso… Già, era un’altra epoca.

La vita che si ha

Zeruja Shalev, Dolore, Feltrinelli 2016, pp. 288, euro 18

“Ad assordarle le orecchie non era stata la potenza dello scoppio, bensì un altro suono, più profondo e terribile: quello provocato dal repentino addio alla vita di decine di passeggeri sull’autobus, il lamento di madri che lasciavano degli orfani, l’urlo di ragazzine che non sarebbero mai diventate adulte (…) il gemito di membra amputate, gambe che non avrebbero mai più camminato, mani che non avrebbero mai più abbracciato…”.

Un attentato, a Gerusalemme, ha segnato la vita della protagonista, madre moglie lavoratrice che scopre, quando a distanza di anni rincontra l’uomo amato in gioventù, di essere sempre stata “asservita a un tiranno crudele, il passato che gettava la sua lunga ombra sulla sua vita”.

Dialoghi fitti, eventi inaspettati, paesaggi urbani disegnati con pochi tratti: il tutto filtrato dallo sguardo di lei, dai suoi pensieri, dall’andirivieni della sua memoria. E solo alla fine – non è uno di tanti romanzi, questo, la cui trama si sfilaccia nella seconda metà e chiedono al lettore di imporsi il dovere di arrivare in fondo – si rende conto di “essersi sempre rifiutata di dedicarsi” al presente. Lei, tanto attiva, sinceramente dedita agli altri, “ha cercato di dominarlo, con tutti i suoi progetti, mentre adesso il presente le dice: non sono l’eco dei ricordi passati, non sono il ponte per i progetti futuri, sono tutto quello che hai, la sostanza della tua esistenza, dammi fiducia perché non hai altra scelta”. E questa fiducia, Iris Eilam – incerta, combattuta – la dà: “il passato si è aperto, sente tutt’a un tratto, sarà l’occasione di aprire la caverna soffocante e maledetta del passato, e mescolarne il contenuto con il sole e il vento e le voci del presente?” Un’ occasione che alla protagonista – ma forse a tutti, e mai troppo tardi per esser raccolta – si rivela nella possibilità di “amare la propria vita per quello che ha e non per quello che non ha”.

Prediche utili

Salvatore Settis, Costituzione. Perché attuarla è meglio che cambiarla, Einaudi 2016, pp. 336, 19 euro

Libro utile, necessario. Utile in vista del referendum istituzionale di ottobre. Necessario indipendentemente da quello. Perché l’attacco alla Costituzione, il suo sistematico smantellamento non è cosa di oggi (il confronto – cui l’autore ci invita – tra la riforma Renzi-Boschi con il “piano di rinascita democratica” della P2 risulta a dir poco inquietante, quello con il progetto di revisione costituzionale di Berlusconi avvilente).

Viene da lontano e non ha di mira soltanto il cambiamento della natura e della funzione delle massime istituzioni: l’attacco è avvenuto e avviene su molti fronti, come gli articoli qui raccolti testimoniano e argomentano, dall’impostazione culturale e organizzativa della scuola alla tutela dei beni culturali, dalla gestione del territorio ai diritti dei lavoratori.

Non di oggi, e neanche soltanto scelta strategica del governo attuale: critiche e insofferenze, “aggiornamenti” letali e volontà demolitorie sono il frutto inevitabile di una generale progressiva soggezione della politica nei confronti dell’economia (quella finanziaria, non quella reale), della sudditanza (spacciata per decisionismo ed efficienza), dei governi nei confronti dei “mercati” e delle istituzioni sovranazionali, mondiali o europee che siano, che sfuggono a ogni logica di controllo democratico. E non si tratta di un’interpretazione tendenziosa: è una potente società finanziaria, la J.P. Morgan, a formulare – con riferimento agli stati della “periferia meridionale” – l’invito a modificare le costituzioni in modo da dare maggior potere ai governi rispetto ai parlamenti: giunge il 28 maggio 2013; di due settimane dopo è la presentazione della legge di riforma della Costituzione italiana in cui si sancisce l’inadeguatezza di quella vigente ad “affrontare le nuove sfide della competizione globale”.
Libro utile, necessario: per non confondere – quale che sia la scelta – il referendum cui saremo chiamati con un plebiscito sul capo del governo; per esser capaci di guardare oltre, di mantenere lo sguardo lungimirante (“presbite”, diceva Calamandrei) che ebbero i costituenti; per opporre alla disinformazione anemica dei telegiornali, e a quella premeditatamente sovreccitata dei talk show, una conoscenza simile a quella che favorirono le campagne di “alfabetizzazione costituzionale” che in Italia furono organizzate mentre si redigeva la Carta.

