“Essere scrittori significa prendere coscienza delle ferite segrete…”

“Essere scrittori significa prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo dentro di noi, ferite così segrete che noi stessi ne siamo a malapena consapevoli, esplorarle pazientemente, studiarle, illuminarle e fare di queste ferite e di questi dolori una parte della nostra scrittura e della nostra identità.”

(Orhan Pamuk)

Il lavoro dell’accordatore e il mestiere di vivere

Miyashita Natsu, Un bosco di pecore e acciaio, Mondadori 2018 (pp. 209, euro 19,50)

 E’ la storia di formazione di Tomura, giovane di montagna che scende alla città per studiare e poi trovar lavoro. Ma è un ragazzo particolare: sente l’odore a lui ben noto del bosco quando si avvicina a un pianoforte, ed è per questo che di pianoforti si occuperà diventando un accordatore.

Un mestiere che lo terrà a contatto con “l’oggetto prodigioso che riesce a scovare la bellezza diffusa nel creato e a darle una forma che giunga alle orecchie”: pur essendo “uno strumento indipendente, con una sua propria personalità” ogni pianoforte capta la musica che è diffusa nel mondo, a patto che sia passato per le mani di un accordatore provetto. Solo allora potrà emettere “un suono di una limpidità luminosa e quieta, carico di nostalgia”, “dolce, fino a un certo punto” ma anche “pieno di severità e profondità”, “bello come il sogno, ma certo come la realtà”. Il buon accordatore si accosta al pianoforte come a una creatura viva, e quindi unica, ma deve anche tener conto del carattere di chi lo suonerà.

Ecco il punto: non si tratta solo di tecnica. Che si tratti di fabbricare dolci o di accordare pianoforti conoscere i segreti del mestiere non è tutto: Natsu come Sukegawa, l’autore di cui in questi appunti si è parlato lo scorso aprile (Le ricette della signora Tokue). Al pasticcere occorre il “sentimento” che lo porta a considerare i fagioli che cucina uno ad uno, ad ascoltarli; non diversamente  l’accordatore non può non sentire “respirare” lo strumento di cui si prende cura. Si tratta in ogni caso di una vicinanza, di una pietas per le cose inanimate che appare condizione di una compassione più vasta, di una capacità di stare nei panni degli altri e di comprenderli. Pianoforte, pianista e accordatore sono tutt’uno: chi prepara lo strumento cerca “il suono che più mette in risalto l’abilità del pianista.

Nessuno pensa all’abilità dell’accordatore. E va bene così”, perché “anche se è il pianista a ricevere gli elogi, non è nemmeno merito suo: il merito è della musica.”

Tomura osserva i suoi colleghi più esperti, si mette alla prova, apprensivo e appassionato. E capisce: che lo si suoni, il piano, o lo si accordi, occorre “sforzarsi ma senza sentire lo sforzo, con pazienza ma senza sentire di doverla esercitare. Quando si è consapevoli dello sforzo che si compie, esso finisce per essere solo un investimento che si vorrebbe veder ripagato.” Occorre andare oltre: “Se si riesce a non vedere lo sforzo come investimento, allora le possibilità aumentano oltre l’immaginabile.” E’ la sapienza che occorre a chi tira con l’arco, a chi medita, a chi semplicemente vuole vivere davvero la propria vita: “ L’uomo è un essere pensante, ma le sue grandi opere vengono compiute quando non calcola e non pensa”, diceva Eugen Herrigel (Lo zen e il tiro con l’arco, Adelphi 1987). Ma non è tutto: è necessario anche, perseguendo la perfezione, esser consapevoli che non la si raggiungerà, e dunque è “rassegnazione” che occorre, senso del limite.

Quando attraverso la sua esperienza Tomura capirà anche questo, potrà camminare sereno nel bosco di cui aveva sentito il profumo avvicinandosi a un pianoforte, bosco di pecore e acciaio, strumento che racchiude lana di pecora nella copertura dei suoi martelletti e acciaio nelle corde che attendono la mano dell’accordatore per raggiungere la giusta tensione e quella del pianista per connettersi alla musica che permea il mondo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

La malattia contagiosa della singletudine

Cristina Comencini, Da soli, Einaudi 2018 (pp. 168, euro 18)

 Dopo una trentina d’anni di convivenza si separano: tra Laura e Piero ad andarsene è lui; tra Marta e Andrea è lei.

Niente di strano: “Il nostro mondo è fatto di separazioni, di individui liberi e soli. Lo sarà sempre di più.” Ma perché? Le voci dei quattro personaggi si alternano nei capitoli, e mentre raccontano, più o meno consapevolmente propongono una risposta.

Può essere la paura della morte a suscitare il desiderio di andarsene: “una storia dall’inizio alla fine è la morte”. Ma anche la solitudine può scatenare la stessa paura: “La nostra vita mi pareva una costruzione invincibile, e la fine della nostra vita individuale una cosa semplice e naturale. Ora invece ho paura di morire. E’ la mancanza di felicità che mi fa venire paura della morte.” E se si trattasse invece di paura di vivere? se fosse una sorta di precauzione quella che induce a “non legarsi, a non vivere emozioni troppo intense”?

