“sono sicuro che quanto stava per accadere…”

“(…) sono sicuro che quanto stava per accadere [a Virginia] fosse connesso con la fatica di rivedere il libro e con la nuvola scura che invadeva la sua mente ogni volta che, chiuso un libro, doveva separarsene, quasi ci fosse un cordone ombelicale da tagliare, e lasciare che andasse in stampa e poi arrivasse ai recensori e al pubblico.”

(Leonard Woolf)

“Ho grande stima e ammirazione per gli artigiani…”

“Ho grande stima e ammirazione per gli artigiani, soprattutto di quelli di un tempo, anzi, dirò di più, mi piacerebbe tanto essere artigiano. (…)
Probabilmente si tratta del tipo più sano di processo creativo, che scorre sempre dentro argini ben precisi senza sofferenza, senza ansie, senza romanticismo, senza lacrime e senza estasi, con una tranquilla sicurezza nella propria mano, che sa già da sé che cosa deve fare. E’ geniale, ma senza la minima trepidazione (…). Questa maestria spensierata è lontanissima dallo spirito del nostro tempo, dove tutto è basato sulla sincerità lancinante e sullo sconcerto, oppure sul desiderio di produrre qualcosa di diverso da ciò che è già stato fatto da altri, di vedere, stupire, colpire, e sul terrore di poter andare a finire casualmente su una strada già percorsa da qualche altro.”

(Pavel Florenskij)

Il risveglio della parola. Leggendo Maria Zambrano

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In questi mesi qualcosa o qualcuno si è messo di traverso fra me e la scrittura. E in sé non sarebbe un problema vitale, nel senso che il cuore continua a pompare sangue e i polmoni inspirano ed espirano, sia che scriva, sia che non riesca a scrivere. Il problema è l’inquietudine di fondo, una sorta di tremore, di prurito della mano destra che vorrebbe impugnare una penna mentre la sinistra tiene fisso il foglio.

Si può vivere senza scrittura, almeno per un po’. E’ che lo stesso ostacolo che si frappone fra me e la scrittura si mette di mezzo per ogni altra attività creativa che resta preclusa. Bisognerebbe avere pazienza con se stessi perché, come dicono a Napoli, “ha da passà ’a nuttata”, ma negli anni la pazienza viene meno.

Ho cercato chiarezza nelle pagine di Maria Zambrano che, come sempre, riesce a trovare le parole che a me mancano. O che a volte, come in questo caso, proprio la sua lettura mi porta a scrivere.

***

Il risveglio della parola.

Indecisa, appena articolata, si sveglia la parola. Non sembra che riesca a orientarsi mai nello spazio umano, che va prendendo possesso dell’essere che si sveglia lentamente o istantaneamente. Poiché se il risveglio si compie in un istante lo spazio lo assale come se lo avesse aspettato lì per definirlo, per fargli sapere che è un essere umano e basta. Mentre il fluire temporale, in ritardo sempre, rimane aderente all’essere che si desta avvolto nel suo tempo, in un tempo suo che custodisce ancora senza cederlo, il tempo nel quale è stato deposto fiduciosamente. E la parola si desta a sua volta dentro questa fiducia radicale, che si annida nel cuore dell’uomo e senza la quale egli non parlerebbe mai. E si direbbe persino che la fiducia radicale e la radice della parola si confondano tra loro o si diano in un’unione che permette alla condizione umana di emergere.
E’ di indole docile la parola, lo mostra nel suo destarsi quando comincia a sgorgare indecisa come un sussurro in parole slegate, in balbettii, appena udibili, come un uccello ignaro che non sa dove andare ma si dispone ad alzare il suo debole volo.
Viene ad essere sostituita, questa parola nascente, indecisa, dalla parola che l’intelligenza già sveglia proferisce come un ordine, come se statuisse anch’essa una presa di possesso dinanzi allo spazio che implacabilmente di presenta e davanti al giorno che suggerisce un’azione immediata da compiere, che tutte le comprende. Parole cariche di intenzione. E la parola originaria, ritiratasi in sé, torna al suo silenzioso e nascente vagare, lasciando l’impronta impercettibile della sua diafanità. Non si perde però. Come un balbettio, come un sussurro della fiducia inestinguibile, attraverserà la serie delle parole dettate dall’intenzione, liberandole per qualche attimo dalle loro catene. E in questa breve aurora si avverte il germinare lento della parola nel silenzio. Nel debole bagliore della resurrezione la parola finalmente si stacca lasciando intatto il suo germe, annunciato dal pallido albeggiare della libertà un attimo prima che la realtà irrompesse. E così la realtà rimane sorretta dalla libertà e con la parola avviata a dirsi, a prendere corpo. La parola e la libertà precedono la realtà estranea, che irrompe dinanzi all’essere non ancora compiutamente destatosi nell’umano.