L’ombra dei grandi

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L’ombra, il lato oscuro che nascostamente agisce anche nei creatori di opere immortali, è il tema che attraversa, in forme diverse, i tre racconti: una considerazione di sé che mina la relazione con gli altri, costringendola inconsapevolmente entro i riti ripetitivi e ambigui della seduzione; l’inibizione che impedisce un reale scambio d’amore, rivelando una segreta e radicata vocazione all’infelicità; un’immagine del femminile nella quale si confondono gli spettri contraddittori e perturbanti del materno.
Sennonché, quella stessa ombra che sembrava poter offuscare il profilo dei protagonisti si rivela nello svolgersi della vicenda come una componente del loro stesso potenziale creativo, aspetto  essenziale del loro genio, elemento che concorre a definire la cifra inimitabile dell’arte di Johann Wolfgang Goethe, Adalbert Stifter, Gustav Klimt.
Oltre a quella dei tre grandi, un’altra decisiva presenza che anima e lega fra loro queste storie è quella del Garda, un lago capace di suscitare negli estimatori che raccoglie attorno alle sue rive “un’affezione tale da sfiorare la devozione”.

Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dai tre racconti:

da La Finestra sul lago:

attersee

È davanti al paese, sotto il sole. Mi pare di vederlo.
Fa caldo ma l’arietta che vien giù da Riva non lo fa sentire. E non è forte da far agitare le acque: il lago è calmo, la barca sta ferma come fosse in secca.
Lui guarda la costa, quel gran monte che c’è sopra, e il paese: a occhio nudo. Poi prende il binocolo. Si concentra sulle case di Malcesine, il porto, le vele gialle dei barconi. Comincia, forse, a sentire qual è il pezzetto che gli interessa ritagliare in quel paesaggio.
Perché di questo sentiva il bisogno. Come ogni estate, ma tanto più in questa: aveva appena terminato di dipingere quel gomitolo – non saprei come dire – di corpi che non si sa se appartengano a più donne o a una sola, e gli sembrava di avervi guadagnato una serenità che non si era invece saputo concedere in quell’altra tela, che aveva ancora sul cavalletto. Anche in quella un groviglio di corpi, di entrambi i sessi, ma a osservarli c’è la Morte.
In tutt’e due, comunque, un tempo che scorre per tornare sempre su se stesso: che la Morte sia lì a spiare il suo momento oppure che resti nascosta. Ma qui no: nelle luci e nei colori dell’acqua, del paese, del monte, nei profili delle cose che han fatto gli uomini come di quelle che non sono stati loro a fare, il tempo si può sospendere. Basta entrarci, nel paesaggio: avvicinarlo, e così appiattirlo, ridurlo a due dimensioni, per estrarne un quadratino. Per inquadrarlo, appunto. Facendo sempre attenzione a escluderne l’orizzonte. Doveva restare fuori del quadro, non lo si doveva vedere. Quel limite che può far sognare altrove insperati ma che condanna anche a non esser mai soddisfatti del luogo in cui si è, e dunque a non esserci mai, interi.
Ed eccolo qui allora, fermo sulla sua barca, anch’essa sospesa, fra il cielo e la profondità delle acque su cui è posata. Scorre le lenti su quel che vede, come se di lì, e non da una sua decisione, dovesse emergere, staccandosi dal resto, la parte che le sue matite e poi i suoi pennelli ritrarranno. Ecco, appunto: trarranno, tireranno fuori da quel che c’è intorno.
È in quel momento che vede un brillio, a una finestra…

da Vertigine:

milanollo

Due sorelle è il titolo del breve romanzo che Adalbert scrisse ventitré anni fa. Aveva allora quarant’anni precisi, ed ora non è più. La sua vita, giunta ai sessantatré, non ha più avuto domani. Per sua stessa risoluzione.
Solo ora mi sono deciso ad evocare la vicenda da cui il racconto di Adalbert prese origine, e così facendo mi pare d’aver dato voce al presentimento che, sull’onda del senso di congedo che pervade quelle pagine, era affiorato in me sin dalla prima volta che le avevo lette.
Ma sopra tutto mi sono liberato del peso che mi gravava per avergli promesso di serbare il segreto che avvolge quel suo racconto. Un racconto che mi è sopra tutto caro, a dispetto che molti l’abbian ritenuto ineguale ai risultati che l’arte di Adalbert talora raggiunse. Di contro, altri – da contarsi tra gli estimatori del lago che nella narrazione compare e che notoriamente ha il potere d’attrarre su di sé un’affezione tale da sfiorare la devozione – tengono in gran conto quest’opera. Non tanto per il suo valore tuttavia, ma perché fondatamente ritengono miracoloso, ed enigmatico, che l’autore abbia saputo trasfondere nella pagina la bellezza ineffabile di quei paesaggi pur senza averli mai veduti. (…) Ebbene, occorre innanzitutto sapere che l’amico grazie
al quale Adalbert sostiene – nel Prologo al suo scritto – esser venuto a conoscenza della vicenda, altri non era che il sottoscritto, Alois Sauer (anche se le regole della finzione consigliarono al narratore di celarmi sotto il nome di Otto Falkhaus). Ma di più, e qui sta il segreto di cui dicevo: non fui affatto io a raccontare a Adalbert quel che era avvenuto laggiù, essendo che quel che in realtà io feci fu semplicemente di accompagnarlo in quel viaggio, dato che lui su quel lago ci andò, ed io non fui che il testimone di quel che là accadde, ossia del suo repentino mutamento di volere, d’un improvviso tornar sui propri passi che mi sorprese ma al tempo stesso non poté risultarmi nuovo del tutto, avendo io a lungo frequentato l’uomo.

da Beniamini della vita

castello

Sul finire dell’estate del 1844, giunto al ventisettesimo anno della mia vita, sull’onda del mio amore per l’opera di Johann Wolfgang Goethe e in ispecie della mia lunga frequentazione del suo Italienische Reise – la cui prima parte era stata pubblicata nell’anno stesso in cui vedevo la luce – presi la risoluzione di andare, da Verona, la città nella quale risiedevo, al paesello di Malcesine, sulla sponda orientale del Benaco. Non mi era sconosciuta quella plaga, e in quello stesso paese mi ero recato altre volte, senza mai tuttavia darmi ad una metodica perlustrazione dei luoghi che il Poeta aveva percorso. La speranza d’incontrare alcuno che avesse conservato memoria di Lui, debbo ammettere, la vinceva sull’incertezza estrema che ciò riuscisse possibile,
stante che erano trascorsi ormai quasi sei decenni da quando Goethe era stato là. L’esser Lui scomparso solo dodici anni prima e, ripeto, la familiarità con la sua persona, guadagnata attraverso la lettura pressoché quotidiana dei suoi scritti, teneva viva tuttavia quell’aspettativa.
Avrei potuto giungervi anche per la via del lago, come Lui. Ma qualcosa, forse il timore d’una sorta d’irriverente emulazione, mi trattenne dal mettermi nella condizione di vedere il paese, e il suo castello, allo stesso modo in cui il Poeta li aveva potuti contemplare dalla barca, e fin ritrarre, prima che il vento contrario l’investisse costringendo i rematori all’approdo.


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Recensioni

Dal Corriere della Sera dell’11 agosto 2016.
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Da Giornale di Brescia del 27 settembre 2016.
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Da Bresciaoggi dell’8 ottobre 2016.
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Simoni illumina di parole «l'ombra dei grandi»

Il figlio del figlio, di Marco Balzano

Marco Balzano, Il figlio del figlio, Sellerio 2016, pp. 200, euro 13

Devono tornare giù, a Barletta, a vendere la loro casa, abbandonata da anni, da quando sono emigrati a cercar lavoro a Milano. E con loro, padre e figlio, decide di andare anche lui. Il figlio del figlio. Ormai diverso dal nonno e dal padre, e proprio per questo capace di vedere: la Storia, quella grande, nella vicenda della sua famiglia.

