Smettila di remarmi contro

Ruderi, solo ruderi coperti di muschio, si dice scrollando le spalle, mentre apre la porta di casa. Odore di chiuso. Il gatto le viene incontro stiracchiandosi. Anche lui ha fame. Croccantini per lui, passato di verdura per lei ascoltando il radiogiornale.
E rieccomi nel pantano della quotidianità.
Silenzio, nessun passo familiare sulle scale, ha quasi nostalgia del puzzo di curry e di aglio dei vecchi vicini indiani, delle loro voci cantilenanti. Li hanno fatti sloggiare tutti, gli immigrati, li hanno pigiati nella periferia sud della città, in casermoni grigi e tristi e il quartiere dei disperati è stato ristrutturato ed è diventato borghese e lustro. Ora ognuno in casa sua e, al massimo, qualche nota di musica classica.
La vita mi è andata liscia, pensa spazzolandosi i denti.
Sopportabile” ribatte l’ex vicina genovese che le si fa incontro dallo specchio, le sclere gelatinose. “Sicura di non aver vissuto la vita sbagliata?”
“Vecchia megera” urla Maria sputacchiando dentifricio. Vorrebbe schiaffeggiarla, strapparle almeno una ciocca di capelli. “Con che diritto? Non sai nulla di me, di me dopo Genova. E tu? Tu sei stata sposata o sei sempre vissuta sola, sola e orba, con quegli occhi lattiginosi? Sì sono stata felice, per quel che si può, come tutti, felice a tratti, una felicità malinconica.”

Genova, che città. Ci ha passato l’intero fine settimana con Laura che lì vive da anni.
“Non ci posso credere. Allora tu abiti qui?”
“Te l’avevo detto che ci siamo trasferiti ai Caruggi, ricordano il nostro vecchio quartiere del Carmine, quello di prima, quello dei poveracci.”
“Ma il palazzo, proprio lo stesso palazzo Grillo Cattaneo.” E, come per uno schiocco di dita, si rivede lì trent’anni prima, le chiavi in mano, il portone troppo pesante. Cigola ancora.
“Ci ho abitato con Luca, te lo ricordi Luca? Tanti anni fa, su al quinto piano”.
“Noi stiamo al quarto” e scoppia a ridere incredula Laura, “avrà pure un significato il tuo ritorno sul luogo del delitto.”
“Ma che delitto e delitto, lui era in piena salute quando me ne sono andata, te lo assicuro.”
E poi, che significato ci può essere negli incroci del destino, non l’ha deciso lei di tornare, è il passato che s’è piccato di riacchiapparla. Eppure non può, o forse non vuole, sfuggire a quel che di familiare, a quel fragile riverbero, come se le cose di un tempo volessero tornare a parlarle, a lei che è scappata, come se dovesse ancora una volta assistere alla fine di qualcosa.
Quante cose abbiamo fatto insieme io e Laura: la scuola elementare, poi le medie. Più tardi la ventata d’aria fresca del femminismo: notti di racconti, sogni, inconscio parlante, amori fatti a pezzi, ruoli rifiutati in nuvole di fumo. Dio mio quanto si fumava in quegli anni.
Anche se non si vedono spesso, torna ogni volta la confidenza di sempre, l’intimità di cose che non vanno spiegate.
È bello stare con lei, sa ascoltare, sa darti l’impressione che tutto sia a posto. E poi quegli sprazzi improvvisi di allegria…
“Bisogna risparmiare il fiato: a una certa età quattro piani si fanno sentire.”
“Ma tu non ti sei appesantita affatto. Guarda me, dopo le gravidanze non sono più tornata in forma e poi la menopausa ci ha messo la ciliegina.”
“Però hai meno rughe, noi magre abbiamo l’età scritta in faccia.”
Più salgono, più il sole spiove di traverso dai finestroni che affacciano sulla chiesa di San Cristoforo con le sue tegole stondate. Pulviscolo, quanti di luce cozzano contro la vulnerabilità di un ricordo.
Anche le gambe sembrano ricordare: gradini disuguali, leggermente sfasati. Fra il secondo e il terzo piano c’è ancora quello sbeccato. Alle volte i ricordi possono essere fedeli.
Sicuramente lo stabile sarà vincolato e ogni miglioria negli spazi comuni proibita.
L’appartamento di Laura invece è completamente ristrutturato, minimalista, arredamento essenziale e tutta roba stile modernariato. Tanto spazio vuoto. Pareti invariabilmente bianche. Tre bambini si contendono un trenino.
“Salutate la mia amica Maria. Sono i miei nipoti: i maschi sono figli di Alice, la piccolina è di Michele.”