O forse non si tratta né dell’una né dell’altra cosa: al fondo della crisi della coppia c’è la coppia stessa, anche se sembra che a minare la sua unione possa essere l’usura della vita a due, fino al suo svuotamento, o all’opposto l’eccesso di condivisione…

Sta di fatto che la singletudine sembra diffondersi come una “malattia  contagiosa”: “le ditte ora fabbricano confezioni singole, uno di tutto”, gli arredatori studiano le condizioni che garantiranno il benessere a un singolo abitante della casa. Del resto, “la famiglia oggi è questo: genitori single con figli”. Ma, appunto, perché? che cosa ci è successo? Il fatto è che “forse non esiste proprio più la possibilità di essere un noi. C’è un io che incontra un altri io e restano sempre solo due io, punto e basta, anche se fanno figli e vivono un po’ insieme.” Poi… Poi ognuno per la sua strada, anche se, a ben vedere, non ci si lascia mai del tutto, mai davvero, e nessuno è vincitore, neanche quello che ha deciso lo strappo. Forse perché una donna lo sa, “si è la moglie di un solo uomo”. E lui, l’uomo? scoprirà di essere, anche lui, marito di una sola donna?

Domande che restano aperte, in un mondo nel quale “non c’è niente di più incongruo e antimoderno che amare una sola persona per tutta la vita”. E allora “L’essenziale è non avere una sola vita, non chiudere gli occhi con l’idea di una linea continua”…

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Le parole, e le cose, che contano

Maurizio Maggiani, Luigi Verdi, Sempre, Chiarelettere 2018 (pp. 176, euro 15)

Maurizio, lo scrittore non è credente (è un “anarco-mazziniano, se proprio deve darsi una definizione): “sono senza Dio – ribadisce -. Io non ce l’ho Dio. Ho due biciclette, non ho Dio”.

Ma fa lo stesso: “non sono cattolico, ma non per questo non ho diritto di accedere al sacro.” O ancora: “Io sono senza Dio, però sono cristiano”.
Luigi, il prete, è di quelli che non amano il catechismo: “non sopporto l’atteggiamento per cui a ogni domanda deve seguire una risposta. Sono convinto invece che in molte situazioni della vita sia importante abitare le domande, stare nella domanda”.
Aggiungi che lo scrittore, a detta del prete, “in quest’epoca di comunicazioni virtuali e frettolose, è un maestro del raccontare e l’incontro fra i due è assicurato. Di lì nasce un libro come questo, che “ha un precedente nella voce e nel racconto orale”. Un dialogo insomma. Il dialogo di due uomini che hanno fatto cammini diversi ma hanno una provenienza comune: la terra, le campagne e la loro miseria, ma anche l’attitudine che sapevano ispirare: la passione per la bellezza, la capacità di vederla ovunque, sempre. E sempre è la parola scritta su un muro che compare in copertina, a far da titolo al libro, perché “sempre è una culla, se ti metti lì dentro sei al sicuro. La parola scritta su quel muro rappresenta la materia dell’impossibile, la materia dall’assoluto, la materia dell’incommensurabile, la materia del sacro.” E’ così che procede questo libro, per illuminazioni, cui subentrano ragionamenti da cui germogliano altre illuminazioni, senza troppe preoccupazioni di coerenza: “Se hai fiducia in quello che dici, non è che devi spiegarlo troppo”, e dunque, “lettore, prendi tutto quello che abbiamo detto e dagli aria, fallo respirare, segui il suo respiro.” Segui i due amici come fossi seduto lì con loro – alla pieve di Romena, nel Casentino – convinto, come loro, che “un amico non ingabbia. Ti mette le ali”. Basta andargli dietro, e dire la tua: ne può venire un dialogo che è inventario delle parole che contano perché nominano le cose che contano, nella vita. Parole da trattare con rispetto, quale che sia il tuo mestiere: “Sarò sacrilego ma io quando la mattina mi metto al computer segno lo schermo [ci faccio il segno della croce] perché voglio avere coscienza che non sto scrivendo per me che magari ho l’ansia, io sto prendendo la parola che non è una mia proprietà. Io non sono padrone delle parole, sono ministro delle parole. Questa è la prima cosa. Un romanziere e un sacerdote devono segnarsi prima di cominciare la liturgia della parola, che sia un romanzo o che sia la lettura dei testi sacri.”