Una storia che starebbe tutta in una fotografia, se qualcuno l’avesse scattata: l’immagine di “tre uomini messi in riga a ricomporre il tempo”: “quello a sinistra si chiamava Leonardo. Era ancora analfabeta. È morto d’asma. Qui lo vedi seduto, ma in piedi era quasi uno e novanta. Grosso e forte come un guerriero. Era un contadino ma non aveva un pezzo di terra tutto suo, cosa che ha desiderato più di tutte. Si è fatto la seconda guerra in Sardegna, si è sorbito un bel po’ di fascismo da comunista ed è stato qualche settimana in prigione perché non ha mai preso la tessera. Il boom economico l’ha sbattuto a Milano insieme ai figli. Da contadino di pesche e ulivi è diventato operaio vicino alla Bovisa. Di fianco c’è Riccardo, il figlio. Anche lui è nato a Barletta, dove è rimasto fino a quindici anni. E’ venuto a Milano senza finire le superiori. Diplomato alle scuole serali, sposato e in un attimo padre. A vent’anni. Dicono che fosse molto taciturno. Era della generazione dopo la guerra. Pare che si trovasse bene a Milano e che non avesse più voglia di tornare a casa sua, che pure era sul mare. Faceva il perito chimico. L’ultimo, questo qui, è il figlio del figlio, Nicola. Il primo ad essere nato in ospedale. A essersi laureato. Non più un campagnolo inurbato, ma un insegnate di città. Un milanese…”

Una storia dura, ma lineare, una storia di emancipazione da secondo dopoguerra. La storia di una famiglia come tante. Ma intanto qualcos’altro è successo, qualcosa che la Storia non sembra saper registrare: “a tavola adesso si parla poco. Si commentano più che altro le notizie del telegiornale. (…) Mia madre sbuffa sempre, la pelle ancora chiara ma l’occhio vivace non si vede più. Non so se si sia spento alla fine della giovinezza o con le altre disillusioni che porta il tempo”.

Il tempo. E lì il problema. Lo sa il più vecchio, il nonno, che ha visto tutto e si è convinto che “è stato tutto troppo veloce per capirci qualcosa… e noi abbiamo dovuto essere vecchi e nuovi, e ci siamo ingarbugliati dentro”.

Favola nera dal vero

Claudio Morandini, Neve, cane, piede, Exòrma 2015, pp. 144, euro 13

La montagna, il bosco, la neve: Rigoni Stern, pensi all’inizio. Ma vai avanti, e il vecchio ti richiama un Rosso Malpelo sopravvissuto alle fatiche, e perché non un’altra figura di Verga, il Mazzarò della Roba? Ma neanche qui puoi dire di averlo capito, Adelmo Farandola.

Perché è vero che è tutto concentrato su di sé e sulle sue cose, ma i soldi che aveva se li è dimenticati in banca e non sa neanche più di averli, e quei pochi che tiene nella sua baracca sperduta sono solo il mezzo che gli permette di far provviste le rare volte che scende fino al paese. Per poi scordarsi, quando è alla bottega, di che cosa ci fosse andato a fare. Ma anche l’eco di un altro vecchio smemorato isolato fra le montagne, il signor Geiser dell’Uomo nell’Olocene di Frisch, si spegne presto: Adelmo non possiede alcun immaginario enciclopedico cui aggrapparsi per non perdere la memoria.
Però c’è il cane, un randagio che gli si è affezionato, e gli parla, dando voce a quel che di umano è rimasto in lui, soprattutto quando dalla valanga spunta un piede. Un piede umano. E qui il racconto si tinge di giallo: di chi è quel piede? Per un po’ crediamo di aver capito dove vuol andare a parare questo racconto. E invece no. Non è neanche un giallo alpino, questo racconto (ce ne sono: pur di scriverne, i giallisti sono arrivati anche in alta quota, vedi Faggiani e il suo forestale detective).
Tra i tanti echi di cui risuona e le molte tracce che semina e subito si perdono, Neve, cane, piede, alla fine si rivela una “storia vera”, a suo modo. Ce lo spiega l’autore, nella “Storia di una storia” con la quale in conclusione si è sentito in dovere di illuminare il lettore. E, si direbbe, giustificare anche di fronte a se stesso il fatto di aver immaginato questa favola pacata e feroce.

Spaesamento

Marco Revelli, Non ti riconosco più. Viaggio eretico nell’Italia che cambia, Einaudi maggio 2016, pp. 254, euro 20

“Prati incolti, trincee scavate come per una guerra abbandonata o forse solo sospesa”: “un deserto dei tartari nel bel mezzo del Nord intasati e asfissiato dal traffico”. E’ la BreBeMi: passa anche da noi il “viaggio eretico” di Revelli.