Neanche fanno cenno di aver sentito.
“Sono dei trogloditi. Non è che i genitori si sforzino più di tanto nell’educarli: avranno tempo nella vita per fare la piega, mi dicono. Non sei abituata a tutto questo casino vero?”
“A casa mia tengo in ordine, sai che sforzo, sono sola.”
Sa di aver bisogno di spazi ampi e puliti per circoscrivere il caos. Vuole la scrivania libera, allora al mattino, mette tutte le pagine scritte il giorno prima su un tavolinetto, sì perché scrive ancora sui fogli di carta, ci impila vicino anche i libri che ha consultato, spolvera e, con una tazzina di caffè, comincia a sgobbare.
“Ma qui da te è bello, è più allegro.”
Passa lo sguardo su quella stanza piena di giocattoli, merendine sbocconcellate sul tavolo, vasetti di yogurt rovesciati a terra.
No, non poteva proprio essere la mia vita. La maternità non è l’unica strada possibile, una donna può generare anche altro.
E, mentre lo pensa, le si dipingono in testa i volti delle sue studentesse dell’università: ragazze determinate, addirittura ostinate, cui è difficile non affezionarsi almeno un poco.
“Vuoi giocare a dama con me?” le propone la più piccola. Bionda come Laura, agli angoli degli occhi piccole increspature d’entusiasmo: come negarsi? Maria si siede sul pavimento un po’ impacciata. Le regole del gioco riemergono sicure e poi sfumano: lei e suo fratello che si sfidano, in palio la cioccolata alle nocciole e poi lui, che non sa perdere, che rovescia la scacchiera.
Le piace ancora giocare a dama, le piace quel visino paffutello, la lingua stretta fra i denti per la concentrazione: riconosce nella sua espressione qualcosa di sé bambina.
Ma che cosa mi viene in mente? Mica è mia nipote, si dice mentre non riesce a impedirsi di immaginarsela già donna e l’avvolge un’onda di sentimenti caldi.

Un giro per i vicoli del quartiere sottobraccio interrompe i suoi pensieri, il suo pesare e ripesare tutto allo scopo di confermarsi che è andata bene così, che non ha rinunciato a nulla.
Genova non sembra troppo cambiata, solo un po’ più lustra: sono sopravvissuti i negozietti, ora più turistici di un tempo, quel po’ di sporcizia che in una città di mare ci vuole, le chiese, qualche puttana per strada. Di nuovo c’è il museo dedicato a De André, il vezzo di nominare pietanze con il titolo di una sua canzone, qualche targa sui muri a indicare che proprio lì lui si è ispirato. In fondo, devono pur campare i genovesi.
Uscite dal dedalo dei Caruggi una luce baluginante inonda gli occhi e lo spettacolo della città verticale, con la sua tristezza gentile, mozza il respiro. Poi il porto antico, il vecchio vascello e il mare.
“Il mare, per noi montanari, è sempre una sorpresa, una magia. Come si viveva bene in questa città, com’era tutto elettrizzante quando stavo qui con Luca” le scappa detto quasi contro la sua volontà, perché la sente ancora quell’attrazione provata tanti anni prima, mista a un ironico senso di tepore, forse un rimpianto.
Sarà andata proprio così? O me lo sto inventando? Eravamo davvero felici?
Un lampo illumina un passaggio segreto e d’un tratto la stanza della memoria, fino ad allora sigillata, si spalanca su un amore di quelli rari: lui un magnete, lei un pezzo di ferro. Si incastravano quasi alla perfezione.
Quando l’ho conosciuto non c’era in lui nulla che avrei voluto diverso, stare con lui era come entrare in una stanza calda, accogliente.
Lavoravano ognuno alla propria scrivania in quel vecchio appartamento di palazzo Grillo Cattaneo, quinto piano, vista tetti. Poi linguine col pesto e poi ancora scrittura, riscrittura, rilettura, lettura ad alta voce.
“Troppi aggettivi, cancella, riduci, non devi spiegare, devi far succedere.”
Pagine strappate, accuse, ritrattazioni, lacrime, abbracci, altre righe, altre pagine, altre cancellature in un infinito ricominciare da capo. La voce di lui premurosa, poi un velo d’accusa, la sua ostinazione nevrotica, le sue opinioni taglienti.

Ancora gradini per rientrare: sessantasette. Da quando sta invecchiando, l’è presa la mania di contare i gradini.
“Chi non muore si rivede” l’accoglie, con un’espressione di sorpresa, la voce nota di una vecchia vicina, quella del secondo piano. È ancora ben tenuta, nonostante gli anni: cappottino diligentemente abbottonato, foulard in tinta e capelli cotonati stile anni cinquanta.