Maria Zambrano, Chiari del bosco

***

Sussurro sottile, sottile, quasi trasparente, limpido come cristallo, soffio di sogno notturno di incerta materia, sospetto. A palpebre serrate pareva luminoso, del colore dell’aurora, splendente. Al sollevarsi delle ciglia si fa indecifrabile, quasi ombra, apparenza, indefinita esistenza.

Si cerca di acchiapparlo, legarselo al polso della memoria, circostanziarlo. Ma proprio l’intenzione di trattenere lo dissolve, come acqua che non può farsi fiume.

Quel balbettio luminoso è perso, ha voltato le spalle deciso. E ci si perde a chiedersi che cosa lo abbia così urtato, addirittura offeso, quale sia la nostra responsabilità in quell’assenza. Perché dentro si sa che di responsabilità si tratta. Non dico di colpa, ma responsabilità.

Disporre l’animo a destra invece che a manca fa una bella differenza, così come lasciare correre imperterrite ombre nei giorni, ostinarsi ad ignorare impronte, segnali sospetti .

Non è di indole docile la parola, ha enormi pretese la parola nascente, sa essere permalosa oltremodo e sdegnosamente abbandona il campo e si ritira in sé, quando l’animo non è sgombro.

Che poi non si perda è tutto da dimostrare. Cacciata a calci una volta, poi due, poi cento, ha tutto il diritto di estinguere la sua innata fiducia nel mondo in un’udibile pernacchia, di alzarsi in volo senza voltarsi indietro.

Resta il fare, fitto susseguirsi di gesti che riempiono spazio e tempo, instupidiscono coscienze, sotterrano fiducia, declamano necessità inderogabili, con parole stantie anche se ben definite ed avverse al silenzio.

Ma è di quel silenzio che non si riesce a non avere nostalgia.

La porta del bagno

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Scrivere è sicuramente esporsi, ma anche la lettura non è un’operazione passiva e gratuita, ha le sue implicazioni. Aprendo un libro ci si dichiara disponibili all’intimità non solo con la parola scritta, ma anche con chi l’ha scritta. Si corre il rischio di un’eccessiva prossimità, di venire a sapere troppo di lui.
Nel contempo si entra in una sfera di complicità che può far perdere l’orientamento, fin a farti dubitare della paternità delle parole distese sulla pagina: le si sta leggendo o le si è scritte in un’altra vita?
Non che possa venire il dubbio di aver scritto in prima persona quella storia nel suo insieme, ma quella frase o forse solo quelle due parole in quella successione perfetta, proprio quella, sarebbero potute uscire dalla penna del lettore stesso. O forse questo è quello che nell’intimo si sta desiderando: avere messo al mondo quell’equilibrio.
A volte, certi passaggi, non per forza nei nodi cruciali della storia, anche solo alla periferia del racconto o in parole che per altri potrebbero risultare marginali, istituiscono per quel lettore una magica aderenza a quello scrittore. Inspiegabile ma perfetta. E il lettore e lo scrittore, da quel momento in poi, non sono più gli stessi, singolarmente e insieme. Soprattutto insieme. Non si sta più insieme allo stesso modo dopo certi libri. Magari alla superficie la metamorfosi non è evidente e il ritmo delle onde appare immutato. Ma i due, il lettore e lo scrittore, lo sanno. Non si guardano più allo stesso modo, non si percepiscono più come prima, pur nell’incompleto conoscersi. Qualcosa è cambiato ed è qualcosa che conta anche se non si vede. Come è noto, non tutto ciò che conta risulta visibile, anzi.
A volte si è traditi dalla semplice inflessione della voce, altre da uno sguardo più sfuggente, come intimoriti dall’aver così tanto condiviso. Forse è il pudore che induce a ritrarsi. Un anglosassone passo indietro per non urtare sensibilità, per non sembrare invadenti, come a garantire di aver solo buttato uno sguardo nell’animo dell’altro, non di più.
Come se per errore si fosse entrati in bagno mentre l’autore faceva pipì, ci si ritrae fingendo di non aver visto nulla. Ma, paradossalmente, non è il segreto dello scrittore che crea l’impasse, è quello del lettore che lo scrittore ha messo a nudo. Non è chi legge che varca la soglia del bagno altrui, è lo scrittore che, incautamente, entra nel bagno di chi legge. E l’imbarazzo sta proprio nel sentirsi scoperti, nel veder squadernata la propria intimità, quando si credeva che di sé fosse visibile giusto il naso.
Forse è che i segreti si assomigliano, così come la vita di tutti. E’ che le angosce non sono poi così originali e ci si può autenticamente chiedere se siamo noi che osserviamo o se in realtà, in alcune pagine, siamo stati osservati. Qualcuno impunemente ha frugato nell’animo nostro.
Certo è che leggendo certi libri, dopo ma anche durante, si comincia a vederci meglio. E non si vedono bene tanto i segreti, ma tutto l’insieme, pur in quella confusione del guardare e dell’essere guardati che forse è ciò che ti consente di vedere. Anzi è proprio quando si cammina incerti, incespicando, quando non si rifugge l’ambiguo confondersi e si accarezzano gli indefinibili confini della nebbia, che si generano meraviglie.
Si legge e si scrive senza soluzione di continuità. Non si riesce a scrivere se non si impara a leggere. Non si può leggere se non si accetta il rischio che la scrittura propone, se non ci si apre alla parola.
Si scrive e si legge non sempre in successione. A volte si scrive mentre si leggono le parole significative di altri, come raccogliendo una gugliata di filo per terra e srotolando una matassa di lana. A volte si leggono nelle parole di altri i propri pensieri, altre volte si scrivono le emozioni di altri, percepite sulla pelle quasi per caso, assorbite in conversazioni o in semplici sguardi.
E in questo gioco di nascondimenti e di svelamenti, si aprono la porta del bagno di chi legge e di chi scrive e si continua a leggere e a scrivere per restare in vita.