Le auto che riesce a contare fra Brescia e la Milano dell’Expo, sono settantasei, e “nei bar di Rudiano o Travagliato proliferano le leggende parametropolitane più fantasiose, dell’industrialotto che prima di cena celebra il rito della corsa in Ferrari sulla pista libera come fosse a Monza”. Ma la grande opera che l’Expo sembrava esigere è solo una delle occasioni per fare tappa lungo un itinerario che da Torino (“città promessa, città perduta”) arriva là, a Lampedusa, “il luogo geometrico in cui s’incontrano e si scontrano l’immensa ondata della speranza che si fa illusione e la dura risacca dell’avarizia che vira in ferocia”. Più che mai in questo libro la scrittura del politologo, dello storico, si fa letteraria: perché il suo proprio sentire è il documento più significativo che porta, la sensazione che prova di fronte alle cose che vede. Quella che cerca è la possibilità di esprimere in prima persona – «in soggettiva», per così dire – la dimensione della trasformazione che il nostro Paese ha subito in questo passaggio di secolo. O, più banalmente, un motivo (una misura?) del senso di straniamento. E, se possibile, un’uscita di sicurezza…”.
Quello che accade leggendo il bilancio di questo viaggio è un’impressione inquietante di condivisione di quel che prova l’autore: “la sgradevole sensazione che si appiccica addosso quando ci si trova a misurare l’irriconoscibilità dell’immediata prossimità. E di se stessi.” E non occorre un viaggio, del resto: si “Devo ammetterlo. Ho cominciato a perdermi nella mia città. O meglio, a non ritrovarmi.”
Eppure… Eppure, “non esco prostrato dal mio «non riconoscere» (…) Vedo piuttosto nell’irriconoscibilità del nostro presente l’occasione di una «sorta di smascheramento»”. Perché c’è verità nelle “travi rugginose, nelle finestre spente dei capannoni dismessi, nell’erba incolta dei vuoti industriali”.
E’ forse per questo che non finiscono di chiamarci, di chiederci di averli a cuore, di partire da loro per immaginare il futuro di una città nella quale tornare a riconoscerci?

Marco Revelli spiega perché voterà “no” al referendum sulla riforma costituzionale Boschi, Alba (CN, Italia), sala riunioni dell’hotel Savona

Un maestro senza terra

Britta Böhler, La decisione, Guanda, maggio 2016, pp. 208, euro 15

Tra il venerdì e la domenica mattina, dal 31 gennaio al 2 febbraio del 1936. Ci vogliono tre giorni, a Thomas Mann, per prendere la decisione, o meglio: per decidere di non far marcia indietro rispetto alla decisione presa quando ha portato alla redazione del maggiore giornale di Zurigo la lettera che segnerà per lui la rottura definitiva, irreversibile con la Germania ormai precipitata nel baratro nazista.

L’ha portata ma ha poi chiesto che si attendesse a pubblicarla. Ci deve pensare.
È al sicuro, ma in esilio, nella città svizzera: in Germania non tornerà mai più. Sta scrivendo la terza parte di Giuseppe e i suoi fratelli: anche Giuseppe è un reietto, “costretto a trovare una nuova casa in un paese straniero”. Ma per Mann non si tratta solo di spaesamento: per lui la rottura con il proprio paese rischia di tradursi nell’impossibilità di continuare a scrivere. Un bivio drammatico per chi è sempre stato convinto che tra la vita e la scrittura si debba scegliere e su questa convinzione ha fondato il suo lavoro quotidiano (avendo sperimentato come “si riesca a capire qualcosa di sé solo quando si scrive. I periodi in mezzo – tra un libro e l’altro – sono terribili”).
Viene da qui la tentazione di ritirare la lettera. Non semplice prudenza, ma ritorno di un pensiero radicato nel profondo: “uno scrittore deve creare, non agire”. La politica non fa per lui. Ma è anche vero che “chi non si oppone è complice”, glielo ricorda la figlia Erika, e del resto lui è diverso da Hesse, cittadino svizzero da anni, senza nostalgie per la patria. Ma lui no: lui è uno “scrittore tedesco”. Se non scrive per la Germania, se non scrive per quelli da cui soprattutto si aspetta il riconoscimento che motiva la sua scrittura, perché scrivere? “Che cosa gliene importa, di avere lettori in America e in Cecoslovacchia, in Spagna e in Giappone, se i suoi libri non possono più essere pubblicati in Germania?”.
Tra un the e una passeggiata con il cane Toby, un sigaro e una parola affettuosa della moglie Katja (quando potremo leggere i Diari di Mann in traduzione italiana?), lo scrittore comprende finalmente qual è la sua vera posizione. La Germania di cui è fatto, della quale non può fare a meno, non “è più lì dove il paese si trova geograficamente”: “dove sono io, lì è la Germania”.
Non resta che telefonare al giornale: la lettera sarà pubblicata. Non è una decisione imposta, e neanche autoimposta: è stata faticosamente guadagnata, costruita, passando attraverso riflessioni e bilanci che sono andati oltre le circostanze, non aggirando quesiti che stanno alla radice della scrittura: perché, e per chi, lavora uno scrittore? può scrivere senza un mandato sociale? può continuare a farlo senza che gliene venga un riconoscimento?