“Complimenti, mi riconosce dopo tutti questi anni?”
“E come no? Noi ciechi abbiamo il sesto senso, e anche il settimo. Come sta? E quel bel ragazzo, l’ha poi sposato? Vi ho pensati spesso, sa. Noi vecchi non abbiamo di meglio da fare. Non mi dica che se l’è lasciato scappare” le chiede frugandole il viso con i suoi occhi opachi.
“E invece sì, ci siamo lasciati, l’ho lasciato io, s’immagini.”
“E io che vi vedevo con una schiera di figli. Anche noi che ci crediamo di guardare dentro, alle volte non ci azzecchiamo proprio.”
La voce di quella donna, velata di delusione, ricompone i frammenti di un amore di pancia, uno di quelli che ti investe come vento impetuoso.
“Ho dimenticato il latte per i bambini” butta lì a precipizio Laura. Salutano in fretta e sono di nuovo fuori. Ora i vicoli sono ancora più scuri, le pareti alte dei palazzi paiono incombere, schiacciare a terra.
“Non la sopporto quell’impicciona, puzza di naftalina e di lacca. Chi la mette più la lacca? E poi quella pettinatura, come farà a pettinarsi un cieco? Dimmi tu che cosa gliene frega se vi siete sposati” e intanto, con una piccola pressione sul gomito, la spinge in un’osteria, un corridoio stretto, tre tavoli sgangherati, un paio di vecchi incartapecoriti.
“Armando, lo spieghi tu alla mia amica straniera che cos’è questa delizia? “
“E’ Corochinato, l’aperitivo tipico di Genova. Lo chiamano l’aperitivo dell’asinello, per via dell’asino sull’etichetta. È un vino aromatizzato alle erbe e si beve mangiando focaccia.”
“Ai nostri sessantacinque”. Laura alza il calice e sorride.
“Oddio, ti ricordi ancora le date. Non sai che dopo i sessanta la regola è: evitare gli specchi e dimenticare i compleanni?”
“Dimenticare dimentico, altroché: alcune parole, l’elenco della spesa. Ricordo invece i numeri dei telefoni fissi che non usa più nessuno, non c’è verso di cancellarmeli dalla memoria. Mi ricordo di voi due: eravate proprio una bella coppia.  Non c’è in lui niente che vorrei diverso  mi dicevi allora.”
E le racconta di quanto le piacesse leggere gli articoli di Luca, la sua abitudine di inserire ogni evento nel contesto sociale, economico e politico.
“Ci imbroccava e mi aiutava, con le sue analisi puntigliose, a farmi un’opinione.”
Maria ascolta assorta e lo rivede curvo alla scrivania, le pare addirittura di sentire il suo cervello al lavoro, un retino a maglie strette cui nulla sfuggiva, la sua memoria un ingranaggio sempre perfettamente oliato, il suo ingegno una torcia puntata dritta sulle ragioni di un conflitto sociale. Rincorreva la preda come un mastino e, una volta afferrata, si metteva a scrivere.
In realtà, a lui più che scrivere piaceva investigare, studiare. Analizzava la realtà politica passandola al vaglio della storia, confrontava gli eventi dell’oggi con gli accadimenti di ieri per scoprire analogie, richiami che andavano tenuti in conto.
Scriveva molto, troppo: periodi infiniti, frasi contorte. Dall’ansia di essere preciso, esaustivo scaturivano frasi verbose, aggrovigliate. Aveva il vezzo dei termini desueti, una sorta di snobismo linguistico, uno sfoggio da saputello. I primi anni, correggere i suoi scritti era un’impresa, in sostanza Maria li riscriveva: potava, cancellava, accorciava alla grande.
“Tu sei diversa, certo non scrivi saggi politici. I tuoi racconti li leggo eccome e anche i romanzi: una potenza, si sente che scrivi di getto, d’istinto.”
“Affatto, mai scritto di getto.”
Lei su ogni parola medita giorni, riscrive, rilegge ad alta voce, destruttura un racconto venti volte prima di sottoporlo a revisione. È che per lei non c’è separazione fra il tempo dell’analisi e quello della scrittura, la comprensione arriva scrivendo. È il gesto stesso dello scrivere che se la porta dietro in un flusso continuo. Scrivere per Maria è legato al movimento: quello della mano e del polso sul foglio e quello dei piedi sullo sterrato. Perché, prima di mettersi seduta, ha bisogno di correre o di camminare, di stare fuori, di pulirsi il cervello dalle scorie della vita quotidiana per lasciare emergere ciò che va scritto.