Maria Zambrano: perché si scrive

Non per imparare a scrivere, ma per capire perché si scrive conviene leggere quello che chi si dedica a questa pratica ha detto della propria attività. Non sempre però, o raramente anzi, si trovano spunti illuminanti nei testi che programmaticamente si propongono di rispondere alle domande decisive: perché e per chi si scrive? da dove nasce il desiderio di scrivere e il piacere di farlo?
Il più delle volte è in passaggi brevi, di fatto o apparentemente incidentali – in racconti, romanzi, saggi che parlano d’altro – che si trovano spunti interessanti.
Ci sono però eccezioni. Come lo scritto di María Zambrano del quale si propongono qui alcuni passaggi essenziali (il testo integrale si può leggere in María Zambrano,
Verso un sapere dell’anima, Milano, Cortina, 1996).
Se lo scopo di questa sezione del nostro sito è quello di raccogliere, oltre che riflessioni e resoconti, anche citazioni più o meno corpose attinenti all’esperienza dello scrivere, iniziare con la rilettura delle risposte della Zambrano alla questione che lei stessa pone,
perché si scrive, può essere un buon inizio.
(secondorizzonte/c.s.)

MARÍA ZAMBRANO
Perché si scrive

Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento effettivo, ma comunicabile, nel quale, proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta di rapporti tra esse.
E’ una solitudine, però, che non ha bisogno di essere difesa, che non ha bisogno cioè di giustificazione. Lo scrittore difende la sua solitudine, rivelando ciò che trova in essa e in essa soltanto.
Se esiste un parlare, perché scrivere? Ma l’espressione immediata, quella che sgorga dalla nostra spontaneità, è qualcosa di cui non ci assumiamo interamente la responsabilità, perché non emana dalla totalità integrale della nostra persona; è una reazione sempre dettata dall’urgenza e dalla sollecitazione. Parliamo perché qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’esterno, da una trappola in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie alla parola ci rendiamo liberi, liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea. Ma la parola non ci pone al riparo, né pertanto ci crea, anzi, il suo uso eccessivo produce sempre una disgregazione; per mezzo della parola vinciamo il momento e subito dopo siamo vinti da esso, dalla successione di momenti che superano il nostro assalto senza lasciarci rispondere. È una continua vittoria, che alla fine si trasforma in sconfitta. Leggi tutto