Non si può dar conto del divagare continuo di queste pagine. Solo pescare qualcuno dei passaggi che restano in mente a lettura conclusa: “Impara a lasciare le cose prima che le cose lascino te” (e viene in mente il Bianchi che abbiamo letto di recente, quello che parla di vecchiaia in La vita e i giorni, Il Mulino 2018). Oppure: “Preparare il cibo per offrirlo è un gesto da funzionario del sacro”, perché “il cibo è intimità, è qualcosa che diventa parte di te” e “Cristo – con l’Ultima cena – ha scelto proprio l’occasione migliore per chiudere.” L’Ultima cena, e tanti altri momenti del Vangelo: è anche una rilettura del Vangelo questo libro, una riappropriazione  dei suo momenti, dei suoi significati più umani.
E la morte? Non poteva certo mancare questa nel catalogo delle parole di Maggiani, che naturalmente ne trae una specie di racconto: “I malvagi spariscono, si disintegrano, si annullano nella spazzatura. I giusti vivranno per sempre. Guarda, Gigi, è morta la mamma di mia moglie, donna di carattere che te la raccomando, però evidentemente era una giusta perché dopo la sua morte io ho visto che cos’è la vita eterna. Ho visto la figlia appropriarsi della madre, si mette gli stessi vestiti, la ricorda nelle frasi, e lo fa in un  modo talmente familiare, in un modo talmente naturale che non è vero che non c’è più, c’è in mille cose, in mille occasioni della giornata.”
Non parlano, Maggiani e Verdi, di idee, ma di esperienze fatte. Esperienze vere però, perché occorre distinguere: “oggi in nome dell’esperienza hai mano libera per fare quello che vuoi. Sai, ho fatto un’esperienza del deserto, ho fatto un’esperienza con gli extracomunitari… tutta un’esperienza.” Come se la realtà fosse una “scena che attende il tuo ingresso”. Non è così: “tanto per cominciare chiedi permesso, prima di fare un’esperienza fermati un attimo e chiedi: permesso, posso?” Altrimenti “prendi e butti via, tocchi e non approfondisci mai niente…”.
Qualche mese fa Maggiani annunciava l’interruzione di Vivario, la sua rubrica sul Sole 24ore della domenica, dicendo che aveva da fare, doveva scrivere un libro: se è questo, ne valeva la pena.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Fratelli

Fratelli è il primo libro che ho scritto, nel 2007: solo uno dei racconti che lo compongono (L’esperienza) è stato pubblicato. Secondorizzonte – inaugurando la produzione di libri non solo nel formato cartaceo ma anche in quello elettronico – lo propone ora nella sua interezza nella forma del pdf e dell’epub, entrambi scaricabili gratuitamente.
Scrivere Fratelli ha significato per me vivere per la prima volta l’esperienza, sorprendente, di delineare personaggi e vederli acquisire poco a poco consistenza e autonomia: uomini e donne che si definiscono nella loro individualità e a un certo punto agiscono coerentemente con questa, quasi in forza di una necessità, come se chi ne scrive si facesse a tratti spettatore delle loro scelte.
Alla sorpresa è seguita l’affezione, e il desiderio che la loro storia non finisse con il racconto che li aveva visti protagonisti ma proseguisse, rimanesse in qualche modo aperta. Non solo: si è aggiunto anche il desiderio che non si disperdessero, e che, come questo libro li aveva riuniti, la narrazione potesse creare per loro anche un luogo nel quale fosse loro possibile conoscersi, consolarsi reciprocamente di quanto loro accaduto.
È così che, quando il lavoro di scrittura poteva sembrare concluso, sono nati il cortile e la casa che compaiono nelle prime pagine e nelle ultime. Non sappiamo come è nata la piccola comunità che ci vive, né se resterà unita. Quel che conta è che un’altra storia, Cortile, divisa com’è in due parti che racchiudono i cinque racconti, ci assicuri che la vicenda dei nostri personaggi è continuata e continuerà, mantenendo il segno che l’ha fin dall’inizio connotata: il segno che imprime nelle vite il rapporto coi fratelli. È questo il tema che unisce questi racconti: il rapporto tra fratelli, quella sorta di palestra della socialità a venire che si offre sin dalla prima infanzia alla maggior parte delle persone e lascia tracce spesso indelebili nel loro modo di instaurare in seguito le relazioni con gli altri, di individuarvi una fonte essenziale o invece un ostacolo perturbante sul cammino che costruire se stessi e la propria vita impone.


Il testo può essere scaricato gratuitamente, ma non modificato né riprodotto per usi diversi dalla diffusione entro una cerchia di lettori. Nel caso lo si voglia utilizzare per altri scopi si prega di contattare l’indirizzo info@secondorizzonte.it

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Quelli che seguono sono brani tratti da alcuni dei racconti