E rieccolo Luca, il primo lettore dei suoi testi, le si dipinge in testa a contorni netti: seduto diritto, i piedi incrociati, le mani serrate a pugno, il corpo perfettamente simmetrico, come se la simmetria lo aiutasse nell’analisi. C’era una sorta di invidia crudele nel suo farle a pezzi le frasi, quasi una volontà di snaturarle.
“Cancella quegli svoli, non sono credibili” e non c’era verso di convincerlo che è l’esistenza stessa a non esserlo, che i giorni possono prendere pieghe fantasmagoriche, incredibili appunto.
Certo Luca era più abile nell’uso della punteggiatura, le sue opinioni più chiare, più acuminate e sapeva esprimerle in modo brusco, definitivo e, quando la si pensava diversamente, non si poteva non percepire nel suo sguardo quel velo di disapprovazione.
“In realtà, io mi sentivo in colpa per la mia riuscita, come se dovesse toccare a lui più che a me” confessa Maria aggredendo il secondo bicchiere di Corochinato.
Anche nella scrittura da lui aveva dovuto difendersi, fare barriera. Aveva imparato, negli anni, a non fargli leggere proprio tutto, a non dargli troppo spago, a non lasciarsi addomesticare. Perché scrivere non è sempre “stare con i piedi per terra”, come la esortava a fare lui, una vita può essere raccontata gabbando la cronologia dei fatti, estrapolando, sgommando fuori pista.
“Se volevo provarci davvero a scrivere, dovevo sottrarmi, farmi spazio, uscire dalla sua sfera di influenza.”

Il buio entra dalla finestra. Pulisce lo specchio dagli spruzzi di dentifricio. Che follia prendersela con una vecchia cieca comparsa in un riflesso. Scrolla le spalle per zittire i presenti trascorsi, i ricordi aggressivi e quel rammarico, quella sensazione che qualcosa fosse fluito via da lei.
Quest’esistenza mi è andata bene fino alla settimana scorsa, inutile continuare a rigirarsi le cose nella testa, si dice con la sensazione di tornare in sé.
Non è troppo stanca per provare a scrivere. La scrivania l’accoglie con un dito di polvere. Sgombra e pulisce, nell’ordine esatto della liturgia quotidiana. E, come sempre, l’ansia del foglio bianco, quella distesa infinita di possibilità. Come la vita. Si tira su un filo, si svolge il gomitolo. Magari si crede anche di avere un progetto, ma sono balle, la strada si fa da sé. Poi, certi giorni, si invecchia di colpo, come se si passasse un segno sulla linea del tempo.
Alla radio un programma musicale, musica rock: “…keep me searching for a heart of gold, and I’m getting old…”.Neanche lo sapessero che Neil Young mi mette malinconia. La musica quando si è vecchi è rischiosa.
Lei e Luca ballavano in casa sulle note di questi brani, così, per ridere.
Quante cene tirate per le lunghe resuscitando ricordi. Anche quando l’infanzia è lontana, si continua a tirarla in ballo: genitori, nonni, paure, crucci. Si rumina su scelte mancate, su incontri fatali, sulle cavità e sui crinali dell’esistenza.
Riuscivamo a parlarne per ore, mettevamo lì sul tavolo gli anni che non ci avevano visti insieme come per riparare uno strappo su una tela, per ricucire le nostre vite precedenti al presente.
Smette di scrivere, morde la penna e osserva i frammenti di quel mosaico antico.
Parlare con lui mi faceva sentire in pace, felice. Lui aveva l’incredibile capacità di dire la cosa giusta al momento giusto.
Oppure restavano in silenzio, ognuno impegnato nel proprio lavoro, un silenzio lieve.
Nessuno mi conosceva così a fondo, nessuno sapeva abbracciarmi come se si scavasse una tana nel petto. Lui era la mia bussola nella tormenta.
“Alt, non è nella mia indole il rimpianto. Torniamo ai fatti” si dice con un tono di voce troppo alto per reprimere la mollezza stucchevole di quei ricordi e quell’insopprimibile sensazione di perdita.
I fatti, che parola infida, ognuno se li riaggiusta a suo modo. La verità, ognuno ha la sua ed è vera per lui. Non è possibile raccontare una storia in maniera fedele, le parole cadono afone nel tessuto di una vita.
“E’ successo, me l’ha comunicato l’editore, e neanche ci credevo. Sono rimasta lì, in piedi come un’allocca. Avrò messo su la faccia della beota di sicuro, da tanto ero felice. Comunque è tutto vero, cavoli, proprio vero. Comincio lunedì: un incontro con lo staff di Roma.”