Inevitabile cercare risposte a domande simili, quanto impossibile trovarne. La soluzione, se mai, sembra star nell’ammettere un’oscillazione, un’ambivalenza insita nella figura sociale dello scrittore, nella pratica stessa del suo lavoro: “Omaggi e lauree ad honorem in fondo se li era guadagnati, ed era contento quando gli venivano tributati”, “sì, quel genere di cose lo rendeva felice, anche se spesso avrebbe preferito condurre una vita in silenzio e solitudine. Ah, nel mio petto – lo deve riconoscere– convivono due anime.” Eppure la sua scelta non può essere quella di Hesse, quella di “essere al tempo stesso dentro e fuori”: i tempi non lo rendono possibile. Ma lo scrivere sì, lo esige: senza la giusta distanza, non si scrive, o non si scrive niente di buono. E la distanza fra la Germania perduta nei meandri della follia nazista e quella che la “nobiltà dello spirito” può preservare si rivela alla fine in grado di rappresentare questa distanza essenziale. La scrittura è ancora possibile. Anzi: è necessaria.

Pic nic in terrazza

Sergio Claudio Perroni, Il principio della carezza, La nave di Teseo, maggio 2016, pp. 104, euro 15

Lei è una scrittrice, e quindi scrive, nella sua stanza. Ma non vive, o non vive davvero. O così il disincanto le fa sentire.
Lui è un pulitore di vetri, quelli delle finestre dei palazzi. E’ pieno di curiosità, di allegria, e quindi vive. Ma non scrive. Pulisce i vetri.

Lei dentro, al sicuro.
Lui fuori, sul piccolo ponteggio mobile che sale e scende lungo la facciata.
Roba da Hopper. Invece no.
Perché lei potrebbe vivere, lo scopre parlando con lui: da dentro a fuori. Scopre di non essere insensibile agli occhi di lui che la guardano, ai complimenti che rivolge a quello che lei scrive (lo stava leggendo ad alta voce, lei, ma lui, con quel mestiere, ha imparato a leggere le labbra e ha ascoltato anche se la finestra era chiusa).
E lui potrebbe scrivere, lo scopre parlando con lei: di pensieri e cose da dire ne ha, tante da tenerle testa in dialoghi arguti, leggeri, scoppiettanti.
Come in un film francese.
Lei non è più una ragazza, né una signora in vena di giovanilismo.
Lui non è un don Giovanni, né un artigiano che va per le case ad approfittatore di signore tristi.
Parlano e bevono insieme il caffè, mangiano biscotti.
Lei lo invita ad entrare, anche, e lui accetta. Ma non accade nulla.
Accadrà in un luogo neutrale: non la casa di lei. Né il trabiccolo sempre in bilico di lui.
Sarà un pic nic sulla terrazza del palazzo l’occasione. L’occasione di “un bacio che è come il prolungarsi di un respiro”. Fine.
Come in un film francese.

L’altra figlia di Annie Ernaux

Annie Ernaux, L’altra figlia, L’orma editore, 2016, pp. 88, euro 8,50

Chi segue questa autrice non troverà nulla di propriamente inedito in questo libro solo ora tradotto, ma non fosse che per questa pagina

“Racconta che oltre a me hanno avuto un’altra figlia e che è morta di difterite a sei anni”: “mio marito è diventato matto” quando ha trovato la figlioletta morta tornando dal lavoro.
Lo racconta a una vicina, la madre, e lei, bambina di dieci anni, è lì accanto: sente e finge di non sentire, anche quando la madre si riferisce a lei (“lei non sa niente, non abbiamo voluto rattristarla”), e conclude: “era più buona di quella lì.”
Questo il fatto: “quella lì, sono io”, ed è quella lì adesso, Annie, a raccontare: “non rimprovero loro niente. I genitori di un figlio morto non sanno ciò che il loro dolore fa a quello vivo”.
Un fatto che ha segnato la vita della scrittrice, non esclusa la sua vocazione letteraria, apprendiamo. Ma pu sempre un fatto privato, un pezzo di storia della sua famiglia, anche se la morte di una bambina non doveva certo essere un evento eccezionale quando il vaccino antidifterico non era ancora pratica diffusa. Sennonché il fatto non sta in quella morte, ma nel modo in cui se ne ha avuto notizia, e qui ritroviamo l’arte di Annie Ernaux di dare consistenza a ciò che è accaduto, a ricordi, a immagini del passato, facendone occasione per ricostruire un contesto sociale, una memoria collettiva, una mentalità diffusa; per continuare nell’opera di scrivere quell’ “autobiografia impersonale” di cui abbiamo letto nel suo Gli anni (del 2008, e dunque precedente questo racconto, scritto in forma di lettera alla sorellina mai conosciuta, uscito nel 2011).

Da: Annie Ernaux, L’altra figlia

“(… ) a fissarsi nella mia memoria è quel racconto che non avrei dovuto sentire, non destinato a me, indirizzato a quella giovane donna elegante che probabilmente lo ascoltava subendo il fascino delle disgrazie che si teme possano accadere a se stessi. (…) Il racconto che proferisce la verità e mi esclude.
A ripensarci, com’è possibile che, pur consapevole della mia presenza al punto da indicarmi, si sia lasciata andare a parlare di te? La spiegazione psicanalitica – grazie a uno stratagemma dell’inconscio mia madre avrebbe trovato il modo di rivelarmi il segreto della sua esistenza, e dunque sarei stata proprio io l’autentica destinataria del racconto – è, come al solito, allettante. E ignora la storia delle mentalità. Negli anni Cinquanta gli adulti consideravano noi, i bambini, come creature dalle orecchie trascurabili, davanti alle quali si poteva dire di tutto senza conseguenze a eccezione di ciò che riguardava il sesso, a cui si poteva soltanto alludere. E poi c’è un’altra cosa, della quale sono certa perché ho ascoltato spesso, in seguito, racconti luttuosi confidati da donna a donna, in treno, dal parrucchiere o in cucina davanti a una tazza di caffè, come memento mori in cui si sfoga tutto il dolore condividendolo nei dettagli, descrivendo con precisione le circostanze: una volta iniziato a parlare di te non poteva più fermarsi, non poteva non andare fino in fondo. Narrando della tua scomparsa a quella giovane madre, che l’ascoltava per la prima volta, trovava il conforto di una forma di resurrezione.”

Scrivere come Cornia

Ugo Cornia, Buchi, Feltrinelli, pp 96, euro 10

tutto finisce e non finisce mai di finire, ma sarà finito un giorno o non finirà mai
Le frasi spesso non hanno bisogno della maiuscola per cominciare, perché quella prima, anche se sembrava, non era finita, e infatti non c’era il punto, alla fine, e dunque non era una fine: ti viene da scrivere come Cornia se leggi Cornia. Se segui il suo discorso da un libro all’altro, perché anche i suoi libri non finiscono davvero. Si interrompono. E riprendono con la stessa voce: ti sembra che non si possa scrivere diversamente, che scrivere come hai scritto finora, scrivere come ti hanno insegnato – maestri, professori, e anche gli autori che hai letto, quelli che daresti non so cosa per scrivere come loro – ti sembra che scrivere come finora hai fatto o hai cercato di fare sia una finta, un rinunciare a dire la verità, un non tenerci davvero a stare attaccato all’essenziale che hai da dire, e che hai da dire perché così stanno le cose: in un universale e continuo smantellamento di tutte le cose.
Che poi, a ben vedere, le cose restano, sono loro che restano, che durano di più di noi. E così della vita restano le macerie: qualche mobile, qualche quadro, carte varie, e lastre. Lastre fatte non si ricorda quando ma che non butti via, che restano nei cassetti. Lastre di tuo padre, di tua madre, tue: un album di famiglia. Cose ma anche frasi, frasi fatte: non si è mai finito, o: sembra ieri o anche: che malinconia. Frasi come fili di una ragnatela micidiale a cui non si sfugge: un giorno anche la tua bocca sparerà un che non si è mai finito.
Cose, parole, che sono i documenti di un passato che non passa. E come potrebbe, visto che non sai capacitarti che la morte sia dentro la vita, ne sia parte: perché sempre, come sentimento personale, hai sentito la morte come cosa esterna che non ci centra niente con la vita, e non sei del resto meno incredulo se pensi alla nascita, alla tua nascita: c’è una cosa che fino a prima che nascessi tu non c’era, e invece dopo poco che sei nato c’è stata, quindi questa cosa per te sembrerà necessaria e normale, per sempre.
Più che sgomento, o rabbia, è incredulità quella che Cornia prova di fronte al succedersi degli eventi, al passare del tempo. Incredulità ma non negazione: resta un buco al posto di chi non c’è più, un grande buco, in un posto che prima non c’era. E dentro il buco cosa c’è? Niente. Niente di niente, perché la natura dei buchi è proprio di essere senza niente dentro. Intorno al buco c’era stato tutto quello che c’era prima, E invece dentro il buco non c’è niente.
No. Non è solo incredulità: è dolore. È il dolore. E forse l’unico modo per dirlo, oggi, è scrivere così.
Come Cornia.