Da Viaggio al Marocco

(…) lì, sulla terrazza, c’era la pecora. Anzi, un montone, adulto. Aveva le zampe legate, era disteso su un fianco.
Il vecchio l’ha sollevato tirandolo su con una corda che finiva con un uncino. L’ha messo a testa in giù.
Noi eravamo col cuore in gola a vedere quel montone che gridava i suoi belati e guardava per terra. Sulla terrazza, in pieno sole.
Zac. Un colpo solo. Aveva tirato fuori un coltello lungo, da una tasca dei pantaloni, larghi, stretti alle caviglie, e gli aveva dato un colpo di taglio alla gola, senza metterci forza, sembrava.
Un lungo sospiro. Invece dei belati un lungo sospiro. E gli occhi adesso guardavano il fiume di sangue che sgorgava e inondava il terrazzo, perché la canalina che girava intorno alla terrazza non bastava a raccoglierlo. Un rivolo è sceso addirittura per le scale.
Poi il vecchio, con lo stesso coltello ha cominciato a togliere la pelle all’animale.
(…) Insomma, non so come dirti: non mi sembrava una morte violenta, ci credi? (…) Il montone non si era disperato. Non aveva fatto a tempo, dici tu. Certo. Però non era solo questo. Era morto con dignità, senza avvilirsi. Ecco. Senza doversi avvilire. E disperare. Io la carne la mangerò sempre, mi sa… anche tu? Appunto, non è questione di essere vegetariani. Però vederlo l’animale, vedere come succede che diventa… carne. Hai capito?
Be’ insomma, il papà dei ragazzi e il montone a me non sembravano la vittima e il boia. Mi sembravano due vecchi, che sanno tutt’e due come va a finire.

Da Gli artisti 

Il rumore delle barre incandescenti che escono dal forno, e come animali ancora vivi si lasciano guidare fino al treno di laminazione, e dopo non sono più la stessa cosa. Fredde, pesanti, rigide.
Adesso, da casa, qui in cima al paese, le sento, nel buio. La fabbrica è là in fondo. Non smette mai.
Io le ho viste. So che erano già morte anche quando si muovevano. Ero io a farle muovere. Schiacciavo il bottone che faceva girare i rulli, e loro obbedivano, lente, come animali che si trascinano perché li pungoli. Ma sono già andati.
Poi però sono venuto via dal laminatoio. Ero ancora vivo, io.
I suoni sono sempre quelli. Anche di giorno. Magari passano ore che ti sembra di non sentirli. Poi ti capita di sentirli di nuovo, improvvisamente, ma te ne dimentichi subito, di giorno. Invece la notte ti stanno addosso.
Succedeva così anche allora.
Tutto, qui, è rimasto come prima.
Anche se io sono stato via. Anni. Per anni sono andato e tornato.
In Arabia, nei pozzi di petrolio. A dormire con gente che non si capiva cosa diceva. Ubriachi. Che sognavano e gridavano nel sonno, e il giorno dopo gridavano ancora, anche da svegli, e non si capiva cosa dicevano.
E poi in Australia. A lavorare nelle vigne, come queste che ci sono intorno al paese. E le donne, che venivano da me e poi andavano, senza chiedere niente.
E intanto lui, Diego, era qui. Era rimasto qui, lui. L’artista, lo chiamavano tutti. Anche quelli di fuori: quando uno arrivava in paese chiedeva dove sta l’artista? L’artista? gli rispondevano: su, in cima al paese. E così anch’io adesso, e gli altri della famiglia, ci chiamano gli artisti. Anche se solo io faccio ancora delle cose, come faceva Diego.
Non capita più che chiedano dove sta l’artista. Però siamo gli artisti: tutte le famiglie hanno un soprannome qui. Questo dev’essere l’ultimo che è saltato fuori. continua a leggere

Fratelli di sballo

Leonard Michaels, Il club degli uomini, Einaudi 2018 (pp. 144, euro 17)

 “Club maschili. Gruppi femministi. (…) Mi venne in mente Socrate: il fatto che erano i suoi discepoli ad adorarlo, non la moglie. E Karl Marx, sempre in giro con Engels mentre Jenny stava a casa coi bambini.”

Sembra che le cose non siano cambiate. Non sono riunioni di donne quelle di cui si parla in questo libro (pubblicato per la prima volta quarant’anni fa, e non li dimostra), ma della serata di un gruppo di uomini che vorrebbero costituirsi in club per “raccontarsi tutto”. E ci provano. Raccontano storie della loro vita – senza registrarle, sapendo che le cose che si registrano va a finire che non si ricordano – e finiscono a parlare solo di donne, secondo uno schema che sembra imprescindibile: storie di ciascuno di loro, della moglie e dell’“altra donna”. E così, di storia in storia, alla fine non trovano di meglio che saccheggiare il frigorifero della casa, la casa dell’ospitante, e far fuori le provviste che sua moglie aveva preparato per il giorno dopo (in vista della riunione del suo gruppo femminista, guarda caso). Sembra che gli uomini, quando si trovano e, soprattutto, quando cercano di parlare di sé,  non sappiano alla fine che ricreare l’atmosfera spaccona, e – almeno nelle aspirazioni – trasgressiva, di quando erano adolescenti: “fratelli di sballo” dunque, anche se qui lo sballo è fatto più di cibo e di alcol che di canne. “Mi chiedevo se fosse davvero necessario parlare”, confessa il narratore, uno dei partecipanti: “pieno di cibo com’ero, ero anche pieno di spirito conciliatorio”. Immerso come gli altri in un raggiunto “spirito di fratellanza” che non è tuttavia per  nulla universale: “La fratellanza è esclusiva”. E’, tendenzialmente, branco. Sicché del clima di confidenza che circola si avverte la transitorietà, l’arbitrarietà, una fragilità che la rende sempre sull’orlo di trasformarsi nel suo opposto, nel sarcasmo reciproco, nell’aggressività gratuita. Si continua a parlar di donne, girando attorno al senso di una loro sostanziale alterità che si tende però a eludere, per riconoscere se mai la loro indispensabilità: “Quando c’è lei, non devo sforzarmi di vivere”…