Il rubinetto dell’acqua cigola, i piatti sbatacchiano. Luca neanche si gira, tace, concentrato sul suo lavoro, come se sciacquare fosse l’unica cosa importante.
Maria fissa quelle spalle, quel muro che non si fa abbraccio, gioia. Esultanza s’aspettava, che la riempisse di complimenti, la invitasse a cena per festeggiare o almeno un brindisi.
“Ma che ti viene in mente, accettare di dirigere una rivista letteraria a tiratura nazionale”?
Quella punta d’odio, di rancore o forse d’invidia nel tono della sua voce, le si conficca dentro e comincia a scavare.
“Dovrai viaggiare di frequente, lavorare ancora di più. Perché non accontentarti di ciò che hai? E se ci capita un figlio?”
“Un figlio? E chi ne ha mai parlato? E poi i figli non capitano, un figlio lo devi scegliere”.
Mi aveva sempre incentivata a scrivere, a impegnarmi nel lavoro, mi aveva lodata, supportata e ora, proprio ora che stavo prendendo coraggio, mi ostacolava.
Erano state quelle parole, espresse con il suo tono garbato ma con un fondo di acido sarcasmo, che avevano innescato in me una lucida chiaroveggenza, svelando percezioni, la filigrana di un intoppo.
E quell’espressione compiaciuta sul suo viso, la sua ruvida baldanza, quel che di feroce e un po’ tirannico che si metteva contro, fra me e lo scrivere.
“E’ solo ambizione la tua, ti sei montata la testa e non vedi più i tuoi limiti. Sei solo competitiva, il tuo non è amore per la scrittura, tu cerchi riconoscimenti, ammettilo” e mi porgeva una tazzina di caffè.
“Al diavolo, smettila di remarmi contro” avrei voluto urlargli, avrei voluto versarglielo in testa bollente il caffè e invece, sfiorandogli la mano, mi ero morsa la lingua un’altra volta, come se una parola di troppo avesse potuto sfondare un argine che ancora teneva.
Che cosa si annidava nel suo desiderio di disciplinare i miei sogni? Si ergeva presuntuoso, moderno Mr. Ramsey, per preannunciarmi che avrei dovuto rinunciare alla mia “Gita al faro”. E quanto erano fragili i miei sogni se svanivano al cospetto della sua ostinata disapprovazione? Dov’era il mio cuore di leone? Perché ci mettevo un coperchio sopra? Forse digerivo i rospi nella convinzione che, per una come me, ci volesse un uomo altrettanto forte, che uno accomodante lo avrei masticato per poi sputarlo lontano. O magari pensavo di non meritarmela la felicità.
Poi c’era stato quel giorno, non un giorno speciale, uno qualsiasi, in cui chissà perché aveva percepito acutamente il desiderio di alleggerirsi la vita.
Le era scoppiata dentro una rabbia improvvisa come una stoccata. Non che nel profondo quelle cose non le sapesse, aveva cominciato a farsi strada da tempo in lei la consapevolezza della facilità con cui una vita può essere danneggiata.
Era rimasta seduta in cucina per un bel po’, come se il suo stomaco avesse avuto bisogno di tempo per digerire la questione. Poi le parole avevano preso forma nella sua bocca. Non le solite parole acuminate per ferire, parole semplici: “Accanto a te divento un’ombra, perdo spessore, perdo identità. Non ho più voglia di essere la me che è con te.”
Davanti a quel ricordo nitido e crudo fatica a reggere.
C’è sempre un prezzo da pagare, non ti regala proprio niente la vita.
Si versa un bicchiere del Corochinato che si è portata da Genova: dovrebbe bastarle per sentirsi alticcia. Tutto si mescola e si trasfigura: le esili e ingenue speranze di una ragazza di provincia, gli occhi di quel ragazzo che la facevano bella,il suo sguardo che da tagliente si mutava in dolce, la sua abilità a tradurre i suoi silenzi, la sua intransigenza, la scarsa o nulla propensione al perdono, l’impercettibile inclinarsi del suo mento, la sua attitudine a consolarla.
Comincia a piovere nel cielo invariabilmente grigio di novembre, goccioline caparbie tamburellano sui vetri, strisce di nubi corrono via veloci in quel poco cielo che i palazzi lasciano intravvedere. Ora, nella semioscurità della stanza, spettatrice dei suoi ricordi, prova ad allargarli, distenderli, farli combaciare con le terre sconosciute che si porta dentro e, finalmente, comincia a scrivere.

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