Estreme conseguenze

Bruno Arpaia, Qualcosa, là fuori, Guanda 2016, pp 220, euro 16

Non è un day after, non è un terribile inatteso domani: è un oggi portato alle estreme conseguenze. Estreme ma prevedibili fin d’ora. Le conseguenze del cambiamento climatico si sono abbattute su un mondo che non le ignorava ma non le ha volute evitare.

Un mondo in cui tutti sono profughi: non solo i disperati che in proporzioni inedite abbandonano i paesi del Sud del mondo, ma anche i fortunati che ne abitavano quella porzione che chiamiamo Occidente e sono ora costretti anche loro a rischi e fatiche mortali nel tentativo di raggiungere i paesi più settentrionali dove esiste ancora l’acqua. E tutto ciò avviene nel magma di una irreversibile crisi di civiltà, anche questa annunciatasi da tempo, anche questa non contrastata davvero dai detentori della cultura: “sapevano di essere antiquati, di coltivare in estinzione, di amare cose che la gente ormai ignorava o disprezzava: il mondo intorno a loro andava da tutt’altra parte. Si riunivano, ne discutevano, organizzavano presentazioni di libri o conferenze, ma in fondo erano consapevoli che la loro era una battaglia persa.”
Non un’ennesima distopia proiettata in un futuro terrificante, questo romanzo, ma il tentativo di incrinare, oggi, lo stato di negazione nel quale viviamo: quel sapere e nel contempo non sapere, quel sapere che non si traduce in un fare. Spesso neanche in un dire, per il timore di apparire catastrofisti, di restare esclusi dalla corrente di una religione del progresso che senza porsi domande sui fini ciecamente domina il nostro tempo.

La scrittura è figlia del cammino

A piedi, di Paolo Rumiz. Feltrinelli 2012 (collana Feltrinelli Kids), pp. 128, € 12,00

Del rapporto stretto fra il passo (quello che si fa camminando) e il racconto non si stanca di parlare Rumiz … L’autore è ospite della libreria lunedì 16 maggio alle ore 17.30

Flaubert era dell’idea che non si può scrivere se non seduti. Nietzsche non la pensava così, convinto com’era che solo i pensieri nati camminando hanno valore. Ma anche quelli che si scrivono, soprattutto quelli, aggiungerebbe Paolo Rumiz. E forse ha ragione: quando si apre un libro per farsi un’idea non tanto di quel che dice ma di come lo dice se ne legge un passo, appunto, e del rapporto stretto fra il passo (quello che si fa camminando) e il racconto non si stanca di parlare Rumiz: Una storia raccontata in bicicletta è diversa da quella del viaggio a piedi. La prima è un mordi e fuggi mentre il viaggio a piedi è più introspettivo e complesso, tanto che si può sostenere che non esiste viaggio senza scrittura. L’andatura diventerà scrittura. La scrittura è figlia del cammino. Anche i pensieri, anche i ricordi nascono dal ritmo regolare dell’andare.
Anche l’ultimo dei viaggi che ci racconta in estate, sulla Repubblica, Rumiz l’ha fatto a piedi, da Roma a Brindisi lungo l’Appia perduta, ma la sua filosofia del camminare, del camminare scrivendo, ha voluto sintetizzarla in un piccolo libro: A piedi, il racconto della passeggiata di una settimana, da Trieste a Promontore (Premantura in croato), la punta estrema dell’Istria. Il libro è stato inserito nella collana per ragazzi (della Feltrinelli) ma è stato l’occasione per scrivere cose che mi sarebbe piaciuto da tempo dire anche agli adulti, assicura l’autore.