E torna, lei. In una casa resa inabitabile dagli (allegri?) amici che per una lunga serata ne hanno fatto il terreno della prima sgangherata riunione di quello che immaginavano potesse diventare il loro club.
All’inizio degli anni Ottanta questo libro doveva lasciare l’amaro in bocca. E non è che oggi lasci un altro sapore. E’ che  ci si è abituati, almeno un po’, a storie nelle quali gli uomini, rispetto alle donne, non fanno bella figura.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

“Sarò sacrilego ma io quando la mattina mi metto al computer…”

“Sarò sacrilego ma io quando la mattina mi metto al computer segno lo schermo [ci faccio il segno della croce] perché voglio avere coscienza che non sto scrivendo per me che magari ho l’ansia, io sto prendendo la parola che non è una mia proprietà. Io non sono padrone delle parole, sono ministro delle parole. Questa è la prima cosa. Un romanziere e un sacerdote devono segnarsi prima di cominciare la liturgia della parola, che sia un romanzo o che sia la lettura dei testi sacri.”

(Maurizio Maggiani)

Il droghiere, la giornalista e il mandante sconosciuto

Britta Röstlund, Aspettando Monsieur Bellivier, Marsilio 2018 (pp. 363, euro 18.50)

Una Parigi poco turistica, abitata da personaggi che ne fanno un po’ una Belleville alla Pennac, quella di boulevard des Batignolles.

È lì che vive e lavora Mancebo, con la sua drogheria (ma siamo a Parigi, un negozio come il suo da noi – che delle drogherie abbiamo solo un ricordo, se abbiamo una certa età – si chiamerebbe minimarket).
Una Parigi del terziario avanzato invece, la Parigi della Défense e dei palazzi della finanza, quella dove si muove Helena, donna in carriera, giornalista impegnata. Ma la città è in ogni caso la Parigi di oggi, barricata contro i fanatismi, con i cimiteri ebraici sorvegliati a vista in previsione di possibili atti di vandalismo, e i militari per le vie a prevenire azioni terroristiche.
Che cos’hanno in comune, i due protagonisti? Niente, tranne il fatto che entrambi ricevono un incarico misterioso: Mancebo deve farsi detective, e spiare il dirimpettaio per conto della moglie; Helena, trasformarsi nella segretaria del Monsieur del titolo, che resta invisibile, ma tramite intermediari le ha assegnato il compito di rinviare le mail indecifrabili che le giungeranno.

Non solo Pennac, anche Auster aleggia su queste pagine: il droghiere, ogni giorno affacciato al suo negozio a osservare la strada, e la casa di fronte, ricorda Auggie Wren, il tabaccaio di Smoke (gran film, ma c’è anche il racconto: Esperimento di verità. Il racconto di Natale, Einaudi 2005), e quando poi gli viene il dubbio di essere lui a venir spiato da quello che doveva sorvegliare è la Trilogia di New York (stesso editore, stesso anno) a venire in mente. Non bastasse, l’identità di Bellivier e le motivazioni del suo comportamento è ancora a Smoke che rimandano, ma è meglio non dire il perché: quello di Britta Röstlund non è solo un romanzo piacevole e riposante, è anche una di quelle storie di cui è meglio non rivelare il finale. Finale nel quale, inutile dirlo, le storie del droghiere e della giornalista confluiranno e il misterioso mandante – Beckett e il suo Godot no, non c’entrano – arriverà.

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“C’è una scrittura femminile in me che mi fa cominciare così…”

“C’è una scrittura femminile in me che mi fa cominciare così: voci nella casa in vacanza, in ogni camera dormono due o tre bambine, coppie di adulti. Escono persone da ogni porta, costumi, ciabatte, magliette. Ci si prepara per il mare. (…)

E poi c’è una scrittura maschile, più razionale:

Un tempo le case erano abitate da molte persone, ci si litigava il bagno per stare soli, si malediceva la sorella che rubava la tua camicetta stirata, il libro, la penna, ci si affacciava alla finestra a fumare e restare nei pensieri. (…)

Questi due modi della mia scrittura: quello femminile, più intimo, in cerca di nuove sensazioni che sono ancora senza parole, e quello maschile, ereditato da millenni di cultura dei padri, si affiancano, si accavallano, armonici o in conflitto: sono entrambi io.”

(Cristina Comencini)

Aggiungere vita ai giorni

Enzo Bianchi, La vita e i giorni. Sulla vecchiaia, Il Mulino 2018 (pp. 138, euro 13)

“Per chi crede…”: l’avvertenza ricorre nel discorso, sommessa, come un distinguo doveroso ma che non suona mai come consiglio a conversioni tardive né come segnalazione di un vantaggio acquisito.

Il credente la vede certo in modo un po’ diverso, ma sa anche che i dubbi, con l’età, crescono, e dunque…
La vecchiaia è vecchiaia anche per chi crede che la fine non sia fine del tutto. O meglio: tutti hanno la loro vecchiaia, tutti – quelli che ci arrivano – si trovano ad “addentrarsi in un paese straniero, in una terra di cui conosciamo solo poche cose”. E dunque, più che della vecchiaia, “occorrerebbe parlare di invecchiamenti, di processi molteplici e diversi nei quali le vecchiaie sono vissute”, ricordando sempre che “a ogni tappa della vita l’uomo giunge come un novizio”. E che cos’ha da imparare allora, giunto ai suoi ultimi anni? Che “è tempo di trovare tempo”. Lo dice il Qohelet, ma anche la saggezza orientale che Jullien ci ricordava in Una seconda vita (Feltrinelli 2017, in questi Appunti lo scorso 31 dicembre). E trovare il modo di darsi tempo fa tutt’uno con l’imparare “l’arte di lasciare la presa”, con la capacità di smettere di pensare di dover fare ancora qualcosa di decisivo nonostante le energie, e le motivazioni stesse, non siano più quelle del passato: “non sono libera di progettare, sono libera dal progettare”, constata Rossana Rossanda (Questo corpo che mi abita, Bollati Boringhieri 2018).

Ma un conto è dirla, dirsela, questa verità, un altro metterla in pratica: ad ogni passo sorgono resistenze a farlo, il passo indietro. Perché? Perché non si è capito e ci si ostina a non capire che si è, si è stati, di più di quel che si fa e si è fatto. E’ questo il passaggio vero che l’invecchiare impone: farsi persuasi che “si può diventare vecchi e vivere trovando senso senza restare fino all’ultimo aggrappati a quel che si faceva”. Il che non implica affatto cancellare il passato, ma anzi tornarci sopra, rivisitarlo dal punto di vista nuovo che l’età può offrire, perché “la vita – sosteneva García Márquez – non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.
Detto tutto ciò, occorre riconoscerlo: diventare vecchi oggi è più difficile di quel che era ieri, nelle campagne in cui Bianchi è stato giovane per esempio, se non altro perché allora era a disposizione di tutti un metodo per prepararsi alla vecchiaia, un metodo molto semplice: stare vicino ai vecchi, misurare di persona l’esperienza della vita nella sua ultima stagione. Il contrario di quanto avviene oggi, non occorre dirlo: “grama la vita per i vecchi, comincio a sperimentarlo – conclude Bianchi – anche se resisto e lotto perché voglio vivere la vecchiaia; non aggiungere giorni alla mia vita, ma aggiungere vita ai miei giorni.”.

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Fra Dostojevskij e Čechov

Leonardo Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi 2018 (pp. 191, euro 13)

Georges Simenon, Il fiuto del dottor Jean e altri racconti, Adelphi 2018 (pp. 163, euro 12)

Georges Simenon, Il fondo della bottiglia, Adelphi 2018 (pp. 176, euro 18)

A fine anni Trenta Simenon aveva già firmato col proprio nome le sue prime storie di Maigret,  abbandonando lo pseudonimo che aveva usato per qualche tempo.

Il commissario aveva ormai iniziato la sua carriera, e dunque perché inventarsi questo dottor Jean? Solo perché lo scrittore si stava facendo una nuova casa nella Charente Maritime, sopra Bordeaux, e non sapeva starsene con le mani in mano e perciò non trovò di meglio da fare che scrivere del giovane medico in servizio, appunto, in quella regione? Probabile, vista la sua prolificità irrequieta, ma doveva esserci dell’altro. Forse il bisogno di mettere al mondo il dottore detective – non come esperimento preparatorio, ma come figura parallela – rispecchia un momento in cui Simenon non ha ancora del tutto deciso se il suo personaggio sarà quello dell’investigatore che pensa e deduce, come Jean appunto, interessato al proprio gioco  intellettuale più che agli uomini protagonisti della vicenda su cui indaga, o invece un altro: un uomo che non pensa, e però “vede, soltanto vede”. Ma questo è Maigret: “Io non penso mai”, confessa a volte il commissario. Ma allora cosa fa? Cerca di ragionare come i sospetti; cerca di capirli nella loro umanità, prima che nei loro moventi. A ben vedere, questo modo di fare non si può dire sia del tutto estraneo al dottor Jean, un po’ Sherlock Holmes, o forse meglio: Hercule Poirot, ma un po’ anche Maigret: “Gli altri, il sostituto, il commissario, brancolavano nel buio, e – pensava il dottore – non poteva essere altrimenti, perché era così che funzionava in una inchiesta poliziesca. Perché sbagliavano metodo! Lui, invece… Che metodo aveva usato in realtà? Non avrebbe saputo precisarlo, ma lo sentiva. Si metteva nei panni di…”.

Il percorso di uno scrittore è fatto anche di questi momenti di indecisione, o di messa a punto del carattere del suo personaggio, soprattutto quando di un grande scrittore si tratta, come Sciascia sostiene, sulla scorta di Alberto Savinio che riteneva Simenon un “Dostojevskij mancato”. Salvo poi precisare, Sciascia, che Simenon non tanto in Dostojevskij si riconosceva, ma in Gogol e in Čecov, vale a dire, secondo lo scrittore siciliano, nello “scrittore che vede”  e nello “scrittore che ama”. “E il vedere gli uomini e l’amarli si possono considerare come qualità peculiari di Simenon: qualità che permettono allo scrittore di giungere alla verità dell’uomo così come a Maigret permettono di giungere alla soluzione del caso.” Il metodo di Maigret e la tecnica narrativa di Simenon sono quindi le due facce di una stessa medaglia: “Non c’è personaggio, nella letteratura contemporanea, che ami la vita e gli uomini quanto Maigret. Non c’è, dopo Čecov, scrittore che ami così profondamente, così minutamente, così religiosamente la vita e gli uomini quanto Maigret.”

Eppure, nella famiglia che incontriamo in Il fondo della bottiglia – un romanzo di Simenon di quelli senza Maigret, i “romanzi duri” come diceva lui stesso – e nel gioco aspro che si è instaurato fra i fratelli e alla fine esplode, un po’ di Dostojevskij c’è. Un Dostojevskij della borghesia ha detto qualcuno, non ricordo quale dei suoi lettori eccellenti (Gide, Montale, Benjamin…).

Il ricordo di quando erano bambini si mescola dolorosamente a una rivalità mai sopita nel rapporto fra Patrick Martin e Donald, ripiombato nella vita  del fratello, agiato possidente  in Arizona, senza esser mai uscito da quella travagliata della sorella. E’ il groviglio lacerante quanto insolubile in cui la relazione tra fratelli può tradursi al centro della narrazione, è l’odio più funesto, l’“odio fra consanguinei”, ad emergere nei loro dialoghi tesi e irrisolti, nei quali a prevalere alla fine, per entrambi, è un senso di umiliazione.

Si direbbe che in questo ancor più che in altri romanzi Simenon abbia dato fondo alla sua capacità di introspezione psicologica, con una partecipazione  ancor più viva che in altri casi: qualcuno ha intravisto una trama autobiografica nella storia di Patrick e Donald, la storia di Georges e di Christian, suo fratello minore, collaborazionista nel ’45, poi militare nella Legione straniera da cui non sarebbe più tornato a turbare la vita di lui, Simenon, nel frattempo trasferitosi, guarda caso, in Arizona.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

“Nella composizione ad anello, il narratore comincia a raccontare…”

“Nella composizione ad anello, il narratore comincia a raccontare una storia solo per interrompersi e riandare a un momento precedente che aiuta a spiegare un certo aspetto della storia che sta raccontando –, poi magari si spinge ancora più indietro a un momento o oggetto o episodio ancora precedente che aiuterà a capire meglio quell’altro momento di poco più vicino, e solo a questo punto ritorna pian piano al presente, al momento da cui si era discostato per fornire tutti quegli antefatti. (…) In questo modo un’unica narrazione, o addirittura un singolo passo, può contenere l’intera biografia di un personaggio.”

(Daniel Mendelshon)

“sono sicuro che quanto stava per accadere…”

“(…) sono sicuro che quanto stava per accadere [a Virginia] fosse connesso con la fatica di rivedere il libro e con la nuvola scura che invadeva la sua mente ogni volta che, chiuso un libro, doveva separarsene, quasi ci fosse un cordone ombelicale da tagliare, e lasciare che andasse in stampa e poi arrivasse ai recensori e al pubblico.”

(Leonard Woolf)

Riconciliarsi col passato, raccontandolo

Daniel Mendelshon, Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea, Einaudi 2018 (pp. 312, euro 20)

 “La nostra Odissea l’avevamo vissuta – per la durata di un semestre avevamo navigato insieme, per così dire attraverso quel testo, un testo che a me, seduto lì a osservare la figura di mio padre, sembrava sempre più relativo al presente che al passato”.

L’incontro tra un figlio e un padre, un incontro a lungo rimandato, che poi si realizza in circostanze imprevedibili per entrambi. Un corso universitario e poi una crociera.
Quanti romanzi sono usciti su questo tema in questi ultimi tempi, tempi di “evaporazione” del padre? (Giusto la scorsa settimana si parlava in questi Appunti di quello di Lewis). Qui però non sono state solo le inevitabili complicazione che attraversano ogni famiglia a dividere il genitore dal figlio, ma anche il fatto di essersi entrambi arroccati in punti di vista sul mondo molto diversi, ricercatore scientifico uno, scrittore e professore di letteratura l’altro. Ma è proprio un’opera letteraria il luogo dell’incontro. Jay Mendelshon, ormai ottantunenne, decide di frequentare il seminario che Daniel terrà sull’Odissea. Se l’autore avesse voluto far filtrare per allusioni e metafore l’analogia fra la loro vicenda e quella di Telemaco con Odisseo, e di quest’ultimo con il vecchio padre Laerte, il risultato non sarebbe probabilmente stato così convincente, e coinvolgente. Mendelshon sottolinea invece, esplicitamente, il parallelismo tra la vita sua e della sua famiglia e quella raccontata nel poema omerico, ci torna sopra ad ogni passo della narrazione, stimolato dalle osservazioni degli studenti e da quelle, spesso beffarde, del padre (poco propenso a vedere in Odisseo il grande eroe che si dice), in un andirivieni che mima la circolarità che governa l’esistenza umana ma anche il racconto. Entrambi dominati da un “andamento ad anello” che si realizza nei ritorni che le età della vita comportano e la memoria ordinariamente impone così come nei flashback e nei flashforward, nelle riprese di fatti passati e nell’anticipazione di altri non ancora avvenuti che l’arte del racconto contempla: “giunta esattamente a metà, l’Odissea compie un maestoso giro di trecentosessanta gradi su se stessa e, dopo tutto quel viaggiare, torna al suo punto di partenza”; da poco superati i cinquant’anni, l’autore recupera l’infanzia propria e insieme la giovinezza del padre.

Ma non solo: è l’intero romanzo – uno di quei romanzi che sono anche saggio –a seguire lo stesso modo di procedere offrendo un esempio concreto di “quella straordinaria tecnica narrativa capace di intrecciare presente e passato dilatando un episodio specifico nella vita di un personaggio fino ad abbracciare la sua intera esistenza”. Tecnica narrativa, ma anche arte del vivere: quel che l’Odissea ci dice è che “per poter avanzare nel futuro, bisogna prima riconciliarsi col passato”, ed è utile allora ricorrere alle storie, al racconto, perché “abbiamo tutti bisogno della narrazione per dare un senso al mondo.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Scrivere contro il tempo

Phillip Lewis, La montagna del padre, Bompiani 2018 (pp. 384, euro 19)

Una passione divorante di scrivere, in una famiglia in cui si pensa che non è quello il modo per guadagnarsi da vivere, in una cittadina in cui il pastore e i suoi parrocchiani bruciano i romanzi di Faulkner.

Eppure scrivere, di sé, della propria famiglia, cercando l’approvazione della madre, morta la quale scrivere non ha più senso. E’ la depressione, l’alcoolismo: lo spettacolo di “un’esistenza mancata offerto alla moglie e ai due figli soprattutto. Henry – lo stesso nome del padre – e la minore, Threnody, che ricevono dal genitore un’eredità fatta di centinaia di libri, che amano e leggono insieme, ma anche un sentimento angoscioso della caducità: “guardi all’indietro – scriveva il padre – e ti rendi conto all’istante di tutto quello che hai perso e non è altro che tempo e il tempo è vita. Ci sono ancora dei giorni che ti aspettano. Ti riprometti di fare un miglior uso di quelli che restano. E’ una bugia.”

Il racconto non segue linearmente lo scorrere del tempo: anche dopo che ha abbandonato la lugubre casa sulla montagna fuori dall’abitato, l’immagine del padre si ripresenta, le sue parole continuano a risuonare. Il tempo fugge e “ti ruba l’anima”, ma non impedisce al passato che si è vissuto di non passare più: la volontà di Henry di riscattarsi e vivere la propria vita, lontano, con la donna che ha incontrato, è l’altra faccia del lancinante senso di abbandono in cui la sorella passa dall’infanzia alla giovinezza. Torna, il protagonista, a rassicurare Threnody con la sua presenza, con le sue promesse di portarla via, dove vuole. Non fosse che lei – lo  riconosce – non ha mai saputo dove andare. Rimettere in sesto quella casa maledetta piena di ricordi brucianti allora, e poi venderla, ossia: far ordine nel passato familiare, e poi disfarsene. Henry ci prova, e non sappiamo se ci riuscirà.

Non sappiamo se il suo destino sarà lo stesso di alcuni che “vivono la loro vita morendo poco a poco, a volte così piano che quasi nessuno se ne accorge a parte loro”, o se invece sarà fra coloro che “cadono in quell’oscurità impossibile che è la morte senza neanche il beneficio di una fioritura”. In ogni caso – e sono le parole che chiudono il romanzo – “tutti viviamo le nostre vite come se fossimo sicuri del domani”. Tutti eccetto lui, il padre del protagonista, autore, se non di libri fortunati, delle parole che ha voluto sulla propria tomba: “Straniero a questo mondo, il tempo non se ne accorse. Non omnis moriar.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora